Bisogna cominciare da Kafka. No, non si tratta di sviscerare l’angoscioso tour de force del povero Joseph K., protagonista de “Il processo”. Il fatto è che sul micidiale trappolone teso allo sventurato impiegato, nasce la fascinazione di Andrej Longo per la scrittura. Un libro trafugato di notte e consumato come una passione segreta e improvvisa. Scrivere. Nessun proclama e niente invettive. Invece, se tanto si può dire, una rabbia lucida e costruttiva. Dedizione necessaria per tutti i sogni e le speranze che vale la pena inseguire fino in fondo. Con la solita lunga giovinezza dietro le spalle e un deserto di occasioni davanti al semplice proponimento. Nel frattempo, gli scacchi, la laurea al Dams, la passione per il mare, corsi di regia, cinema e sceneggiatura, la radio e il teatro. Il tempo di pubblicare romanzi non arriva mai, così Andrej Longo impara un altro lavoro, il pizzaiolo. Nel 2002 l’editore Meridiano Zero pubblica la raccolta di racconti “Più o meno alle tre”, ispirato al crollo delle Torri gemelle di New York. L’anno successivo esce per Rizzoli “Adelante”, vincitore ex aequo Sezione Narrativa Premio Nazionale Letterario Pisa. Ma la svolta c’è quando la snobissima Adelphi pubblica “Dieci”, serie di racconti ambientati a Napoli e ispirati ai dieci Comandamenti. I personaggi che si agitano sotto il cielo di una città fortemente problematica sono complessi, imprevedibili, sfuggenti, irriducibili. La temperatura emotiva dell’autore lo spinge a stargli addosso per misurarsi con il loro mondo, senza perciò chiudere le vite in un disegno preconfezionato. E’ il linguaggio, spigoloso, incalzante e frontale, lo strumento di Andrej per arrivare al cuore del pubblico e al consenso della critica. Lo stesso utilizzato ne “L’altra madre”, sempre per Adelphi, l’ultimo romanzo dello scrittore ischitano in cui le vite di un adolescente napoletano, Genny, e di una poliziotta, madre di una ragazzina che dorme ancora in una “stanza pittata di stelle”, si incrociano nel modo più tragico possibile. Soffrono, vivono, cercano una fuga dal reale, così come un contatto troppo forte con esso. Quasi sempre fatale.
C’è uno spunto narrativo, un’idea di fondo, che ti ha portato a scrivere “L’altra madre”?
Si sono messi insieme tanti tasselli. Il fatto di cronaca, l’adolescenza, Napoli al femminile, una scena a cui ho assistito per strada. Elementi che, come in un cocktail, si sono combinati fino a indicarmi una direzione. Quando immagini una storia, non è mai così precisa. Almeno per me. E’ come se vedessi una luce da seguire, senza sapere bene dove mi porterà.
I protagonisti sono stati un ragazzino e una poliziotta sin dall’inizio?
Il ragazzino nasce da un’immagine nitida che ho visto per strada: portava caffè in motorino, guidando con una mano sola. Mi sono detto subito: finirà in una mia storia. La poliziotta è venuta fuori più lentamente, come personaggio. Sapevo che c’era una figura femminile, non avevo chiaro quale sarebbe stata.
Su Napoli, ambientazione di tante tue storie, grava un carico pesantissimo di stereotipi. In negativo e in positivo. Per molti narratori, una città piena di trappole. Non ne hai paura?
Gli stereotipi sono carne viva sulla quale lavori, parte del racconto di un luogo. Li sfrutti, li pieghi al tuo volere, magari creando un contro-stereotipo. Non vanno temuti, ma devi essere abile a non caderci troppo dentro.
Pensavo al modulo dialettico “guardie e ladri”, come se la città rischiasse di restare inchiodata a questa polarizzazione, anche narrativa.
Mi sembra lontano, in verità. Le schermaglie tra guardie e ladri si trovano soprattutto nelle commedie. Certo, il ragazzino è una figura molto presente nella realtà e nella narrativa napoletana. Il personaggio di Irene, invece, non è usato come poliziotta. E’ una madre, portatrice di un dolore inaudito che cerca giustizia, quindi personalmente ci vedo altre cose.
Hai detto: non è Napoli ad aver tradito i propri figli, ma sono i figli ad aver tradito la realtà. Eppure questi figli sono il risultato di un ambiente sociale, culturale, economico che si manifesta in mille tentacoli fatali, dentro una metropoli indubbiamente complicata e faticosa.
Era una risposta a una considerazione sulla città come luogo accogliente, allegro, molto materno, Napoli dalle grandi potenzialità inespresse, o che faticano a esprimersi compiutamente. E’ stata sfruttata, saccheggiata, deteriorata, da questo punto di vista è diventata una madre cattiva, una matrigna. In ogni caso, siamo costretti a fare i conti con i tempi e luoghi nei quali viviamo.
Tu che rapporto hai con la città? Ci vivi, ci vivresti?
Ci vivo alcuni mesi dell’anno. E’ unica, questa unicità crea un forte legame per cui vale la pena di starci. Poi dipende che cosa devi fare, forse una vita quotidiana classica è faticosa, richiede molta energia, molto tempo, resistenza. Se avessi dei figli piccoli, e dovessi vivere a Napoli, forse ci penserei due volte.
Qual è la dannazione più grande che grava sulla gioventù a cui appartiene Genny, il giovane protagonista de “L’altra madre”?
Dare la colpa ad altro. Ci arrangiamo perché… Facciamo certe cose perché… Troviamo delle giustificazioni continue per quello che succede. Non è una maledizione che grava solo sulla gioventù.
Quale la sua salvezza?
E’ molto difficile immaginare un cambiamento senza una volontà forte che ti permetta di modificare le cose, elevare il livello culturale medio, trovare un senso alle periferie, un’organizzazione. Il singolo può lottare, naturalmente, ma per cambiare davvero ci vuole uno Stato più presente, una strategia più ampia, profonda e a lungo termine.
Ci sono dei passaggi di questa storia che hai dovuto affrontare con più cautela? Penso, ad esempio, al tema della giustizia che diventa vendetta…
Il ragazzino ha un percorso di crescita abbastanza elementare. La donna è più delicata, deve gestire la sofferenza per la perdita terribile che subisce, il suo dolore resterà per sempre, e maschera il desiderio di vendetta con la necessità di fare giustizia. Con una sensibilità umana particolare, una sua etica. Condividere tre giorni di reclusione forzata con lui, che ha la stessa età della figlia, la porta anche a un sentimento ambiguo. Genny diventa memoria della ragazza. C’è un bellissimo film, “Le tre sepolture”, di Tommy Lee Jones, che ho tenuto sempre presente in fase di scrittura. Il protagonista, amico di un messicano ucciso per errore dalla polizia di frontiera, si fa giustizia da solo perché gli altri conoscano chi era la persona che è morta.
Non temi di essere risucchiato nel gomorrismo dilagante?
Nella serie tv “Gomorra” mi pare sia stato fatto un ottimo lavoro di scrittura e di ricostruzione con attori molto bravi, racconta bene quel mondo e quell’ambiente. Detto ciò, non ho particolari timori di essere assorbito da questa tendenza: ne “L’altra madre” come in “Dieci” ho tentato di raccontare quello spazio che esiste tra la camorra e la normalità, per vedere cosa c’era, come si muovono le persone, cosa fanno, sentono. La camorra è un’altra cosa, un altro tema.
In alcuni momenti decisivi, penso allo scippo al Vomero, o al finale, hai usato quello che al cinema viene chiamato montaggio incrociato. Ti dà fastidio quando la tua scrittura viene definita cinematografica?
No, seconde me è un complimento. Il cinema è immagine, lo vedi. Se con la scrittura riesci ad evocare un’immagine, una scena, uno snodo importante, vuol dire che funziona, che ha una sua forza.
Il linguaggio molto particolare che usi per la tua scrittura viene affidato ne “L’altra madre” anche al narratore. Che di solito tutto sa e tutto vede, ma si mantiene a debita distanza.
Volevo un terzo meno asettico, più coinvolto. Come un testimone affacciato al balcone, che sta lì e soffre insieme ai protagonisti. Infatti, ho usato una lingua presente che coinvolge di più. Una lingua anche un po’ sporca, come se il narratore venisse da quei posti, li conoscesse bene. Un tentativo riuscito, credo.
Tranne forse in pochi casi – penso a “Non dire falsa testimonianza”, da “Dieci”, o alcuni episodi di “Più o meno alle tre” – le tue storie prevedono un finale aperto alla speranza. Anche ne “L’altra madre” uno squarcio di luce si apre per i protagonisti alla fine di questa storia. E’ un’opportunità che hai voluto dare di proposito?
Devi lasciare aperta una porta, non puoi mettere un punto su ogni cosa. In “Dieci” i personaggi raggiungevano comunque una consapevolezza: da quel momento in poi si apriva un’altra possibilità, un’altra strada da percorrere. Ne “L’altra madre” ci sono due vite di fronte a un futuro che non sappiamo quale sarà: una è completamente travolta dal dolore, l’altra immersa in una sorta di ricostruzione. Ho provato a immaginare altre chiusure, mi riusciva difficile. Se ci pensi, nella vita rimane sempre uno spiraglio, anche se poi, di fronte alle avversità o alle tragedie, ognuno reagisce in maniera diversa. Un po’ di speranza volevo lasciarla, mi sembrava giusto, soprattutto per Genny.
Tu pubblichi per Adelphi, casa editrice prestigiosissima e aristocratica. Com’è stato il tuo percorso editoriale? Felice? Con qualche ombra?
Il rapporto specifico con Adelphi è nato casualmente, ma è importante perché è una casa editrice molto attenta a quello che gli dai da leggere. Mi ha rifiutato un paio di libri, saggiamente ho atteso prima di proporli a un altro editore. Avevano ragione, non erano storie fondamentali, necessarie, forse non avevo dato abbastanza. C’era un motivo, a quel rifiuto. Che tu abbia già pubblicato dei libri, magari vendendo anche tanto, non ti garantisce che poi pubblichino qualsiasi cosa. Con Adelphi sei sempre un esordiente. Questo è molto utile per uno scrittore.
Quali sono gli scrittori che ami di più e perché?
Una notte ho preso a caso un libro dalla biblioteca di mio padre: era “Il processo” di Kafka. Me lo ricordo perché era il primo, un libro verde, rubato di nascosto perché non volevo dare a mio padre la soddisfazione di leggere. Poi c’è Carver, che mi ha aperto il mondo dei racconti, quello che avevo in mente, che provavo a scrivere. Amo molto Svjatiana Aleksievic, l’autrice di “Ragazzi di zinco”, “Preghiera per Chernobyl”: lei usa la narrativa partendo dai fatti di cronaca, un po’ quello che fa Saviano, chiaramente in modo molto diverso. Punta all’animo dei personaggi, mi ha fatto scoprire, più di 20 anni fa, forme narrative particolari che non avevo immaginato fino a quel momento.
Che rapporto hai con l’isola d’Ischia? Scriverai mai qualcosa ambientato qui?
Esiste una dimensione oscura che ti interessa, o l’isola è inchiodata alla sua immagine da cartolina, seppur malandata?
Un lato oscuro esiste dovunque e sicuramente scriverò qualcosa di ambientato a Ischia. Non è arrivato ancora il tempo, tutto qua. In questi anni, mi sono allontanato perché ho voluto provare altro, per conoscere cose, luoghi e personaggi diversi e che in qualche modo mi incuriosivano. Ma sicuramente Ischia merita una storia da raccontare.