E’ un piccolo miracolo che sia riuscito a fare la carriera che ha fatto. Quando Antonio Acunto si siede al pianoforte, deve sentirsi libero. Un lusso “talmente meraviglioso”, che non se ne vuole privare. Niente compromessi, né manager. Nessun limite che possa frenare la libertà di esprimersi, quando suona. Zero patti, o contratti capestro, sottoscritti per diventare una pop star nel pianeta disabilitato dello showbiz musicale. Essere famosi – sostiene – non vuol dire nulla.
Eppure, partendo da Sant’Angelo, su un’isoletta sperduta (ma ben frequentata) del Mediterraneo, il concertista è arrivato fin dentro le stanze degli dei, esibendosi nelle sale da concerto più prestigiose d’Europa. Perfino nella sede del Bundestag, il Parlamento federale tedesco, dove 5 anni fa suonò l’amato Chopin in un recital con il premio Nobel per la letteratura Herta Muller e mezzo mondo della cultura mitteleuropea in platea ad ascoltarlo.
Tra stato di grazia e di fatica, Antonio Acunto rimette tutto in fila e vuota il sacco senza alcuna reticenza. Fuori dai denti e fuori dal coro. Del resto, la trama autobiografica, flusso di coscienza con al centro la musica, si presta a meraviglia. In bilico sul crinale fra applausi e cadute improvvise. Con il coraggio di muovere sempre e comunque le vele controvento. Senza troppi dubbi o incertezze. Così, anche attorno agli episodi secondari della sua vita e della sua professione, si forma un’atmosfera di poetica fatalità. L’amore assoluto per l’arte, il senso profondo della ricerca, l’urgenza di uno studio continuo, non gli lasciano un attimo libero. La concentrazione, spesso feroce, non ne ha fatto però un padre stilita in meditazione sulla colonna nel deserto. Al contrario, Antonio è sempre pronto a ripartire. Perché afferrato un sogno, bisogna comunque inseguirne un altro.
Com’è stato il primo approccio al pianoforte? Se lo ricorda?
Fin da piccolo desideravo esprimermi in campo artistico. A Sant’Angelo arrivava gente colta, piena di talento, con un mondo intero da raccontare e condividere. Ero curioso, vivevo di questa bellezza, certamente ne sono rimasto colpito, ispirato. L’esigenza più forte era conoscere, imparare cose grandi e complesse. Una spinta inesauribile che dura tuttora. Così, a un certo punto, ho deciso di prendere lezioni di piano.
C’è un momento in cui ha capito che non era più un gioco?
Mai considerato un gioco. Il talento non è una cosa di cui vantarsi. Penso, al contrario, sia una grande responsabilità. Ogni volta si ricomincia da capo. Agli inizi, non avendo particolari punti di riferimento, mi sono affidato a tutti gli insegnanti che pensavo potessero aiutarmi. Un disastro. Finché da solo, sbagliando tantissimo, sono riuscito a trovare la mia strada. Da quegli errori ho sempre cercato di cogliere una chiave positiva di rinascita. Ricominciare è un grande lusso, per chi se lo può permettere. Ci vuole una forza non comune, una perseveranza che ti fa vincere tutte le difficoltà. Non sono state poche, in questi anni, e durano tuttora. Per quanto mi riguarda, la fortuna è stata possedere capacità di recupero pazzesche. Senza quelle, mi sarei perso.
Gli studi al Conservatorio di Napoli, anni problematici.
A Napoli prevale un atteggiamento che non capisco, dissimile dal mio modo di vedere e sentire la vita. Al Conservatorio la competizione non generava creatività, non era vissuta in maniera produttiva, c’era uno strano nepotismo. Ammettevano, magari a denti stretti, che avevo talento, però non succedeva mai nulla. Mi sentivo un po’ in stand-by, così ho cominciato a mettere in discussione la mia esperienza in quel contesto didattico, pur storicamente prestigioso. La mia musicalità non coincideva con le loro scelte, il mio istinto si ribellava. Me ne andai a Salisburgo per tentare di essere ammesso tra gli allievi di una grande pianista internazionale, Tatiana Nikolayewa. Alle selezioni sembravano tutti bravissimi, i giapponesi suonavano come professionisti consumati. Fummo scelti in 8 su 1500 partecipanti. Esterrefatto, corsi da lei: “non è possibile, non può essere vero”. Mi spiegò che avevo suonato peggio di tanti altri, ma avevo il potenziale più alto. La Nikolayewa mi ha aperto gli occhi, non solo per le straordinarie lezioni, ma per tutta una serie di questioni che riguardano lo studio della musica e il modo di affrontare questo lavoro. Tornato al Conservatorio di Napoli, mi hanno ostacolato a tal punto che me ne sono andato. Senza rimpianti.
Che differenza c’è tra suonare e interpretare?
Grandissima. L’interpretazione è quella che si basa su una ricerca approfondita del testo, che mette in gioco le tue emozioni, la ricchezza della tua vita interiore. L’anno scorso, nella casa di Brahms a Baden Baden ho trovato il manoscritto di un concerto di Schumann. Quante volte l’avevo già letto? Eppure in quell’atmosfera unica, di rarefatta bellezza e armonia, ho scoperto in quel manoscritto una piccola particolarità che mi ha illuminato su un passaggio che non avevo notato, nemmeno da ascoltatore. Oggi i pianisti sono troppo perfetti, si vede che non hanno quel bagaglio di vita interiore che fluisce inevitabilmente nell’interpretazione, e che è la ragione per cui suono.
Cosa faceva a Baden Baden?
Vivevo un’esperienza straordinaria. Immerso, anche fisicamente, nel mondo poetico a me più congeniale: grazie a una borsa di studio, ho potuto soggiornare e studiare nella casa che Johannes Brahms aveva in quella città. Il primo italiano a vivere questa esperienza “estrema”, tra le sue cose, gli spartiti, gli oggetti che gli erano appartenuti. Il piano, originale, non era il massimo per la mia tecnica, sentivo che avrebbe potuto comprometterla. Così sono riuscito a farmi dare la disponibilità della Kurhaus Weinbrennensaal, la sala concerto più importante di Baden Baden. Potevo esercitarmi solo di sera, dalla 8 alle 3 del mattino, poi puntualmente tornavo a casa da solo percorrendo la Lichtentaler Allee, una delle strade più belle del mondo. Lungo il cammino, passavo sempre davanti alla casa di Clara Schumann. E’ stato come trovarmi in una favola meravigliosa, uno dei regali più belli che la vita mi ha fatto. Una condizione ideale, nemmeno pensavo al concerto che avrei tenuto dopo poco alla Konzerthaus, nella Gendarmenmarkt di Berlino.
E’ il concerto a cui ha partecipato la cancelliera tedesca Angela Merkel, amica e ammiratrice.
Forse il concerto più importante della mia carriera. Per il prestigio del luogo, l’esperienza a Baden Baden che l’ha preceduto, la magia che ho percepito sul palco e la libertà con cui sono riuscito a esprimermi. Una serata emozionante, rara, che il pubblico ha gradito molto. Ne ha parlato anche il settimanale tedesco Der Spiegel.
Che effetto fa avere tra il proprio pubblico – pagante – l’imperatrice d’Europa?
L’ho invitata, concordando col suo entourage una data possibile, e lei è venuta. Insieme ad amici e parenti. Certamente sono molto onorato sia venuta a sentirmi, lontana per una sera dai suoi pesantissimi impegni istituzionali. La Merkel non è come molti la descrivono. Per me è anzitutto un’amica. Quando viene qui a Sant’Angelo, nel mio studio, si sente molto protetta, sicura, a suo agio. Tra noi c’è molta stima e rispetto, credo apprezzi profondamente il fatto che non le abbia mai chiesto nulla.
Etica protestante e materialismo socialista. Troppa rigidità?
Affatto. Angela Merkel è un politico serio, non rigido. Possiede un fortissimo senso etico delle cose, è coerente con le sue idee, anche a costo di mettersi contro i colleghi del suo partito. L’ammiro moltissimo per questa serietà, per l’impegno che mette nel suo lavoro. Cosa ci accomuna? La perseveranza, la tenacia, l’amore che, malgrado tutto, abbiamo per quest’isola.
Quali sono i compositori che sente più affini e perché?
Non ci sono compositori che prediligo in assoluto, ma epoche. Sono un pianista romantico, credo che la letteratura più importante per pianoforte sia stata scritta nell’Ottocento e agli inizi del Novecento. Mi sento affine a Chopin, e all’immenso Brahms, adoro Rachmaninov e amo molto Debussy.
Mi dica dello stress di un concertista. Ha paura prima di esibirsi?
Suonare in pubblico è un’impresa ardua. Metti alla prova la tua salute, i tuoi nervi, la tua competenza, il tuo studio. Tutto. In quel momento devi dare il massimo e magari non sei in piena forma, fisica o psicologica. Ogni sera cambiano le condizioni, il pubblico, le tue emozioni in gioco. E’ la professionalità a venirti in soccorso. Perché è il mestiere che ti aiuta a fare questo mestiere. Quando trovo un insegnate che non si è mai esibito in pubblico e mi dice: questa cosa si fa così, ecco, mi vengono subito forti sospetti.
Nessuna crisi risolutiva, dunque.
Smettere non riesci, il desiderio di esprimersi e soprattutto di imparare è più forte. Dopo il Carnaval, eseguito a Berlino, sto studiando la Kreisleriana di Schumann, opera chiave della letteratura pianistica romantica. Difficilissima. Al tempo stesso ho in programma alcuni concerti, quindi bisogna esercitarsi sul repertorio, anche se in questo periodo sono molto stanco. Mi chiedo: quando potrò eseguire in pubblico la Kreisleriana? Quando riuscirò a farla davvero mia nella testa, nelle mani? Quanto tempo ancora dovrò esercitarmi? Passeranno mesi e ci saranno altri pezzi che vorrò imparare: ci riuscirò? Ecco, questa è la mia crisi. Il mio lavoro non è un investimento per il guadagno, ma per imparare.
All’estero è un concertista molto ricercato, qui meno. Le pesa?
Non più. Qui ho meno possibilità di esibirmi, tutto qua. In Italia non lavori perché hai le qualità, ma perché sei raccomandato o fai parte del giro giusto. Nessuno investe sulla progettazione della cultura, capisce? Abbiamo un presidente del Consiglio il quale continua a dire che viviamo in un paese meraviglioso, dove tutto funziona. Quando, in realtà, il paese cade a pezzi.
A Ischia potrebbe esibirsi ai Giardini La Mortella…
Anni fa, su suggerimento di Malcolm Smith, manager delle edizioni musicali Boosey and Hawkes, scrissi una lettera a Lady Walton e alla Fondazione. Mi risposero facendomi i complimenti per la mia carriera e dicendosi dispiaciuti di non potermi invitare perché non organizzavano concerti abbastanza importanti. Mah! A Ischia suono qui, nel mio studio a Sant’Angelo, dove vengono a sentirmi le persone più importanti del mondo. E’ il pubblico a sceglierti, non il contrario. Ed è il pubblico che poi mi ha permesso di esibirmi dappertutto. Suonerei volentieri sulla mia isola, bisognerebbe ci fossero condizioni professionali adeguate, che nulla hanno a che vedere con il compenso. Se non accade, pazienza. Potrei vivere e suonare ovunque. Ho lasciato una vita in attesa in ogni luogo in cui sono stato. Per carattere, poi, cerco sempre di sostituire le cose negative con quelle positive.
Quali sono le sue passioni nella vita, oltre la musica?
Il mare, una dimensione che vivo fisicamente in modo molto intenso. La cucina, la pittura, solo che il tempo per poterle coltivare è davvero poco. La musica mi assorbe completamente. Poi mi piace molto incoraggiare le persone, trovo sia eticamente doveroso.
A chi deve dire grazie?
A mio padre. Le persone che hanno creduto nel mio talento e nel mio lavoro sono state molte, in verità. Però mio padre mi ha sempre dato fiducia, ha capito che c’era un talento, gli faceva piacere l’avessi e lo coltivassi. Poi ci ho creduto tanto anche io, moltissimo. Per tutta la vita ho cercato di creare bellezza; se non ci credessi, il mio lavoro non avrebbe senso.
Gli isolani vogliono ascoltarla. Magari al Castello Aragonese.
Ecco, lì mi piacerebbe. Sarebbe un sogno.
Text_ Gianluca Castagna
Photo_ Ischiacity