Text_ Valerio M. Visintin* Photo_ Riccardo Sepe Visconti
“Ma davvero non credi nell’esistenza dell’Alta Cucina?”
Ogni volta che mi incontra in un pubblico consesso, mi rivolge l’identica domanda, con tono di curiale rimprovero. Mi ricorda il proselitismo da citofono della domenica mattina. Si tratta, invece, della fissazione di una collega baciata da una certa notorietà. Una di quelle anime pie e caritatevoli che non sanno mai negarsi all’invito di uno chef o al gran gala di uno sponsor. Che cuore d’oro. Nel suo universo fideistico, io rappresento una variabile marziana e irremissibile. Sento che un giorno mi affronterà brandendo un santino di Massimo Bottura: “Bacialo e convertiti, infedele!”. Nel frattempo, ho rinunciato a sottoporle il mio punto di vista, nella certezza che rimarrebbe inascoltato. Siccome aborro il turpiloquio, le rispondo con una mezza risata o con un grugnito intero, a seconda dell’umore che mi abita in quel frangente. A voi, però, posso dire ciò che penso laicamente dell’Alta Cucina: essa non esiste. Non è niente di più che uno slogan di comodo, originato da esigenze di marketing più o meno consapevoli. E se riecheggia definizioni riferite alle corti del regno di Francia, non guadagna un centimetro di verità. All’epoca, occorreva misurare la distanza tra la cucina dei villici e quella dei nobili. Oggi, invece, usiamo quelle due parolette a beneficio di una corrente gastronomica ben definita, nata e cresciuta negli ultimi tre lustri, su per giù. La parentela più stretta nell’arco temporale è quella con la “nouvelle cuisine” degli anni Ottanta. In questo caso, però, c’è un significativo scarto semantico. L’inganno, rispetto ad analoghe etichette, sta nel fatto che qui si incorpora un giudizio valoriale apodittico. Se diciamo “Alta Cucina”, insomma, certifichiamo l’idea di una catena gerarchica che premia uno stile a prescindere dai suoi esiti. Nessuno parla apertamente di media e bassa cucina. Per amore di bon ton, presumo. Entrambe sono, tuttavia, categorizzazioni implicite. Quel che non rientra nei canoni estetici e nel perimetro mentale dell’Alta Cucina non può che essere automaticamente posto su un gradino inferiore. Strano. Perché posso ben dire d’aver ingurgitato bocconi anonimi, mediocri e persino ciofeche impresentabili in moltissimi ristoranti che si rifanno a quella filosofia. Mentre ricordo paradisi culinari nel cuore della tradizione o in altre espressioni gastronomiche apparentemente più spicciole e domestiche.
Romanticismo, scapigliatura, verismo, decadentismo, futurismo, ermetismo, neorealismo, impressionismo, cubismo: mai nessuno si è arrogato il diritto di un pregiudizio altrettanto ingombrante in altre discipline artistiche, ammesso che la cucina appartenga al rango dell’arte. La responsabilità di questa incongruenza va attribuita in massima parte al mondo della comunicazione, per due motivi di infima stoffa. Da una parte, c’è il sensazionalismo patologico dei media, per i quali, ormai, fatti e persone sono cronicamente straordinari, nel bene o nel male. Mentre, dall’altra, si è caricato un meccanismo di promozione collettiva del mondo del food. Si alza l’asticella a beneficio di tutti: dallo chef al critico gastronomico, dalla fuffblogger al fufficio stampa. In sintesi: se Bottura e Scabin sono elevati sul tetto di una aurea “Alta Cucina” come figure mitologiche, anche chi ne scrive o ci gira attorno levita ai piani superiori. Se si tratta di semplici cuochi, per quanto talentuosi, tutti quanti restano con i piedi per terra. E non è bello sottostare alla legge di gravità.
Immagino i rimbrotti dei colleghi: “Facile criticare. Dicci tu che nome usare, allora, sapientone!”. Fosse per me, suggerirei di censire le caratteristiche salienti dell’attuale “Alta Cucina” e creare un ventaglio di categorie. Avete presente quella bava bollosa che decora innumerevoli creazioni degli chef à la page? Potremmo chiamare questa tendenza “scialorrea”, per esempio. “Oggi vado a cena da Baldan Bembo, il maestro della cucina scialorroica!”. Quelli che prendono per il collo le ricette tradizionali, le fratturano, le scompongono e le scaraventano nel piatto? Battezziamoli “ruspe”. I maniaci dei brodi, altra moda emergente, potrebbero essere i “brodisti”. Si parlerebbe, invece, di “cucina mimetica” per gli chef che piegano la materia prima al loro irrefrenabile impulso generativo, rendendola irriconoscibile. E così via, segnando le tappe di un moderno percorso gastronomico nel quale la “creatività” non è più il frutto di un moto dell’animo, di un colpo d’ala, di un battito accelerato dell’intelletto. Bensì, un dovere di casta da perseguire con ferocia e puntiglio per vincere il terrore di non imprimere il timbro della propria autorialità. “Ma davvero non credi nell’esistenza dell’Alta Cucina?” La prossima volta che incontro quella illustre collega, le rispondo: “Ma certo che ci credo, cretinetti. La cucina è alta quando è buona”.
* testo pubblicato dal periodico dell’Associazione Italiana Sommelier Vitae anno XXI settembre 2016 n. 107. Valerio M. Visintin è critico gastronomico e ha pubblicato libri e guide sul tema.