29/2011
Text: Enzo Rando
Photo: Franco Pilato Sapevo già che entrando in quella tabaccheria ‘ngopp’ a’ chiazza’ a Forio, gestita da Franco Pilato fino al 2000, non ne sarei uscito prima della chiusura serale, quando quel suono di saracinesca abbassata rappresentava l’interruzione di conversazioni – tra un cliente e l’altro – fatte di parole che a sentirle oggi, assetati di digitali, sembrerebbero astratte: “Hai provato la nuova tmax? ‘Progresso’ ne parla benissimo! No… io resto fedele alla FP4 sviluppata in ID11, anche se la triX resta insuperabile specie in Rodinal 1:25, sì… ma si ossida in fretta… però vuoi mettere la grana netta e secca che ti dà… lo usa Mimmo e guarda che risultati” e così via per ore. Eravamo ossessionati non tanto dallo scatto, dalla ripresa ma da quello che sarebbe accaduto dopo, dalla “camera oscura”, l’attuale Photoshop. La ‘Bibbia’ erano i volumi di tecnica fotografica di Ansel Adams, ed in tema di sacralità seguivano le preghiere di qualsiasi culto recitate puntualmente ad ogni apertura della tank di sviluppo. Le prime curiosità verso il mondo della fotografia per Pilato sono sonore anziché visive, a soli 10 anni azionava il pulsante di autoscatto, con il suo inconfondibile suono, della fotocamera del padre Luigi che, ignaro della incustodita Leica poggiata sulla mensola, si assentava per allestire mostre d’arte con Renato Bacarelli alla piccola galleria “Il Centro” al Corso di Ischia (successivamente trasformata nel night ‘La mela’). Ma quelle stesse dita, non molti anni dopo, avrebbero toccato la Sinar Norma, banco ottico, goduria per gli occhi e per la mente, sogno dei fotoamatori. L’acquisto della Sinar, presso un venditore napoletano, è amore a prima vista, proprio quella corteggiata anche dal maestro Gabriele Mattera che Franco aveva accompagnato in qualità di consulente. I volumi e le mostre dei grandi paesaggisti americani come Minor White, Ansel Adams, Edward Weston sono ottimi compagni di viaggio per la conoscenza della luce e della composizione fotografica. Tra gli italiani Mimmo Jodice, Augusto De Luca, Gabriele Basilico e Tazio Secchiaroli (reso celebre dalle memorabili immagini delle notti di Via Veneto e della Dolce Vita di Fellini e che forse più di altri ha esportato una certa italianità all’estero). Le sperimentazioni sul ‘fotogramma’, per lo più in bianco e nero, hanno inizio sfruttando gli scorci più tipici dell’isola d’Ischia, dettagli di architetture, paesaggi di silenziosa intensità, feste popolari, persone colte con distaccata fisicità e inserite in un più ampio paesaggio in cui vivono la propria quotidianità, quasi a voler superare il limite della cornice fotografica. Immagini semplici, mai banali, impreziosite diffondendo ombre, a volte elargendo luce. Frammenti suggestivi e discreti, mai celebrativi perché “dietro le foto veramente buone si scorge sempre l’occhio umile” (Wim Wenders). Franco sceglie la fotografia come filtro tra sé e il suo mondo esterno, sceglie la fotografia anche quando non scatta foto, ironicamente si definisce “pigro e colto dalla sindrome di Lumière, morbo che si contrae a tutte le età, che può avere lunghi periodi di remissione dai sintomi – cioè non si scattano più fotografie – ma prima o poi comincia un certo prurito all’indice, questo vuol dire che c’è un’acuzie della malattia e a quel punto si ricomincia a scattare”. Ed ecco colmarsi di nuovo i cassetti o meglio il ‘cascione’ di fotografie. L’occasione per riaprire il “Cascione… vecchie foto b/n, vecchie assaje…”, già destinate al mercatino dei fantasmi, viene suggerita dai social network. Questo archivio “dei pittori mancati” riacquista visibilità, come parole mute in cerca di orecchie pronte ad ascoltare e l’esempio viene proprio da una foto intitolata “Ischia Ponte ‘74” dove passeggia un signore su una quinta murale di manifesti e scritte politiche, ed immediatamente commentata: Pilato: “Ischia Ponte ‘74: par condicio ante-litteram” Visitatore di turno: “Ma è Biagio (u cafon)…!” Pilato: “Ad Ischia l’anagrafe è sostituita dai soprannomi!” La seduzione del ‘cascione’ non è solo legata al ricordo come scansione di una realtà temporale, ma come sviluppo e successione di eventi che il fotografo ha incrociato con lo sguardo, delimitando uno spazio a volte riconoscibile, a volte astraendolo, ma capace sempre di quello ‘stupore’ che stimola le sonnecchianti facoltà delle nostre percezioni.