31/2011
Photo: Alessandro Demycost
Text: Riccardo Sepe Visconti
L’ESTETICA DELL’ABBANDONO Quando, esattamente come Ale, ami tua madre terribilmente e la perdi che hai solo vent’anni, ti senti come un impiccato a cui hanno dato un calcio allo sgabello che lo separa dalla stretta del cappio; allora (se puoi?!…) ti aggrappi con ogni tua forza alla corda e fai di tutto per liberarti da quella stretta mortale per poter continuare a vivere… E’ un’immagine estrema, angosciata, claustrofobica, ma è ciò che sentiamo noi che, in un solo attimo della nostra vita, vediamo infrangersi il nostro mondo, le nostre certezze. A quel punto, per non lasciarci sopraffare dal dolore, trasformiamo in energia le più intime paure, e l’angoscia lascia lo spazio alla fantasia e la rabbia diventa forza creativa: è quella la scintilla che ci trasforma in Artisti. E l’arte, per chi la possiede e la domina, è il solo modo per continuare a vivere. Per la maggior parte dei proprietari di macchine fotografiche, queste servono solo ad archiviare ricordi (il che non è affatto disprezzabile come pratica, anzi!); per altri, invece, diventa un mezzo per comunicare; per chi, poi, ha subito un danno dalla vita, la foto diventa un mezzo di sopravvivenza… Il linguaggio della fotografia può, naturalmente, essere declinato attraverso più “dialetti”: si può esprimere per paradossi, per cinismo, per visionarietà, per senso estetico o, ancora, per assenza di sovrastrutture, per uso artato delle luci, per negazione dei colori, e così via. Le immagini modulate come se fossero voci, ognuna con il suo timbro, la sua cadenza, la sua profondità o acutezza, il suo accento… Le foto di Ale sono inquiete come inquieto è lui: sono una bottiglia di spumante che si stappa con il botto e che, fratturando l’omogeneità del chiacchiericcio di fondo, ti cattura l’attenzione, sono una scudisciata alla tua immaginazione. Ale legge lo spazio, i personaggi, gli ambienti, attraverso le sue intime lenti distorsive: oggi sono dolore, incredulità, rifiuto dell’ineluttabile. La foto scattata a Marcella Minicucci con un surreale ombrello impugnato in mano, incapace di ripararla da una pioggia che incombe minacciosa dal cielo plumbeo, alle spalle una grande abitazione, un tempo casa opulenta, oggi ridotta a dimora abbandonata, lo sguardo allucinato, la fragilità dell’esile corpo di donna, il selciato sconnesso e la valigia trascinata al seguito per intraprendere un viaggio per chissà dove, ci spingerebbe a pensare che si tratti di una rappresentazione onirica e delirante della morte, di una madre, appunto. Perfetta nell’atroce economia dei dettagli. Questo scatto per me, orfano di madre, vale da solo il racconto universale di tutti noi che ci ritroviamo abbandonati.