Saturday, November 23, 2024

Tradition- CI CURAVAMO COSI’

20/2008

Text: Lucia Elena Vuoso

 

Le erboristerie sono letteralmente prese d’assalto e ormai quello della tisana è diventato un vero e proprio rito. Beviamo tiglio per rilassarci, tè verde per tirarci su, malva se abbiamo la tosse, semi di finocchio per lo stomaco gonfio, basilico e lauro per combattere la cellulite. Eppure tutti i rimedi che ora si trovano (a caro prezzo) nelle boutiques della Natura sono stati direttamente tramandati dalle nonne, che li usavano quotidianamente per guarire i piccoli acciacchi. Ad Ischia, fino al dopoguerra e prima del boom economico, i medici scarseggiavano ed era la normalità curarsi con le piante, di cui molti conoscevano le proprietà terapeutiche e medicamentose, essendo la maggior parte degli isolani contadini. Molti poi, uomini e donne, univano alle virtù delle piante formule magiche a metà tra il sacro e il profano. Le donne, in particolare, sapevano anche togliere il malocchio (ma pure farlo!) ed erano considerate fattucchiere: tuttavia, per quanto molto temute, ci si rivolgeva spesso a loro poiché i metodi che usavano erano infallibili.
Incantare i mali

Un tempo quando si aveva mal di pancia, la colpa veniva attribuita alla milza ingrossata oppure ai vermi. Si sospettava che fossero vermi soprattutto nei bambini e per far passare i dolori si dovevano incantare i parassiti, in modo che questi non si muovessero più e il mal di pancia cessasse. Allora, si compiva un rituale che consisteva nel mettere le mani sulla pancia e, facendo tante piccole croci con le dita come a voler tagliare i vermi, si recitavano per tre volte (tre è il numero della Trinità) le parole magiche “Verme vattene via nel nome del seno di Maria”, inoltre tra una formula e l’altra si dovevano dire tre Ave Maria. Altro metodo per eliminarli, come racconta la signora Caterina Scotto Di Minico di Campagnano, ultraottantenne, era usare “l’erba corallina” che cresceva sugli scogli e che un signore vendeva porta a porta. Con queste alghe si preparavano dei decotti, che dovevano riposare per una notte fuori della finestra prima di essere bevuti, oppure l’erba sbollentata si condiva con aglio e olio e si mangiava.
Quando invece si riteneva che fosse la milza a provocare il mal di pancia, si facevano decotti con la ruta, l’erba barbassa e la malva e si applicavano come impacco sulla parte dolorante, sempre accompagnandoli con preghiere. Anche il mal di ‘mola’ (mal di denti, in dialetto) si “incantava”: si premeva forte il dito sul dente dolorante ripetendo “Questo male sta bene, sta perfettamente bene, sta benissimo” e dopo un po’ si stava meglio. La signora Ines Manco, 93 anni di Testaccio, racconta che c’era un uomo detto Zi’ Checchj (zio Checco) che di mestiere faceva proprio l’incantatore di denti ammalati. Una volta sua sorella aveva un dolore fortissimo al molare e il dentista aveva stabilito che non poteva essere estratto e che non si poteva fare nient’altro se non aspettare che passasse da sé. Ma soffriva così tanto che la ragazza disperata si rivolse a Zì Checchj. Quest’uomo era solito masticare tabacco e poi sputarlo in un apposito contenitore che teneva sempre vicino e, per farla stare meglio, mise sul dente della ragazza un pezzo di tabacco masticato a lungo e premette forte fino a che il male cessò. Era una pratica poco igienica ma funzionava e tantissime persone andavano da lui per farsi guarire.
Strani espedienti

Le nostre nonne avevano espedienti per curare qualsiasi cosa: per il mal di gola si facevano le cosiddette ‘penelazioni’, come racconta Lucia Vuoso, 86 anni, testaccese: si metteva sull’asta del pennino (che si usava normalmente per scrivere, intingendolo nel calamaio con l’inchiostro) un piccolo panno imbevuto di acqua, sale e limone e poi con questo si spennellava la gola per disinfettarla. Per le coliche dei bambini si faceva la ‘pupatella’ che consisteva in un piccolo pezzo di stoffa con dentro zucchero o miele che si metteva in bocca al bimbo come un moderno ciuccio per farlo smettere di piangere. I bimbi che si lamentavano di più, a volte, venivano letteralmente ‘oppiati’: si dava loro un infuso di semi essiccati di papavero in modo che dormissero per molte ore. Si diceva che la ruta, una pianta che cresce spontanea nell’isola, possedesse molte proprietà per cui un proverbio assai diffuso recita ” ‘A rut’ ogni male stut’ ” (la ruta mette fa passare ogni male). Per preparare delle pomate si prendevano le foglie e si mettevano in un pentolino con un po’ d’olio e poi si massaggiava la parte dolorante e, con lo stesso procedimento, diluendo la ruta con un po’ d’acqua, si otteneva un ottimo sciroppo per la tosse.
In caso di contusioni a gambe e braccia, si applicava ‘a stuppat’ (la stoppata), un impacco con le foglie di parietaria, comunissima erba che infesta i campi, della canapa e un po’ d’olio; se la contusione era grave si applicava anche il bianco d’uovo che, solidificando, diventava come un’ingessatura. Contro il raffreddore si praticavano i fumenti: si bolliva rosmarino, salvia, foglie e bacche di eucalipto e poi, coprendosi la testa con un asciugamano, si aspiravano i vapori di queste erbe aromatiche che liberavano le vie respiratorie. Contro la tosse si preparava anche uno sciroppo, bollendo in acqua le ‘sciuscelle’ (i frutti dell’albero di carrubo), la radice della malva selvatica e un fico secco.
Capitava, d’estate, dopo lunghe giornate passate al mare (ricordiamo che allora non si usavano gli ombrelloni!) di avere la febbre da insolazione. In questi casi si prendeva un bicchiere d’acqua fresca con tre granelli di sale grosso e lo si metteva dritto sulla testa di chi stava male. Si credeva che la schiuma prodotta dal sale sciogliendosi, fosse tutto il calore che l’acqua fresca stava asportando dal corpo.
La signora Concetta Gaeta di Casamicciola, 91 anni, racconta di un rituale che si faceva per far ingrassare le ragazze, agli inizi del ‘900: “Una volta alla settimana mia cugina Regina ed io ci recavamo a Barano da una signora che ci faceva ‘a cotn ‘e lard’ (la cotenna di lardo) detta anche ‘pellecchia’ (piccola pelle). Ci stendevamo a turno su un letto e lei ci massaggiava la schiena, prima con l’olio d’oliva e poi col lardo di maiale, sollevando delicatamente la pelle. Mentre si massaggiava per la prima mezz’ora con l’olio si diceva: “Fuj fuj pellicul ca t’arriv l’uogli d’auliv” (Fuggi fuggi pellicina, che ti arriva l’olio d’oliva) e poi mentre si massaggiava col lardo si diceva: “Fuj fuj pellicul ca t’arriv a cotn e lard”. (Fuggi fuggi pellicina che ti arriva la cotenna di lardo). Con queste parole si spronava la pellicina, cioè la pelle delle persone magre, ad andare via facendo posto a molta pelle, e coi movimenti delle mani si cercava di allargarla in modo che potesse contenere più grasso.
Porri addio!

In tempi antichi, molto più di oggi, il problema dei porri, soprattutto alle mani, affliggeva tante persone. Spesso per eliminarli si cospargevano con il latte che fuoriesce dalle foglie e dai rami degli alberi di fico che è molto acido e li scioglieva. C’erano, però, anche dei particolari rituali da compiere, un classico era quello con i fagioli: si prendevano tanti fagioli secchi (o piselli) quanti erano i porri da eliminare e si buttavano in una cisterna vuota che doveva essere scelta in un luogo isolato, perché la persona in futuro non doveva mai più passarvi accanto, e si recitava: “I porri a te i fagioli a me”. Quando i fagioli nella cisterna marcivano, i porri scomparivano.
Gigino Trofa, un giovane di Serrara Fontana, a proposito dei porri racconta: “Avevo circa 15 anni e un giorno mi portarono da una signora che toglieva i porri poiché ne avevo le mani piene. Lei mi passò sulle mani un fascio d’erba, quella a fili lunghi, delicatamente e senza far uscire il succo, poi mi fece spezzare il fascio e andò a seppellirlo in un terreno dove non sarei più dovuto passare fino a quando le verruche non fossero andate via. Dopo qualche giorno iniziarono a prudermi le mani e i porri caddero. Rimasi senza parole perché in realtà ero un po’ scettico; andai dalla signora per avere spiegazioni e le chiesi di insegnarmi le parole da pronunciare durante il rito per poterlo fare quando lei un giorno non ci fosse stata più. Mi trasmise la formula e io la imparai, ma poi mi passò di mente. In seguito vidi un amico che aveva moltissimi porri e mi ricordai del rituale, lo feci e riuscì anche con lui. Ora lo pratico spesso e nel 90 % dei casi funziona. Quando non scompaiono è perché o si passa dove sono seppelliti i fascetti d’erba o si pensa continuamente al momento in cui cadranno, perché una delle condizioni per far riuscire l’incantesimo è non pensarci, non essere impazienti. Ancora adesso non mi spiego come questo rituale funzioni, però sono contento di poter aiutare gli altri. L’unico rammarico è che non posso praticarlo su me stesso”.

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