Friday, November 22, 2024

CAPPELLA CALOSIRTO: GLI AFFRESCHI SVELATI

 

SULLE PARETI DI UN ORATORIO RIMASTO NASCOSTO PER SECOLI, I RESTAURI HANNO PORTATO ALLA LUCE DUE CICLI DI AFFRESCHI MEDIEVALI, IL SECONDO DEI QUALI MOSTRA CHIARE INFLUENZE DELLE INNOVAZIONI PORTATE DALLA SCUOLA GIOTTESCA CHE SI ERA FORMATA A NAPOLI.

Spesso le scoperte più belle avvengono per caso. E’ stato così per l’ultimo tassello restituito dal Castello Aragonese, che racconta una storia di devozione, con un risvolto drammatico, e che fa luce sul ruolo che Ischia ebbe nel pieno Medioevo, epoca su cui peraltro c’è poca documentazione che riguardi l’isola. La più importante chiesa presente sulla rocca, la Cattedrale, dove il 27 dicembre 1507 con un fastoso matrimonio si unirono la poetessa Vittoria Colonna e il nobile Ferrante d’Avalos, fu costruita, come spesso accade in questi casi, al di sopra di edifici più antichi e più piccoli: la sacralità dei luoghi, infatti, imponeva che la chiesa rimanesse su quel terreno, ma le esigenze di maggior spazio e di accresciuto prestigio richiedevano realizzazioni più maestose, e quindi si procedeva aggiungendo gli ambienti più recenti su quelli preesistenti. L’edificio di epoca gotica, dunque, sorge su un luogo di culto più vecchio, che quando la Cattedrale fu costruita ne divenne la cripta, ed è stato proprio “durante i lavori di restauro della cripta, considerato fino a quel momento il primo edificio religioso del Castello, che ci siamo resi conto che dietro ad un muro, posto a un livello ancora più basso, c’era un altro ambiente. Pieno fino all’orlo di ossa, mescolate a calce e terreno. Dimenticato da secoli. Abbiamo ripulito il piccolo spazio, ma le pareti erano coperte da uno spesso strato di incrostazioni saline che impedivano di vedere cosa ci fosse sotto” – ha spiegato Nicola Mattera, architetto, che insieme alla sua famiglia è proprietario del magnifico monumento. Solo nel 2013, grazie alla preziosa collaborazione con l’Istituto Europeo per il restauro, si è intervenuti con un progetto di studio e consolidamento della struttura. I restauratori hanno scoperto, infatti, che le pareti erano decorate con affreschi. Ma è stato il lavoro in tandem con la storica dell’arte e docente di storia della scultura lignea presso lo stesso Istituto per il restauro, Serena Pilato che ha consentito di fare luce sul mistero della piccola cappella piena di ossa, mostrando il ruolo di primo piano giocato da Ischia nel Medioevo. Sappiamo dalle fonti storiche che l’isolotto del Castello era strategico per controllare la rotta del golfo, al punto che quando gli angioini si insediarono a Napoli, lo fortificarono rendendolo secondo per importanza solo al Maschio della città partenopea e che le famiglie nobili ischitane – Cossa (un cui membro fu addirittura antipapa), Bulgaro, Assante – che risiedevano sul Castello, occupavano uno spazio rilevante a corte, spesso al fianco del re. A questo quadro, tuttavia, il nuovo spazio svelato apporta novità inedite che ridisegnano la storia del culto sulla rocca. Vediamo come. “Porsi davanti a una struttura che riemerge dall’oblio dopo circa sette secoli e capire per quali fini è stata concepita, è come sciogliere un enigma: ci sono voluti due anni di studio quotidiano sul posto e in archivio, durante i quali più e più volte mi sono trovata di fronte a informazioni che – apparentemente – non avevano un significato, era come avanzare nel buio. Poi, tutti i tasselli sono andati al loro posto e adesso siamo in grado di raccontare cosa accadde” – precisa Serena Pilato. La ricerca ha dimostrato, infatti, che gli affreschi riscoperti appartengono a due momenti differenti, in mezzo circa 40 anni: ciò significa che i proprietari hanno sentito il bisogno di rinnovare le decorazioni di questo spazio religioso, proprio come noi periodicamente cambiamo l’arredamento delle nostre case. Le cappelle, infatti, costituivano allora un segnale distintivo fondamentale del ruolo della famiglia nella comunità, e si pensa addirittura che questa possa aver costituito il primo luogo in cui chi sul Castello abitava andava ogni giorno a pregare e a seguire le funzioni religiose. In pratica, un nucleo ancora più antico della cripta, al quale questa fu in un secondo momento affiancata. Grazie allo stile del primo ciclo di pitture, che ha per tema l’infanzia di Gesù (l’arrivo del Magi a Betlemme, la presentazione al tempio), Serena Pilato ha datato l’opera intorno al 1290: è del tutto assente la prospettiva, i volti sono statici e senza espressività, insomma l’anonimo autore non conosce per niente le novità che si affacciano tumultuose nel mondo dell’arte e si attarda a dipingere in stile bizantino che, peraltro, alla fine del XIII sec. era superato nel sud Italia. A quest’epoca risalgono anche le pochissime tracce rimaste di una struttura (altare o monumento funebre) che fu poi rimossa, e gli stemmi araldici tracciati sulle pareti, che hanno consentito di identificare i proprietari. Si tratta dei Calosirto, importante famiglia ischitana in cui tre secoli dopo nacque colui che diventerà S. Giovan Giuseppe della Croce, patrono dell’isola e interessante figura di religioso del periodo della Controriforma. Solo pochi anni dopo la stesura del primo affresco, nel 1303, un evento naturale, tanto disastroso quanto imprevedibile, accrebbe il ruolo dell’isolotto del Castello: una colata di lava sprigionatasi nella località di Fiaiano scese per mesi fino al mare, distruggendo tutto quello che incontrava. Fu l’ultima eruzione vulcanica avvenuta nell’isola d’Ischia, conosciuta come colata dell’Arso. La popolazione era terrorizzata, tanti fuggirono in terraferma, e la rocca del Castello fu vista come la salvezza. In molti vi si trasferirono: fra questi sicuramente le famiglie nobili e, naturalmente, furono portati lì i simboli religiosi più importanti, infatti a partire dal 1306 la Cattedrale (che prima si trovava nel borgo di fronte al Castello) risulta insediata lassù. E fino agli anni ’40 del ‘300, quando si iniziò a costruire la Cattedrale più grande, il ruolo dell’edificio religioso principale lo ricoprì la cripta e le cappelle delle nobili famiglie locali che si trovano al suo interno furono impreziosite con affreschi. Appare normale, quindi, che anche i Calosirto, che in quel sito avevano edificato per primi il proprio spazio devozionale, volessero abbellirlo con nuove decorazioni, in linea con gli stili pittorici che intanto si erano imposti. Il restauro ha portato in luce questo secondo ciclo, o meglio quello che l’artista riuscì a realizzare prima che un altro evento tragico condizionasse, stavolta in modo definitivo, questa porzione di Castello. Al centro di una delle pareti, infatti, oggi si può finalmente vedere – molto ben conservato – un Uomo dei dolori, cioè un Cristo deposto dalla croce fra la Vergine e S. Giovanni. I volti esprimono sentimenti, quello di S. Giovanni è sofferente, è presente un gioco prospettico: “Sono rimasta stupita dell’espressività che c’è nella pittura più recente, mostra una nuova concezione dello spazio, una fisicità delle figure impensabili senza Giotto” – dice la storica dell’arte, che è riuscita a ricostruire, grazie alla ricerca di particolari stilistici comuni con altre pitture realizzate a Napoli e nel territorio campano, anche l’identità del pittore che venne fino a Ischia per realizzare l’opera. Essa risente, infatti, della fortissima influenza che esercitò sui pittori del posto il soggiorno napoletano di Giotto, appunto, che re Roberto d’Angiò aveva chiamato come pittore di corte, nel periodo 1328-1333 e fu eseguita poco dopo, fra il 1335 e il 1347 (vedremo anche perché si è giunti a una data così precisa). In particolare, i dettagli (che consentono agli studiosi di individuare le diverse mani dei pittori e di quanti lavoravano nelle loro botteghe) della forma degli occhi, il manto della Madonna, l’accenno di prospettiva, il realismo cercato nella rappresentazione anatomica del Cristo hanno permesso a Serena Pilato di identificarne l’autore con un artista, di cui non è noto il nome, che ha lavorato a Napoli nella cappella Barrile, all’interno della chiesa di S. Lorenzo Maggiore, realizzando un affresco che costituisce una delle testimonianze più grandi della diffusione del linguaggio giottesco in Italia Meridionale. E d’altra parte, ci sono collegamenti familiari che rafforzano questa ipotesi, in quanto una delle più belle donne della corte angioina, Zizzola Barrile, sorella di Giovanni che aveva commissionato gli affreschi della cappella napoletana, aveva sposato un nobiluomo ischitano, un Cossa, rafforzando il legame fra due delle famiglie più potenti del regno. I Cossa avevano appunto una cappella (e un monumento funebre) nella cripta e nella Cattedrale di Ischia e, quindi, è ben plausibile che grazie a loro i Calosirto abbiano ottenuto che il Maestro della cappella Barrile in persona, o un suo stretto collaboratore, realizzasse l’Uomo dei dolori. Tuttavia, l’opera ischitana mostra con evidenza che si tratta di un lavoro non portato a termine: al di sotto delle tre figure principali, infatti, sono rappresentati altri due santi, più piccoli, che “galleggiano” letteralmente su un fondo non finito. Inoltre, all’interno della cappella non c’è nessun elemento più recente degli anni ’40 del ‘300, mentre è del tutto normale che nella decorazione delle chiese ci siano interventi distribuiti nel tempo. Cosa è accaduto per determinare il brusco abbandono? La spiegazione proposta da Serena Pilato è brillante e davvero convincente: “Pongo il termine ultimo dell’Uomo dei dolori al 1347 perché in quell’anno si abbatté sull’Europa intera, a partire dalla Sicilia, la più terrificante epidemia di peste nera di cui abbiamo notizia. Il contagio risalì lungo la penisola, a Napoli il re fuggì mentre morivano 64mila persone, ed è evidente che chi aveva possedimenti a Ischia vi si rifugiò: ma l’isola nonostante l’ostacolo del mare fu certamente colpita e anche qui, come documentato in tutte le chiese medievali, per frenare il contagio i cadaveri venivano riuniti in un ambiente, coperti di calce e murati”. Tutti gli indizi hanno fatto pensare che sul Castello sia accaduto questo e si scelse l’antica cappella dei Calosirto: a quell’epoca la famiglia aveva un suo spazio anche nella Cattedrale soprastante e, quindi, la struttura più vecchia è stata sacrificata e trasformata in fossa comune, chiusa così bene che se ne è persa la memoria anche negli storici che hanno descritto il Castello nei secoli successivi, fino alla riscoperta negli anni ’80. “Per me è stato un onore poter pensare per prima a cosa fosse accaduto nell’oratorio gentilizio nascosto del Castello, e in generale sono convinta che Ischia non era isolata artisticamente rispetto a Napoli e al resto della Regione. Proprio la cappella Calosirto lo dimostra e sono certa che anche gli affreschi della cripta hanno in serbo rivelazioni interessanti. Per questa ragione ho in programma, in collaborazione sempre con l’Istituto Europeo per il restauro e con la famiglia Mattera che mi ha aperto le porte della sua casa, di realizzare uno studio, e una monografia, per ciascuna cappella della cripta”. Una conclusione quella di Serena Pilato che è un inizio.

Text_ Silvia Buchner

Photo_ Ischiacity