26/2009
Text: Giorgio Balestriere
Dopo la rivoluzione del 1848, mentre il movimento romantico esaurisce la sua essenza e la sua concezione artistica, ci fu un nuovo fermento di idee e di tendenze estetiche, dalle quali scaturiranno l’Idealismo prima e il Realismo poi. Icona del Simbolismo d’Oltralpe, Arnold Böcklin (Basilea 1827 – Fiesole 1901), già nei suoi primi dipinti, rivelò una speciale attenzione per il misticismo e per i fatti inintelligibili dell’esistenza con opere che si possono ritenere come la fase conclusiva del Romanticismo. Böcklin considerò sempre l’arte una missione sacrale, magica, quasi rituale; egli non vuole imitare la natura, ma rifarne il cammino. La sua concentrazione sui problemi del mondo visibile e l’interesse verso temi metafisici lo porteranno a sviluppare le premesse romantiche fino alle estreme conseguenze, rivelando il “fondamento oscuro” su cui poggiano la nostra conoscenza e il nostro senso della vita. Infatti egli stesso scrisse: “Un dipinto deve raccontare qualcosa, far pensare lo spettatore come fosse una poesia e lasciargli un’impressione come un pezzo di musica […]”. Inoltre, usando una metafora comune a numerosi artisti neo romantici, Böcklin segnalò il carattere “inesplicabile e affascinante della pittura” associandola alla musica. In sostanza, egli osservava che la musicalità dell’opera simbolista non può essere separata dall’idea che essa esprime; alla comprensione intellettuale deve aggiungersi la comprensione intuitiva, in modo che il dipinto sia visto come un’unica entità, il cui significato deriva appunto dall’unione di questi due elementi. In occasione dell’esposizione del centenario dell’Accademia di Berlino del 1886, Jules Laforge, giovane poeta e critico de “La gazette des Beaux-Arts”, definì Böcklin “uno strano maestro che non appartiene ad alcuna scuola e che continua ad elaborare le sue opere solitarie e fantastiche” – Difatti il termine “simbolismo” venne ufficializzato nel 1886 dallo scrittore francese Jean Moréas nel suo “Manifesto del Simbolismo”. Fino ad allora “Idealismo” e non “Simbolismo” era la definizione che sintetizzava un’opera d’arte tardo romantica il cui contenuto spirituale prevaleva sui fatti narrativi. Riferendosi al suo dipinto più noto, “L’isola dei morti”, Laforge mise in evidenza l’effetto straniante dato dalla singolare unione di realismo e oniricità. “Si resta stupefatti – egli scrisse – di questa unità nel sogno, di questo accecamento nel fantastico, di questo naturale impeccabile nel soprannaturale”. Böcklin stesso, consapevole del carattere visionario di quest’opera, la descrisse come “un dipinto di sogno” che fa riferimento ad un’isola dell’aldilà, quella che nella mitologia è associata al traghettamento di Caronte delle anime al fiume dell’oblio e ai Campi Elisi. Il titolo stesso, “Der Insel der Tode”, inventato dal critico e mercante d’arte berlinese, Franz Gurlitt, rimanda al contenuto del soggetto colto perfettamente dal filosofo francese, Gaston Bachelard: “[…] acqua silenziosa, acqua scura, acqua dormiente, acqua insondabile, altrettante lezioni materiali per una meditazione della morte. Ma non è la lezione di una morte eraclitea, di una morte che ci porta via lontano con la corrente. E’ la lezione di una morte immobile, di una morte in profondità, di una morte che resta con noi, vicino a noi, in noi”. La profonda esigenza del pittore di comprendere il soprannaturale – che coincide col grande tema del destino – raggiunge ne “L’isola dei morti”, il massimo della visione onirica: una tempesta si annuncia, il mare è calmo come in una attesa inquietante. Una barca con un feretro si avvicina in un cammino di silenzio verso l’isola, che sembra una porta spalancata sul mistero dell’oltretomba; un’enigmatica forma bianca, in piedi, avviluppata in un sudario, è forse l’anima che accompagna le proprie spoglie verso l’ultima dimora. Negli anni che seguirono la scomparsa di Böcklin si è dibattuto a lungo sulla collocazione geografica de “L’isola dei morti”, ma su questo punto i critici non hanno offerto risposte soddisfacenti o hanno condotto a vicoli ciechi. Poi, dopo la seconda guerra mondiale, con la rivalutazione del Simbolismo, si formularono numerose ipotesi: per esempio alcuni sostennero che l’isolotto raffigurava Ischia, altri invece erano propensi per Corfù. A dirimere inoppugnabilmente la questione è stata una lettera dello stesso Böcklin, ritrovata non molto tempo addietro, nella quale egli afferma di avere avuto una “visione” dell’opera durante un suo soggiorno sull’isola. Invero, “L’isola dei morti” fu eseguito su commissione della signora Marie Berna di Francoforte – un’appassionata ammiratrice della cultura classica e del Golfo di Napoli. Infatti, lei stessa suggerì al pittore il tema: “un’isola dell’aldilà”. Böcklin ne fece almeno cinque repliche con qualche leggera variante, conservate nelle seguenti collezioni: Basilea, Kunst Museum; Berlino, Staatliche National Museum; Lipsia, Museum der Bildenden Kunst; New York, Metropolitan Museum ed un’altra in collezione privata. Inoltre, una replica autografa de “L’isola dei morti” si trovava nell’Ufficio privato di Adolf Hitler, collocato dietro la sua scrivania; ciò conferma la tesi di parecchi studiosi secondo i quali la “dottrina” nazionalsocialista fu ispirata dall’idealismo tardo romantico. Tuttavia restava da definire il luogo esatto che ispirò quella “inverosimile” apparizione. Innanzitutto si è considerato l’isolotto sul quale sorge il Castello Aragonese e la cittadella medioevale, ma suscitava perplessità l’aspetto architettonico. Successivamente si era pensato al promontorio di Sant’Angelo, ma esso difficilmente avrebbe potuto identificarsi con l’antirealtà (metafisica) del simbolismo. Sull’isola restavano altri pochi luoghi che potessero suscitare “sogni” così chimerici e soffocanti: le insenature di Punta Imperatore, di Punta Cornacchia e di San Montano; tuttavia anche questi angoli non offrivano degli aspetti convincenti, e nessuna di queste località sembrava rispondere adeguatamente alla simbologia e alla morfologia del luogo (ma non sarebbe da escludere che questi luoghi abbiano ispirato Böcklin per altri dipinti, tra i quali “Ulisse e Calipso”, “Le naiadi” e “Villa in riva al mare” – quest’ultimo quadro probabilmente raffigura l’antica dimora che sovrasta Punta Molino. Infatti, questo litorale era quotidianamente frequentato dal pittore durante la sua permanenza ad Ischia, ed è lì che si verificò la sua “straordinaria” visione. A riguardo si vedano: Paul Buchner, “Ospite a Ischia. Lettere e memorie dei secoli passati”, Imagaenaria, 2002; Giorgio Balestriere, “Ischia, Procida, Capri e il Golfo di Napoli. Visioni dal Romanticismo all’Idealismo”, Imagaenaria, 2003). Solo l’isolotto del Castello ha una forma vicina a quella rappresentata nel dipinto ed inoltre ha avuto una funzione cimiteriale: infatti, fino alla metà del secolo XX su di esso si trovava un ossario con varie nicchie e loculi, alcuni simili a quelli raffigurati nel dipinto – soprattutto nella sua prima versione conservata al Kunst Museum di Basilea. Un altro particolare non trascurabile è la vicinanza della piccola insenatura di Carta Romana dove, secondo Paul Buchner: “c’era un cimitero che s’inerpicava in alto dalla riva rocciosa in terrazze di fronte al Castello, che fu costruito nel 1836 in occasione di un’epidemia di colera e dove si portavano i morti sull’acqua. Non sussiste alcun dubbio – aggiunge Buchner – che Böcklin ha conosciuto questo cimitero […]”. L’ipotesi che Böcklin abbia “montato” l’ambientazione del piccolo cimitero di Carta Romana al Castello Aragonese, potrebbe essere una definitiva soluzione per l’identificazione topografica de “L’isola dei morti”. Che questo “sogno soffocante” potesse essere espresso così intensamente, nonostante il linguaggio metaforico, è la dimostrazione del modo in cui Böcklin esplorava i misteri del mondo invisibile – e di quello reale per rivelarne l’ambiguità.