Friday, November 22, 2024

19/2008

Text: Emma Santo

 

Una scuola elementare degli anni ’30. Un maestro nota che tra i suoi alunni ce n’è uno che disegna con una strana luce negli occhi. A bruciapelo gli domanda cosa vuole diventare da grande e lui, senza esitazione, risponde: “professo’ voglio fa’ o’ pittore!”. Ultimo di 12 figli, in un’isola di pescatori e contadini, in cui il turismo di massa è un miraggio lontano, il padre del giovane Mario Mazzella (1923-2008) non approva questa passione, vorrebbe che scegliesse una strada diversa, che facesse il barbiere o il cuoco, come i suoi fratelli. Ma loro l’appoggiano e così sua madre che gli regala delle immaginette sacre da riprodurre, dopo averlo sorpreso ad incidere con una canna su una parete di “maschione” (definizione popolare di un tipo di tufo) tra le strade di Campagnano, sua terra natia. Ha tredici anni, forse anche meno, quando s’imbatte in un temporale che spazzerà via ogni incertezza sul corso del suo destino. Il romeno John Pletos che vive e lavora ad Ischia Ponte, sorpreso dalla pioggia, cerca di salvare tele e colori e Mario, che da giorni va lì a ‘spiare’ l’artista, che parla e disegna in una lingua non comune, si precipita a dargli una mano. Un battito di ciglia, il lasso di tempo in cui diventa amico ed allievo di questo pittore del paesaggio, scomparso prematuramente tre anni dopo. In seguito il liceo artistico in una Napoli devastata dalla guerra, come il resto del mondo che vi prende parte. Una realtà fatta di bombardamenti e fughe nei ‘ricoveri’ che non riesce a distoglierlo neppure un attimo dalla sua applicazione al disegno, tanto che in stato di allarme più di una volta non scappa, ma resta a completare quello che aveva iniziato. Come il giorno in cui gli viene assegnato il compito di riprodurre una mela. Con difficoltà ne trova una e si mette all’opera, ne studia il colore, le forme, le ombre che proietta, cerca di carpirne l’essenza e di rappresentarla alla perfezione. Poi l’oscuramento e quando torna la normalità la mela è scomparsa, qualcuno l’ha mangiata. Un brutto scherzo, dopo tanta fatica non ripagata.
In seguito il diploma ed il ritorno ad Ischia. La guerra è finita e la sua terra cambiata. “Le jeep impazzano per l’isola sino a notte alta e la gente dalle campagne si riversa sul porto, dove inventa ogni sorta di mestiere”, narrerà anni dopo Nino D’Antonio, in una monografia dedicata al maestro Mazzella in occasione del suo sessantesimo compleanno. L’isola è occupata dagli ufficiali tedeschi ed inglesi, che lui ritrae nei saloni delle Terme comunali, in attesa che il suo paese ritorni quello di un tempo. Dipinge e, parallelamente, diventa il primo insegnante laico di disegno tecnico, ornato e storia dell’arte presso il Seminario Vescovile. In principio crea a casa, poi prende in affitto uno studio al Castello Aragonese, nella sacrestia della Chiesa dell’Immacolata. Un posto silenzioso,’divorato’ dal freddo e dalle crepe, che lo costringono a portare i suoi quadri in salvo in un’abitazione vicina, ogni volta che l’acqua piovana s’infiltra minacciosa. Non avendo soldi per pagare i modelli fa posare Carminiello il pescatore, Giuseppe il carrozziere, Mariuccia “la mellonaia”, amici che si accontentano di un caffé corretto all’anice o di una manciata di tabacco da masticare.
Poi, la sua prima galleria ad Ischia Ponte con l’amico scultore Aniellantonio Mascolo. In comune la voglia di trasformare un borgo di pescatori e falegnami in qualcosa di diverso, apportandovi l’amore per l’arte. Il cuore del paese comincia a battere nella piazzetta in cui i due artisti espongono, proprio quando il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta irrompe, sconvolgendo per sempre la fisionomia di un posto che nella memoria di Mazzella resta immacolato. Si susseguono volti noti di pittori, musicisti, attori. L’ “isola senza speranza”, come anni prima l’aveva definita Truman Capote, cambia radicalmente, ed il giovane artista cerca di riprodurre ogni dettaglio che sfugge al tempo, ma non alla sua mente, che lo rincorre lo raggiunge e lo trascina in una dimensione onirica, dove i paesaggi, le case, le reti stese al sole, l’architettura e le sue forme, le chiese che lui ama in maniera viscerale, sfociano nella sfera intoccabile del ‘mito’. E non c’è più un prima né un dopo. Tutto è immobile, sacro.
John Tagliabue si innamora delle sue tele e le fa sbarcare in America, nelle università di Cliveland e Washington, dichiarando di aver conosciuto, durante il suo soggiorno ischitano, “un artista che farà strada”. Chiusa la galleria, per un po’ Mazzella è costretto ad esporre in corso Vittorio Colonna, dove ora si trova il Valentino, su un pannello adagiato ad una ‘parracina’. Sono gli anni del “Rangio Fellone” e del “Monkey Bar”, cantanti famosi gremiscono i night, qualcuno, tra cui Peppino Di Capri, si aggiunge ai suoi acquirenti. Tra questi, anche l’attrice Katharine Hepburn, che lui fa fotografare da un “paparazzo” di allora, Gaetano Scala (che prima ancora era riuscito ad immortalare il direttore d’orchestra Arturo Toscanini) ed Alain Delon, ad Ischia per le riprese di “Delitto in pieno sole”. Alcune scene del film sono girate nel posto in cui, nel ’62, Mario Mazzella aprirà la sede definitiva delle sue esposizioni, conservando il prospetto dell’ingresso realizzato da uno scenografo veneziano presente nel cast. La galleria sorge di fronte alla piazzetta del centro storico di Ischia Ponte e proprio per quest’ultima, su commissione del sindaco Vincenzo Telese, progetta le aiuole in cui verranno piantate le palme, e la fontana, che avrebbe preso il posto di un vecchio cisternone, per la quale, consigliato da Mascolo, disegna i pannelli in ceramica che tuttora decorano la colonna al centro della vasca. Si occupa di urbanistica, di restauri, progetta la seconda porta della Chiesa Collegiata dello Spirito Santo, dietro quella seicentesca, e particolari in marmo per la cappella consacrata a San Giovan Giuseppe. Si dedica alla beneficenza, mettendo a disposizione i suoi quadri a favore di numerose iniziative a scopo sociale. L’amore per i luoghi sacri lo esprime dando risalto, nei dipinti ‘a spatola’, alla parte retrostante o ai prospetti laterali degli edifici, meno barocchi ed appariscenti. Il bianco delle volumetrie in calce si staglia sul mare, “una tavolozza in continuo mutamento”, la luce invade le tele, le linee sono essenziali, i colori vivaci, la composizione armonica. Non c’è traccia del presente che avanza, al posto delle automobili ci sono muli che trasportano tonni, come quello che da ragazzo vide sulla strada che da Testaccio conduce ai Maronti; le donne nelle loro vesti lunghe reggono sul capo vassoi d’argilla e, sotto braccio, grandi brocche, vendono conigli, frutta, pesci, hanno espressioni statiche, “sagome compatte”. La prima a posare per lui fu proprio la madre, che l’artista omaggia nelle tante tele che celebrano il tema della maternità. Schivo e sensibile oltre misura, nonostante sia stato insignito del titolo di Commendatore e Cavaliere della Repubblica, per meriti professionali ed artistici, nonostante i suoi quadri abbiano viaggiato ovunque, arrivando persino in Vaticano, ha conservato fino alla fine, l’umiltà nello sguardo e nello spirito, felice di essere entrato, con le sue opere, nelle case della sua gente.