Text_ Antonello Maietta e Marco Starace*
* testo pubblicato dal periodico dell’Associazione Italiana Sommelier Vitae anno XXI settembre 2016 n. 107
Antonello Maietta è il presidente Nazionale dell’Associazione Italiana Sommelier
Marco Starace è sommelier e componente del Consiglio Nazionale dell’AIS.
“Perché il vino è l’acqua di Ischia e come vino da pasto non se ne trova uno più valido da Roma in giù. Effettivamente lo si beve in tutta Europa, ma con altri nomi, ed è proprio un bello spettacolo vedere le multiformi imbarcazioni provenienti dai porti stranieri che si addossano l’una all’altra nel porticciolo circolare, uno dei pochi ricordi piacevoli del malgoverno borbonico (…). Assaggiate dunque questo vino, quale che sia il punto dell’isola in cui viene prodotto (…). E assaggiate anche i vini rossi. Provateli tutti, più volte!”.
Questa frase di Norman Douglas, tratta dal racconto L’isola di Tifeo del 1931, offre un’immagine sorprendentemente inedita anche per gli estimatori più ferventi dei vini ischitani. Al netto dell’ovvio entusiasmo provocato dallo struggente contesto, lo scrittore inglese, nel suo consueto stile un po’ dissacrante e sarcastico, ci consegna in poche righe una chiave di lettura molto efficace per comprendere le dinamiche dell’epoca e le prospettive per il futuro.
Ci parla innanzitutto della dominazione borbonica, che a Ischia fu più blanda rispetto ad altre zone, poiché i sovrani del Regno delle Due Sicilie amavano particolarmente l’isola verde, eleggendola tra le dimore preferite per trascorre giornate di svago da dedicare alla caccia e alla pesca. I piroscafi reali attraccavano al molo di Ischia Ponte, così da consentire ai nobili di recarsi in carrozza al palazzo Buonocore, requisito dallo Stato borbonico e trasformato in casina reale. Fu Ferdinando II a intuire che sarebbe stato più comodo raggiungere la casina attraccando direttamente nelle sue adiacenze. Di lì a poco diede l’incarico di tagliare la striscia di terra che separava dal mare aperto il lago prospiciente la dimora. I lavori iniziarono il 25 luglio 1853 e terminarono l’anno seguente, falcidiando la mano d’opera a buon mercato costituita dagli oppositori incarcerati nel vicino Castello aragonese. Il lago, trasformato in un approdo sicuro (tuttora è il più utilizzato per il trasporto marittimo), proiettò l’economia locale in una dimensione mai esplorata prima. Fin dal Cinquecento si trasportava il vino via mare: sono documentati lunghi tragitti, anche fino alla Dalmazia, mediante le vinacciere a vela. Con il nuovo porto, tuttavia, il prodotto locale poté giungere più agevolmente lungo le coste settentrionali del mar Tirreno, negli approdi di Piombino, La Spezia e Oneglia, oltre che in una miriade di destinazioni del Mediterraneo e del Nord Europa. Il commercio raggiunse il suo apice intorno al 1930, con migliaia di ettolitri trasportati, complice il fatto che la terribile fillossera arrivò a Ischia soltanto nel 1935. A questo enorme beneficio economico, tuttavia, non corrispose un proporzionale ritorno di immagine per il territorio, poiché all’epoca il vino sovente prendeva il nome dell’ultimo porto di attracco del bastimento. Che la viticoltura a Ischia abbia origini millenarie è stato confermato nel 1989 dal ritrovamento fortuito di muri a secco in seguito a uno smottamento avvenuto a Punta Chiarito, nella frazione di Panza nel comune di Forio, tuttora la zona più coltivata. I lavori di scavo compiuti fra il 1993 e il 1995 hanno portato alla luce una fattoria greca, appartenuta probabilmente ad agricoltori benestanti, come testimonia l’eccellente fattura del vasellame rinvenuto. Del resto, nell’antichità Ischia era chiamata Pithecusa, l’isola dei vasai, e già nel 1955, nella necropoli di San Montano a Lacco Ameno, l’archeologo tedesco Giorgio Buchner aveva trovato la celebre coppa di Nestore, risalente al 725 a.C. circa, che allude alla coppa dell’eroe epico Nestore descritta nell’Iliade. La frase che reca incisa, considerata il più antico esempio pervenutoci di poesia scritta in lingua greca nella sua stesura originale, decanta il vino locale, testimoniando dunque la sua remota presenza in quei luoghi. Sarebbe tuttavia errato attribuire ai primi colonizzatori greci, provenienti dall’Eubea, l’introduzione della coltivazione della vite e la produzione di vino. Quando i greci arrivarono a Ischia, trovarono l’isola già vitata, tanto che la soprannominarono Oinaria, luogo delle viti e del vino, da cui in seguito sarebbe derivato il nome romano Aenaria o Insula Oenaria. Il loro ruolo fu piuttosto quello di migliorare il sistema di coltivazione, introducendo l’allevamento ad alberello, tuttora presente in alcuni vigneti, e altre tecniche completamente differenti da quelle etrusche in uso nelle aree continentali della Campania.
La viticoltura è stata alla base dell’economia isolana per lunghi periodi storici, condizionando la vita e le consuetudini degli abitanti, più contadini che pescatori. Le coltivazioni, su terrazzamenti di muri a secco costruiti con pietre di tufo verde, dalla costa arrivavano a lambire gli irti pendii del monte Epomeo, ultimo rilievo emerso di un antico vulcano, che svetta sull’isola con i suoi 788 metri di altezza. La grande disponibilità di tufo verde è concentrata soprattutto nei comuni di Forio e di Serrara Fontana; nel versante rivolto verso la terraferma dominano invece il tufo giallo e altre rocce nere magmatiche. Uno sprofondamento del terreno ha permesso un contatto prolungato delle terre, poi riemerse, non solo con le acque marine, ma anche con quelle termali, ricche di minerali, cui questa particolare roccia vulcanica deve la sua colorazione grigio-verde. Questi terreni tufacei hanno avuto significative implicazioni sia in agricoltura, per l’ottima capacità drenante, sia in ambito edile, con le pietre utilizzate nella costruzione delle case, dei muri che delimitavano le proprietà, e delle “parracine”, preziosa testimonianza delle ingegnose maestranze ischitane. Con questo termine dialettale, derivante dal greco parà oikos (accanto alla casa) e inesistente nel dialetto napoletano, si indicavano poderosi muri a secco, che sagomavano le terrazze dove mettere a dimora i filari di vite anche in presenza di forti pendenze. Di tufo era fatta pure la “pietra torcia”, un pesante macigno con tre fori, uno alla sommità e due ai lati, antesignano dei moderni torchi meccanici, utilizzato nelle cantine per pigiare le uve grazie a un complesso sistema di leve e funi.
Alcuni blocchi tufacei di grandi dimensioni furono scavati direttamente al loro interno per realizzare piccole cantine, ricoveri per attrezzi o per il bestiame e cisterne per la raccolta dell’acqua piovana, fino ad arrivare alla suggestiva chiesetta rupestre dell’antico villaggio di Santa Maria al Monte. Da qui ci si può inerpicare per raggiungere il bosco della Falanga, attraverso un percorso fatto di scalinate in pietra tra vecchi muri di cinta che un tempo delimitavano i vigneti e i rifugi dei contadini, con le fosse scavate per conservare la neve o allevare i conigli. Purtroppo già verso la fine del Settecento sulla montagna le viti dovettero lasciare spazio agli imponenti alberi di castagno, messi a dimora per creare una riserva privata di caccia dei re borbonici.
Proseguendo, si arriva al balzo dei Frassitelli, vero e proprio grand cru dell’isola, a 600 metri di altitudine, dove dal 1995, nella tenuta della famiglia D’Ambra, un campo sperimentale è dedicato al miglioramento genetico delle uve attuali e al recupero di antiche varietà a rischio di estinzione, dai nomi curiosi: coda di cavallo, streppa rossa, rillottola, don lunardo, catalanesca, coglionara.
Con un simile curriculum era impensabile che Ischia non fosse presa in considerazione nella promulgazione della prima normativa sulle Denominazioni di Origine. Il 3 marzo 1966, infatti, uno dei primi quattro decreti del Presidente della Repubblica, istitutivi di altrettante Doc, fu riservato proprio ai vini di Ischia, insieme alla Vernaccia di San Gimignano, all’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone e al Frascati.
In fase di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il bianco toscano scavalcò gli altri tre per una manciata di giorni e a Ischia rimase la consolazione di essere la prima Doc italiana a contemplare anche vini rossi. I veri artefici della viticoltura moderna, ferventi sostenitori del riconoscimento della Denominazione, furono senza dubbio i fratelli Mario, Michele e Salvatore D’Ambra, i cui eredi sono tuttora considerati i custodi del patrimonio vitivinicolo isolano. La regolamentazione iniziale prevedeva unicamente vini bianchi e rossi da uvaggi; solo con la modifica intervenuta nel 1993 fu introdotta la possibilità di vinificare in purezza biancolella, forastera e piedirosso, quest’ultimo meglio conosciuto nell’idioma locale come per’ ’e palummo. La modifica del disciplinare, se da un lato ha offerto la possibilità di mettere in evidenza le caratteristiche peculiari di ciascun vitigno, ha di fatto limitato un’adeguata ricerca e sperimentazione sulle cosiddette varietà minori, dal momento che queste possono comparire nell’uvaggio con una percentuale complessiva non superiore al 15 per cento del totale. I vitigni prevalenti sono sempre stati quelli a bacca bianca, e anche oggi rappresentano circa il 90 per cento della produzione. Pure Norman Douglas scriveva “Assaggiate anche i vini rossi”, quasi a significare che qui il vino per antonomasia, quello più facilmente reperibile, è sempre stato il bianco.
La viticoltura costituisce ancor oggi la parte più rilevante della componente agricola ischitana. Le curiosità maggiori sono rappresentate dall’utilizzo pressoché esclusivo di varietà tradizionali, come biancolella, forastera e per’ ’e palummo che, salvo sporadici casi, non compaiono in nessun’altra parte d’Italia al di fuori della Campania. La biancolella è quella che storicamente può vantare la presenza più consolidata, anche se è difficile pensare che derivi direttamente da una delle varietà introdotte dai greci dell’Eubea; più probabilmente è l’erede dell’uva di san Nicola, documentata nell’eremo di San Nicola fin dal 1850. Sovente associata alla petite blanche della Corsica, deve il nome al colore tenue degli acini e alla buccia sottile, coperta da un abbondante velo di pruina biancastra e farinosa. Dona al vino freschezza e una ricca dotazione olfattiva. La forastera fu introdotta a Ischia nella seconda metà del XIX secolo. Il nome stesso indica la sua provenienza dall’esterno, cioè forestiera. Trovò facile consenso grazie alla sua vigoria. Successivamente, fu molto utilizzata nei reimpianti dopo lo scempio operato dalla fillossera. Al vino dona struttura, ma deve essere tenuta sotto controllo poiché è molto produttiva. Curiosamente, è oggi considerata autoctona, sebbene l’etimologia lasci trasparire l’esatto contrario. Nel caso del per’ ’e palummo (piede di colombo) o piedirosso, il nome deriva dal colore rosso, simile a quello delle zampe del volatile, che il rachide e il pedicello assumono al momento della maturazione. Permette di ottenere vini dotati di freschezza e vivacità, con una blanda componente di tannino. Il piedirosso è l’antico vitigno campano che si fa risalire all’uva colombina, già menzionata da Plinio nella Naturalis Historia.
Attualmente, si assiste a una rivalutazione della guarnaccia, soprattutto per la realizzazione di vini rossi da destinare all’invecchiamento, ai quali concede colore, materia estrattiva, potenza e tannini. La sua scarsa produttività le aveva alienato in passato il favore dei vignaioli ed era stata quasi ignorata nella modifica del disciplinare.
Le caratteristiche di queste varietà e le loro diverse epoche di maturazione spiegano almeno in parte la motivazione della pratica tradizionale dell’uvaggio. La vendemmia, necessariamente manuale, e la grande quantità di uva da raccogliere, facevano dilatare i tempi della raccolta fin oltre un mese, con la necessità di conciliare le notevoli differenze climatiche da un versante all’altro dell’isola e le diverse altimetrie dove cresceva la vite: in questo modo si scongiuravano maturazioni troppo ravvicinate tra loro o addirittura in contemporanea.
Dal punto di vista produttivo si è passati dai circa 2700 ettari del periodo tra le due Guerre mondiali – praticamente più della metà della superficie dell’isola era vitata – ai 2200 ettari dei primi anni Sessanta, arrivando ai 900 ettari rilevati nel censimento del 1990, prima di precipitare a soli 306 ettari di vigneti del 2000. Oggi si assiste a una blanda inversione di tendenza grazie ad alcuni attenti e lungimiranti vignaioli.
Provengono dalla terra e non dal mare anche i piatti più tipici, come il coniglio selvatico all’ischitana, fatto rigorosamente con i pomodorini del piennolo, la “capa” d’aglio e, come da tradizione, bagnato con il vino bianco, oppure il pollo ruspante cotto nelle sabbie caldissime delle fumarole vulcaniche.
I terreni vulcanici e gli umori salmastri portati dal libeccio contribuiscono a dare sapidità agli ortaggi, come melanzane e zucchine, cucinate sotto forma di stuzzicanti parmigiane, oppure alla scapece, marinate con l’aceto come avviene per la conservazione del pesce azzurro. Sempre dall’orto arrivano le fave, i fagioli zampognari, le cicerchie e soprattutto le papaccelle, piccoli peperoni schiacciati, mentre le patate in passato erano seminate non tanto per il consumo a tavola, ma perché si pensava che potessero mitigare gli effetti della fastidiosa peronospora, diffusasi alla fine dell’800. Senza dimenticare i capperi, che si insinuano tra i muretti a secco, e le erbe aromatiche come maggiorana, timo e rosmarino. Le piante di agrumi e l’olivo sono di più recente introduzione; per quest’ultimo la cultivar più diffusa è il frantoio, che dà un olio delicato e dal fruttato lieve. Sono di matrice ischitana anche gli spaghetti alla puttanesca, la cui ricetta originaria è contesa tra due esponenti della stessa famiglia di artisti.
Dagli anni Sessanta in poi, il cambiamento dell’economia isolana è stato radicale. Lo sviluppo rapido del turismo, oggi la principale risorsa economica, ha indebolito ma non cancellato il passato culturale di una tradizione da preservare, stimolando un vivace dibattito sul suo destino sociale e culturale, per decidere se orientare gli investimenti sull’agricoltura o sul turismo. Tale analisi non può prescindere dal fatto che Ischia è da sempre un’isola fortemente antropizzata, ancora oggi la terza isola più abitata d’Italia, dopo Sicilia e Sardegna. Sebbene il turismo sia la sua prima risorsa, ha vissuto per secoli grazie a un’economia prettamente rurale. E all’interno del comparto agricolo è sempre stato il vino l’elemento più significativo. Dunque, domandarsi se privilegiare il turismo oppure l’agricoltura significa scatenare una disputa inutile, poiché le due attività possono coesistere, anzi devono essere complementari. Non confliggono neppure dal punto di vista della condivisione degli spazi, poiché le attività ricettive occupano per consuetudine le aree pianeggianti più vicine al mare, mentre i vigneti prediligono le posizioni in altura, dalle quali traggono vantaggio in termini di insolazione e di escursione termica, con evidenti benefici per i vini che si arricchiscono in complessità, corredo aromatico e struttura. Inoltre, il turista di oggi possiede una forte propensione all’acquisto dei prodotti tipici e ne diventa un eccellente ambasciatore. Al cospetto di una tradizione millenaria può forse far sorridere soffiare sulle cinquanta candeline del riconoscimento della Doc; si tratta tuttavia di un modo per tenere alta l’attenzione su un’area di fragile tessitura. Coltivare la vite a Ischia non è semplicemente un’attività agricola o economica, è un atto d’amore nei confronti del territorio e l’unico mezzo per scongiurare il dissesto idrogeologico, aderendo all’invito del saggio autore inglese: “Provateli tutti, più volte!”.
ISCHIA FORASTERA 2016 Casa D’Ambra
Con il recente ingresso in azienda di Marina e Sara, le figlie di Andrea, siamo alla quarta generazione della famiglia D’Ambra. L’azienda, fondata nel 1888 da Francesco D’Ambra per commercializzare i vini isolani, produce oggi circa 500.000 bottiglie, raccogliendo le uve provenienti da 40 ettari di vigna, di cui 26 gestiti da una cooperativa formata da 118 viticoltori. Il vino simbolo dell’azienda proviene da un luogo magico e di struggente bellezza, la tenuta Frassitelli, 4 ettari di proprietà a circa 600 metri di altezza impiantati esclusivamente a biancolella.
Giallo tenue con ricordi di fiori di ginestra, aromi delicati di una giornata primaverile; piccoli fiori di camomilla e d’agrume. Naso delicatissimo. All’assaggio grande struttura glicerica esaltata dall’alcol e dalla piacevole acidità che bilancia le note di salmastro e iodio gratificando il sorso con un pulitissimo aroma di bocca. Vinificazione in acciaio.
CRASTULA EPOMEO ROSSO 2015 Cantine di Crateca
La più recente tra le cantine ischitane deriva il nome dall’antico cratere vulcanico che dalle pendici del monte Epomeo digrada verso il mare. La proprietà è stata acquisita nel 2003 dai fratelli Arnaldo, Piergiovanni e Giampaolo Castagna, albergatori di professione. Ai tradizionali biancolella, forastera, per’ ’e palummo e guarnaccia, impiantati nei 2 ettari di vigneto, sono stati aggiunti di recente aglianico, greco e fiano, per una produzione complessiva di circa 16.000 bottiglie.
Rosso compatto con leggerissime screziature di arancio nell’unghia, aroma pieno e delicato di more, piccoli gelsi su un tappeto di tabacco e spezie. Assaggio fresco sostenuto da tannino duttile ma carico di entusiasmo giovanile. Buona la struttura che promette sorprese nel tempo.
ISCHIA FORASTERA 2016 Cenatiempo Vini
Fondata da Francesco Cenatiempo nei primi anni del Dopoguerra, è seguita oggi dal figlio Pasquale, che ha trasformato la precedente attività di famiglia, dedita prevalentemente all’imbottigliamento dei vini prodotti dai contadini, in un’azienda moderna che segue l’intera filiera partendo dalla vigna. Nei 4 ettari di proprietà, collocati su diversi versanti dell’isola, è stata introdotta di recente l’agricoltura biodinamica.
Paglierino smagliante. Naso modulato su fresche note di glicine, mela verde e menta piperita, con delicati effluvi di incenso. Una vibrante sapidità compensa la zelante dotazione di morbidezza che avvolge il palato. Vinificato in acciaio, con breve sosta sui lieviti.
ISCHIA BIANCO VIGNA DEL LUME 2016 Cantina Antonio Mazzella
Antonio Mazzella conduce, con i figli Vera e Nicola, 5 ettari di terreno nel versante sud-est dell’isola, dove le vigne sfiorano il mare, tra le insenature che vanno da Punta San Pancrazio al Castello Aragonese. Il vino più rinomato prende il nome dalla Punta del Lume. Le uve sono pigiate sul posto, il mosto è tenuto per una notte nelle fresche grotte scavate nel lapillo e poi trasportato via mare al borgo di Ischia Ponte.
Paglierino intenso con riflessi dorati. Esordio di pesca gialla, poi glicine, erba cedrina e foglioline di basilico. All’assaggio mostra una vigorosa freschezza che asseconda perfettamente un palato solido e avvolgente. Uvaggio di biancolella e forastera, vinificato in acciaio.
ISCHIA PER’ ‘E PALUMMO 2016 TENUTA MONTE ZUNTA La Pietra di Tommasone
Cantina relativamente giovane, nasce da una storia di emigrazione e di ritorno alle origini. Dopo la perdita del padre Tommaso, detto Tommasone, Antonio Monti si è trasferito in Germania e nel 1987 ha aperto un ristorante a Colonia, che gestisce tuttora. La figlia Lucia, laureata in enologia, è tornata a Ischia nel 2009 per proseguire l’originaria attività di famiglia. Dagli 11 ettari a vigneto distribuiti in diversi punti dell’isola si ottengono circa 100.000 bottiglie, che spaziano su tutta la gamma prevista dal disciplinare.
Nel calice, more rosse e riflessi purpurei, al naso piccoli sospiri di viola con accenni di sottobosco, spezie dolci e leggere note di peperone verde e liquirizia. L’assaggio è avvolgente con trama tannica ricca di entusiasmo giovanile, la struttura imponente del vino è ben sostenuta dalla componente di freschezza.
ISCHIA BIANCOLELLA 2016 TENUTA CHIGNOLE Pietratorcia
Creata negli anni Novanta dall’intraprendenza delle famiglie Iacono, Regine e Verde, evoca nel nome lo strumento di pressatura utilizzato in passato, realizzato con un enorme masso di tufo verde. Numerose varietà di uve, tipiche dell’isola, continentali e internazionali, sono ospitate nei quasi 10 ettari di vigna, per una produzione piuttosto articolata che si assesta intorno alle 100.000 bottiglie.
Il sole nel bicchiere, giallo pieno con riflessi verdolini, al naso fiori di pesco e frutta a polpa bianca. Riconoscimenti che si ritrovano all’assaggio con leggeri richiami all’albicocca e chiusura minerale, struttura elastica e ben bilanciata da una vena fresca sapida.