n.10/2006
Photo: Salvatore Basile
Text: Salvatore Ronga
Nel pieno frastuono del cicaleccio estivo, nell’accelerazione convulsa e, in certo modo, brillante, chela stagione vacanziera impone, la presenza del maestro Hidetoshi Nagasawa, con le sue installazioni alla Torre di Guevara di Cartaromana, sembra ammonirci sul valore del silenzio, sull’attenzione che all’opera d’arte si deve, sull’unicità dell’esperienza estetica, che è personale e sollecita, per vie originali e in diversa misura, la sensibilità di ciascuno.
Ho lavorato, con altri giovani ischitani, nel cantiere della mostra, che è stata pensata, progettata per la Torre e il suo intorno. Ho visto modificarsi il palinsesto espositivo, con ripensamenti e progressivi aggiustamenti, cercando di cogliere, in tutte le fasi della lavorazione, i segni di un pensiero, di un modo di operare, non filtrato dagli scritti critici che, numerosi, accompagnano il curriculum del maestro: un’esperienza faticosa e coinvolgente, soprattutto per la capacità dell’artista di catalizzare le energie di tutti e convogliarle nella giusta direzione. A tal punto, che ogni installazione giunta al suo completamento sembrava appartenere un po’ a tutti, al carpentiere come al volontario, presente sul cantiere per curiosare e vedere all’opera l’artista giapponese.
Ai più può sembrare astruso e, al contempo, di una facilità disarmante il mondo dell’Arte: non appongo al sostantivo “Arte” l’aggettivo “contemporanea”, perché lo considero pleonastico, in quanto l’Arte è sempre contemporanea, se parla a noi, del nostro tempo, anche quando la tela che ammiriamo è stata realizzata nel pieno Rinascimento.
Permane, tuttavia, nell’immaginario collettivo, l’idea romantica dell’artista isolato, il titano che traduce il pensiero in forma, piegando la materia al suo volere, e in parte quest’immagine ha un suo fondo di verità. Ma, l’arte di Nagasawa travalica lo specifico delle categorie alle quali siamo avvezzi, perché la sua produzione non è catalogabile semplicemente come pittura o scultura. E’ semmai più apparentabile all’architettura. E questo non si spiega soltanto con la sua formazione d’architetto, alla quale egli stesso non dà molto peso, ma col fatto che egli è, sopra ogni cosa, creatore di vuoti, di spazi da abitare, con lo spirito, s’intende!
Mi è parsa questa la chiave di lettura più convincente delle sue installazioni, e anche l’elemento forse per noi occidentali più facilmente riconoscibile di quel patrimonio che è l’identità giapponese, alla quale possiamo continuare ad attingere, consapevoli però di non avere gli strumenti per coglierne la complessità.
E allora, quando Nagasawa scrive che ciò che si vede è fatto per ciò che non si vede, vuole suggerire a chi abita la sua installazione a non fermarsi alla forma, alla esclusiva visione della forma, ma di esperire l’opera completamente, senza pregiudizi intellettuali: cosa assai ostica per noi che siamo figli della prospettiva, e cioè della pretesa di ridurre lo spazio a una visione esclusivamente matematica, cartesiana. Questo recupero dello spazio emotivo ed emozionale, che può farci pensare a una qualità precipuamente orientale del possedere il reale, è invece, a n mio parere, da parte dell’artista, il salutare ritorno alle radici della nostra civiltà artistica: “Un’opera va sentita, prima che capita” afferma spesso Nagasawa, e questo spiega l’uso dei materiali eterogenei e fuori da ogni snobistica gerarchia. “Sentire” l’opera, dunque, lasciando vigili tutti i sensi. Siamo alle origini della nostra “estetica”, se ricordiamo l’etimologia del termine, da greco “aistànomai”, che vuol dire “sentire”.
Nel tempo della dittatura dell’immagine, essendo noi convinti di poter veicolare attraverso di essa l’interezza del nostro essere nel mondo, l’insegnamento più prezioso e personale che posso aver tratto da questa esperienza è l’aver compreso, forse in minima parte, il rispetto che dobbiamo all’immagine, il giusto valore da attribuire ad essa, per evitare che, ignorandone il complesso potenziale, nell’immagine appiattita si appiattisca anche il pensiero che vorrebbe sostenerla.
La gentilezza, l’affetto, la generosità, come pure le tante piccole e grandi idiosincrasie appartengono all’artista che ho avuto la fortuna di incontrare, ma sono qualità che esulano dalla sfera estetica della sua produzione e non devono inficiare il giudizio critico sulla sua opera.
(* Direttore Artistico della Mostra “Nagasawa alla Torre Guevara Ischia”).