Text_ Silvia Buchner Photo_ Riccardo Sepe Visconti
BREVE VIAGGIO NEL COMPLESSO RAPPORTO FRA ARTE E CIBO ATTRAVERSO LE OPERE ESPOSTE AL MUSEO DI CAPODIMONTE… E NON SOLO.
Cibo e arte. Binomio che attraversa i millenni per raccontare molteplici punti di vista differenti attorno a un tema – quello del mangiare – che è parte stessa degli uomini, come necessità connaturata all’essere “in vita” e poi come piacere, simbolo, forza evocatrice, occasione conviviale, strumento di rappresentazione sociale. E, in quanto tale, è stato molto spesso prescelto per diventare protagonista di opere che contribuiscono, al di là del primo immediato impatto puramente estetico, alla narrazione delle realtà che le hanno espresse. E in un moto circolare, inevitabilmente se il cibo è sempre stato oggetto di interesse per gli artisti di ogni tempo, l’arte – a sua volta – irresistibilmente attrae gli chef. Perché entrambi – cuochi e artisti – creano opere, e le “opere che si mangiano” proprio come quadri, romanzi, poesie, musiche portano con sé i sentimenti, la concezione del mondo da cui sono scaturiti. Chef come artisti del nostro tempo, dunque? Sicuramente, dalla cucina si guarda all’atelier, alle gallerie perché il gusto del bello, dell’accostamento di colori (che deve essere però anche di sapori) appartiene al bagaglio di sensibilità dei cuochi del nostro tempo, che sempre di più costruiscono per chi siede alle loro tavole percorsi che coinvolgano tutti i sensi. E non a caso, il Maestro della cucina italiana, Gualtiero Marchesi, da poco scomparso, si è esplicitamente ispirato in molti suoi piatti all’arte visiva, soprattutto quella contemporanea (Manzoni, Fontana, Pollock, Malevic, Burri) e la sua ultima iniziativa, la fondazione che ne porta il nome, programmaticamente si prefigge di “diffondere il bello attraverso il gusto”, educando al bello e alla libertà necessaria a dare sostanza e contenuti alla creatività dei nuovi giovani cuochi. Che però, non può esistere senza passato, senza storia, senza cultura: “l’ingrediente più importante nel futuro della cucina sarà la cultura”, lo ha detto Massimo Bottura, chef tristellato, uno dei più rappresentativi esponenti dell’elité culinaria italiana. E nella bella intervista a ICity lo ha ribadito con grande chiarezza anche il Maestro pizzaiolo Enzo Coccia: insomma, prima di innovare, si deve possedere ciò che fino a quel momento è stato fatto, si deve sapere, conoscere. E in questa prospettiva, ci siamo chiesti cosa possono dire del tempo in cui furono realizzate, ma anche come possono parlare alla sensibilità moderna le opere dedicate al tema del cibo esposte nelle diverse collezioni del Museo di Capodimonte, una delle più importanti pinacoteche del mondo, in particolare per quel che riguarda i secoli ‘500 e ‘600. In questo percorso ci ha accompagnato una guida d’eccezione, il direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger, e una volta di più la pittura si è rivelata potente strumento di sintesi di messaggi assai complessi. Se fin dai tempi più antichi, infatti, l’uomo ha portato nelle rappresentazioni artistiche il suo rapporto con la necessità (e poi anche il gusto) di mangiare, è a partire dal ‘500 che inizia il processo che renderà autonomo il genere della “natura morta”, per cui animali e vegetali, spesso accostati ad oggetti per completare la scena, vengono messi sotto i riflettori; insieme alla natura morta altra occasione per dare corpo sulla tela al tema del cibo sono le scene di mercato. “Nel ‘500 e ‘600 le nature morte più ricche di elementi le producono il mondo fiammingo e quello napoletano, in Francia e Spagna sono invece molto austere e contengono un messaggio morale più forte” – spiega Bellenger. E a Capodimonte queste diverse scuole sono ben rappresentate: a iniziare da quella fiamminga con le grandi tele di Joachim Beuckelaer, fondamentali nel racconto della parte animale del cibo e del suo commercio. Attivo nei decenni centrali del XVI secolo, Beuckelaer è figlio della cultura che si sviluppa negli attuali Belgio e Paesi Bassi, di recente conquistati al nuovo credo protestante. Che, come una frattura, divide il sud dal nord dell’Europa, con una forte ricaduta anche dal punto di vista dei contenuti artistici che più vanno di moda: il cristianesimo propugnato da Lutero e Calvino vuole, infatti, un più diretto rapporto fra dio e i suoi devoti e stigmatizza l’eccesso di immagini cui il popolo dei fedeli, per lo più analfabeti, fino a quel momento aveva guardato con una devozione considerata fuorviante e quindi da combattere. La conseguenza fu una drastica riduzione di committenze di opere a tema religioso, per non dire in alcuni momenti anche il diffondersi di episodi di iconoclastia, con la distruzione dei quadri di santi ospitati nelle chiese. Al tempo stesso, i paesi che abbracciano la nuova fede costituiscono uno dei cuori pulsanti dell’Europa, dove cresce una borghesia ricca e aperta che ha bisogno di rappresentarsi, di rappresentare ciò in cui crede. Nel campo della raffigurazione visiva, la compresenza di questi due elementi si traduce nel venir meno dei quadri a tema religioso, per i quali non c’è spazio nei luoghi di culto della religione riformata; l’arte sacra indietreggia a favore di soggetti graditi alla nuova committenza, costituita da una classe agiata di commercianti soprattutto, soggetti tratti dal quotidiano di questa società che si compiace della propria prosperità, intesa anche come segno della benevolenza divina. Quindi si prediligono immagini “laiche”, di vita comune, come i mercati e gli interni di botteghe e cucine, i luoghi di approvvigionamento e lavorazione del cibo insomma, che Beuckelaer ritrae in tante varianti e che ci appaiono come antesignani delle altrettanto opulente e teatrali esposizioni – questa volta reali – di ogni ben di dio che troviamo nei nostri supermercati. Questi ultimi, peraltro, considerati “meritevoli” di essere rappresentati da diversi esponenti della pop art contemporanea, dal pioniere Warhol fino all’artista neopop Lucy Sparrow, che ha realizzato in feltro 4000 prodotti esposti sugli scaffali dei supermercati inglesi: a conferma dei tanti valori e simboli che si continuano ad attribuire ai moderni templi del cibo. Tornando a Beuckelaer, le sue tele sono ricolme di materie prime crude, frutta e verdura fresca, animali appena scuoiati di cui si distinguono le particolarità anatomiche, ma anche con penne e pelliccia ancora addosso. “Nelle opere di Joachim Beuckelaer si parla soprattutto di carne, in ogni senso, da mangiare ma non solo – spiega Bellenger. Questa pittura, infatti, racconta di cibo e al tempo stesso di seduzione, di sesso… Così, da una parte della stanza mezzene e teste di bue che ti guardano quasi con rimprovero dalla tela (fig. 1), prosciutti appesi ovunque e salsicce, dall’altra l’uomo che corteggia la donna accanto al gigantesco focolare in modo molto esplicito, toccandola. Il fatto è che l’associazione piacere del cibo-piacere sessuale è sempre presente nell’arte fiamminga, che è realista, carnale rispetto a quelle francese o italiana, più spirituali”. Ugualmente, nelle scene di mercato (fig. 3 e 4), disordinate e promiscue nell’accostare la merce, sono sempre presenti coppie che si guardano e toccano allusivamente accanto a banchi strapieni di pesce o circondate da cesti traboccanti, contenitori ricolmi fino all’orlo di ogni varietà di vegetale, pani e formaggi. Da sottolineare come di frequente, per rimarcare il riferimento alla sessualità e alla connessa fecondità, le figure femminili si appoggiano a delle zucche (fig. in apertura e 5). Questo frutto dalla polpa commestibile, giunto dall’America scoperta da poco – e che ebbe un dirompente successo per la sua forma tondeggiante, le dimensioni imponenti, l’abbondanza di semi – assurse a simbolo di fertilità, ricordando le rotondità femminili e la gravidanza, ma anche di ricchezza, per intenderci un valore simile a quello che noi diamo alla melagrana e alle lenticchie, e come tale lo ritroviamo di frequente nei quadri di genere e nelle nature morte dell’epoca. “D’altra parte – sottolinea Bellenger – queste opere sono un po’ come la taverna nel presepe napoletano, sempre molto ricca di leccornie, ma teniamo conto che la pittura è pure illustrazione del desiderio, dei bisogni, quindi mostrare molto cibo fa capire che c’era anche molta fame: nell’opera si proietta non solo la realtà, ma anche ciò che si vorrebbe e non si ha. Inoltre, quest’abbondanza consente di dare libero sfogo a un forte il gusto per l’illustrazione dei particolari: il pittore ne riunisce tantissimi in ogni singola tela che diventa una sorta di compendio, di summa, di prodotti dalla provenienza molto diversa (troviamo anche i limoni, per esempio, che non sono tipici del nord Europa), e poi cesti e gabbie (fig. 4) di ogni foggia, che illustrano le capacità degli artigiani”. Come sfondo, spesso, le case delle floride città del nord Europa, di architettura gotica, con i tetti molto spioventi e rivestite di mattoncini, brulicanti di attività. Opera circa un secolo dopo, quindi in piena età barocca e con intenti totalmente diversi da quelli dell’artista fiammingo, il napoletano Giuseppe Recco (1634-1695), proveniente da una famiglia di pittori, di cui Capodimonte custodisce parecchie opere. “Recco, che ha lavorato anche con Luca Giordano, è uno dei migliori autori di nature morte, e si specializza in soggetti di tipo marino. Il pesce, però, alla fine sparisce – fa notare Bellenger – protagonista diventa la luce che gioca sulla pelle squamata, ancora guizzante, lucida, creando una pittura argentata, dorata, che diventa pura esaltazione del colore (fig. 6)”. E ammirando la perizia dell’artista, come non pensare ai piatti della attuale cucina gourmet in cui il pesce viene servito in piccoli tranci che conservano la loro pelle dal caratteristico aspetto, contribuendo a creare contrasti cromatici, talvolta pittorici, nella composizione della portata. “Attenzione, però, l’abbondanza del mare nei quadri di Recco è un’invenzione totale dell’autore, nessuno ha mai pescato tutto insieme ciò che si ritrova nelle sue opere (pesci, tartarughe, coralli, aragoste, molluschi). Perché non si ricerca il realismo, i soggetti sono puro pretesto per mostrare l’immensa maestria dell’autore: che si tratti delle nature morte con protagonista il pescato, o fiori e frutta, al pittore interessa, molto più che a Joachim Beuckelaer, il lato estetico dell’opera, insomma la natura morta napoletana rispetto a quella di ambiente nordeuropeo è meno sensuale, ma più bella. Voglio aggiungere – conclude il Direttore – che Kandinsky diceva che se un quadro anche capovolto continua ad avere un suo senso, è la dimostrazione del talento di chi lo ha dipinto. Ebbene, immaginiamo di farlo con il quadro di Recco (fig. 6): ci si troverà davanti macchie di argento, nero, oro, una materia metallica che conserva tutta la sua pregnanza”. E’ opera, invece, dello zio di Giuseppe Recco, Giovan Battista, che è stato attivo nei decenni centrali del XVII sec., L’interno di cucina (fig. 7), ispirato a un nuovo genere di pittura del cibo, del tutto differente da quelli visti finora, il bodegón (il termine significa originariamente osteria). Ideato in Spagna, da lì si diffonde agevolmente nei territori del Vicereame di Napoli, che era sotto il controllo della corona spagnola ininterrottamente dal 1503 fino al 1707. Protagonisti in queste nature morte sono angoli di dispense e cucine con vivande, pentolame, coltelli, scorci minimalisti di quotidiano insomma. Che però, attraverso intensi contrasti di luci e ombre, assumono un’identità forte. Nel quadro di G.B. Recco troviamo contenitori metallici, uova, pani, prosciutto, un cacio posati sul piano e accanto una testa di caprone spiccata dal corpo. Ma l’animale fa pensare più a un soprammobile che a un essere che prima aveva vita. Molto diverso, di tragica intensità, invece, un bodegón dal soggetto quasi uguale, attribuito di recente al grande pittore spagnolo che a lungo lavorò a Napoli, Jusepe de Ribera (prima metà ‘600) (fig 2): vicino al cestino di candide uova dentro un bacile di rame, ancora una testa di caprone, ma coperta di sangue, che il critico d’arte Raffaello Causa ha definito “pateticamente mansueta”. Insomma, cibo e morte come cibo e vita camminano sempre insieme, e inevitabilmente anche la pittura di genere si carica, pure guardandola secoli dopo, di significati che attengono al dramma stesso dell’esistenza umana.