32/2012
Text: Serena Pacera
Special thanks_Clementina Petroni e Massimo Ielasi Sfido i lettori a leggere questa descrizione, e a indovinare a cosa mi riferisco. Un parallelepipedo bianco, in legno. Sulla sommità, una serie di bottiglie, sempre in legno, di varie forme e colori. Le facce dell’oggetto sono adornate con immagini: un volto, un panorama, piante. Colori allegri e sfumati. Poi due oblò azzurri, e una scritta rossa, grande, evidente: Peperone. I miei più vivi complimenti a chiunque abbia capito di cosa si tratta; gli altri non se la prendano, perché si tratta di una sgargiante, insospettabile, irriconoscibile e atipica bara. Nello specifico, di quella appartenente a Michele Petroni (1941-2011), e da lui stesso confezionata anni prima di morire. Ben noto come uno degli artisti più eclettici e appassionati dell’isola d’Ischia, Petroni, ma ormai lui era per tutti Peperone (pare che fosse stato soprannominato così da un professore che lo prendeva in giro per la sua timidezza – “Michele, sei diventato rosso come un peperone!”), è stato talmente innamorato della sua terra – e più che mai di Forio – da renderla il fulcro di un’arte durata tutta la vita. Come ricorda la sorella Clementina, infatti, vende le sue prime opere a soli 16 anni e da allora non si ferma più. Si dedicherà in primo luogo alla tecnica del collage di stoffe (con i ritagli “trafugati” di nascosto alla mamma sarta), per poi passare alla pittura e al disegno. I suoi quadri sono stati apprezzati, prima ancora che dagli ischitani, dai tanti e illustri ospiti che abitualmente frequentavano l’isola, in modo particolare da coloro che gravitavano attorno al famoso Bar Internazionale di Maria sul corso di Forio. Parliamo di personalità quali gli scrittori Alberto Moravia e Dacia Maraini e soprattutto il pittore Aldo Pagliacci, con cui si era instaurata una forte amicizia fatta di serate gioiose e surreali, che ritroviamo poi impresse sulle tele di Peperone. Basta dare un’occhiata al suo notturno “Carnevale a Forio”, in cui i monumenti si animano e danzano sotto la luce lunare, assieme a figure umane che non sono più persone, ma maschere, personaggi. Sì, perché ogni suo quadro non è una semplice rappresentazione, ma un’esperienza offerta all’osservatore, una favola che l’artista racconta a chi si ferma ed ammira. Le figure sono rese con una tecnica pittorica che spesso travalica le leggi della prospettiva per spingersi oltre, in visioni trasognate scaturite da pupille che potrebbero appartenere a un bambino, incantato di fronte ai suoni, al movimento, ai colori del paese in festa. È la stessa sensazione che ci comunica il “Concerto di bottiglie”, in cui ancora una volta il Torrione e la cupola della chiesa di San Gaetano prendono vita sullo sfondo di un cielo buio, circondati da un’orchestra di bottiglie vuote. Quello delle bottiglie è un motivo che spesso ricorre nei quadri di Peperone: oggetti di uso comunissimo, chiamati anche “vuoti a perdere” (perché non vanno resi dopo essere stati svuotati del loro contenuto), che nell’immaginario dell’artista divengono il simbolo della perdita di valori cui egli si è trovato ad assistere già nei primissimi anni della sua attività, a cavallo tra gli anni ‘50 e ‘60. Erano decenni fatti di mutamenti che hanno trasfigurato l’isola, plasmandone il paesaggio e le dinamiche sociali in base a un futuro senza ritorno. Ed egli sembra essere ben consapevole di questo ineluttabile e progressivo sgretolarsi e ricostruirsi in altre forme della realtà ischitana, ormai lontana dai costumi popolari e tutta presa dal nuovo e patinato consumismo, e cerca di proteggerla, o quanto meno di trarne in salvo l’angolo più amato, il luogo in cui era nato e cresciuto. Ecco, quindi, che nascono opere come “Bottiglie”, in cui i “vuoti a perdere” si schierano in un labirintico intreccio, a protezione di Forio, ‘custodito’, ora da un canestro o da un vaso, ora proprio all’interno di un’altra bottiglia. O, ancora, quando neanche più queste barriere sembrano resistere alla pressione del mondo esterno, l’ultima soluzione non può essere che una fuga rocambolesca, come quella dell’ “Omino che fugge con Forio”. Ma è l’artista a salvare Forio, imbrigliandolo e fuggendo con il suo paese – almeno nella fantasia dei quadri – o sono il borgo e l’arte a salvare l’uomo che non si riconosce più nel mondo che lo circonda, e in essi trova rifugio? Ciò che al di là di ogni speculazione traspare con certezza dalle tele di Petroni è la commistione di sogno e realtà, che si completano e si esaltano a vicenda. Basti pensare a “Interno con ciabatte”, in cui in una stanza che potrebbe trovarsi in una qualunque casa isolana, vengono rappresentati oggetti della quotidianità affiancati da elementi che richiamano la festa (palloncini, addobbi) e la natura (surreale la mezzaluna che troneggia all’interno della camera e i rigogliosi rampicanti che sbucano dalle pareti), per poi culminare in un unico, imponente elemento che nulla sembrerebbe avere a che fare con il reale, e cioè un paio di enormi ciabatte che fluttuano a mezz’aria, e che nella loro assurdità si ricollegano – invece – più che mai alla vita concreta: proprio le ciabatte erano, infatti, il tratto distintivo del pittore, che le indossava in ogni momento della giornata, d’estate e d’inverno, senza eccezioni. In lontananza, minuscolo, dalla finestra, si intravede il suo universo: Forio. E dire che, come ci spiega Massimo Ielasi, gallerista e grandissimo amico di Peperone, egli è stato un autodidatta cha ha preso in mano il pennello (o le stoffe, a secondo del momento) per il puro gusto di comunicare, senza ispirarsi a particolari artisti o correnti, e senza mai creare per la vendita o per la fama, nonostante venisse ampiamente apprezzato a livello internazionale. Una dimostrazione è il clamoroso successo della sua mostra alla Galleria “Daniel Keel” di Zurigo, l’unica tenutasi all’estero nonostante le numerose proposte ricevute negli anni – tutte declinate dall’artista – che non voleva e non sapeva stare lontano dalla terra che l’aveva ispirato, anche sulle brevi distanze. Spesso amici e conoscenti l’avevano pregato di ritrarre altri scenari dell’isola, come il Castello Aragonese, ma le rare volte in cui si era lasciato convincere, aveva partorito opere prive di quella luce e di quella brulicante vitalità che rendono i suoi quadri unici. Sicuramente, si tratta di uno stile difficile da imitare, perché personalissime ed uniche sono le intenzioni di chi crede nella propria arte e si esprime con una pittura che può apparire sgrammaticata per la mancanza di proporzioni e per un uso spesso arbitrario della prospettiva ma che, proprio in questa innocenza, trova la premessa senza la quale non potrebbero essere rappresentate scene oniriche così ricche di tensione e mistero. Sulla tela vengono erette case che sul terreno crollerebbero, e barche che in mare affonderebbero ma qui, sull’onda della pennellata, galleggiano e anzi talora levitano, tenute in bilico da ciuffi di palloncini colorati e trasparenti. È sempre lo sguardo stupefatto e sognante del Petroni-fanciullino a rendere possibili questi equilibri. Uno sguardo che, a ben vedere, cela sempre una punta di malinconia dietro i colori e il turbinare dei Carnevali e delle feste di paese, scevre dei simbolismi religiosi e dalle quali traspare solamente lo spirito orgiastico della ricorrenza. Non a caso anche un argomento grave come la morte viene affrontato da Peperone in maniera naturale, come parte della vita stessa: nascono così “Funerali”, una serie di disegni in cui racconta la tradizione dell’ultimo viaggio, e attraverso di essa la storia di Forio, con i suoi costumi e le sue usanze; nasce così la scelta di realizzare – come ho raccontato in apertura – con le proprie mani la sua ultima dimora, che ha voluto fosse il riflesso di tutto il suo mondo interiore.