26/2009
Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Emma Santo
“Di cosa mi farà parlare”? Mi chiede il maestro Giorgio Albertazzi, mentre aspettiamo che il “Riccardaccio” arrivi, seduti al fresco dell’air conditioning nei saloni del Regina Isabella. “Perché le cose da dire sono davvero tante. Forse le conviene farmi domande sul calcio”, suggerisce, lamentandosi per un caffè shakerato che per i suoi gusti è un po’ troppo caldo. Presa alla sprovvista, anche dall’attesa che mette a dura prova la mia timidezza, abbozzo una risposta incompleta. “Parleremo di teatro” – dico. In realtà so che le mie domande andranno oltre, perché ce ne sono di cose da chiedere ad uno dei più grandi attori italiani, nonché scrittore, regista ed eterno seduttore. Eppure all’inizio, non riesco a dire molto più di questo. Finché non siamo pronti per l’intervista. Ed è in quel momento che il ‘mostro sacro’ smette di farmi paura. Chiacchieriamo per oltre un’ora, e scopro il suo volto affabile, ironico, carismatico, quella dote che hanno in pochi di mettere a proprio agio l’interlocutore, tanto che verrebbe voglia di parlarci per giorni interi. Un grande narratore, il maestro Albertazzi ricorda tutto come se fosse appena successo, sebbene confessi che persino un impeccabile osservatore come lui comincia ad avere qualche lacuna. “Per esempio”, dice, “parlando con mia moglie Pia, non mi ricordavo come avesse i capelli la dottoressa che mi sta curando il ginocchio qui, alle terme del Regina Isabella”. E un po’ gli dispiace che gli anni passino. Anche se questo non fa che incrementare il numero delle ammiratrici, che sono sempre più giovani. La sua arma segreta? Beh, ce l’abbiamo sotto gli occhi. Anzi, è proprio dentro i suoi.
A quando risale il suo primo incontro con l’isola d’Ischia?
L’anno preciso non lo ricordo. Un’estate, Luchino Visconti mi invitò alla Colombaia (ndr. La sua residenza estiva, oggi aperta al pubblico) ed ho scoperto Ischia, che per me ha una caratteristica strana: non mi sembra un’isola, ho sempre la sensazione di essere sulla terraferma. Da allora sono venuto spesso qui, ho fatto “Shakespeare in jazz” a Villa Arbusto, insieme al pianista Marco Di Gennaro e a Luisa Corna, poi mi sono esibito anche in altre occasioni, nel 2005 sono stato a Serrara Fontana, anche se non ricordo cosa ho fatto quella volta lì… Faccio tante cose…
Com’è il suo rapporto con Ischia e con gli ischitani?
Con Ischia ho un rapporto sempre migliore. Intendiamoci: io conosco soprattutto quest’albergo, il mare intorno perché giro in motoscafo, Franco Iacono e la sua casa dove vado spesso, stasera ad esempio ceniamo da lui. Per quanto riguarda gli ischitani, non ho tanti elementi per giudicarli, mi piacciono, è gente autentica. Ecco, anche questa è una cosa strana: ho l’impressione che sia gente di terra, non di mare. Perché mai avrò quest’idea di Ischia…
Forse perché è troppo grande?
Sì, forse è per questo… Però la Sicilia è enorme, eppure l’idea di essere su un’isola ce l’ho. È proprio Ischia. Secondo me non è un’isola (ndr. Ride).
Parliamo – come promesso – di teatro. Il suo ultimo spettacolo è una rivisitazione del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare, risognato, stavolta, da “un malizioso Puck”. Che differenze ci sono tra il suo personaggio ed il ‘simpatico folletto’ tradizionale?
Intanto la differenza è di una settantina d’anni, sessanta, non lo so… cinquanta sicuramente. Ho fatto tre volte il sogno quand’ero ragazzo e fino ad ora avevo sempre fatto Lisandro. Questa volta, invece, ho voluto fare un vecchio Puck, che fa Puck da quattro secoli e si è stufato di fare il solito Puck, un folletto non così bonario come spesso le interpretazioni italiane fanno intendere, ma un “goodfellow”, bizzarro, che fa i dispetti, e non solo. Sono partito dall’idea del teatro come celebrazione del sogno, pigiando molto sul tasto del suo aspetto erotico (in fondo Titania, regina delle fate, se la intende con un asino che è risaputo essere molto dotato), così in una notte di luna nuova, in una specie di labirinto, ognuno può scegliersi la maschera che vuole, o rivelare la parte più nascosta di sé. Alla fine è venuto fuori un musical, le musiche di Marco Di Gennaro occupano il 50% dello spettacolo, con Serena Autieri che interpreta Titania, Giampiero Ingrassia che fa Oberon ed Enrico Brignano che è Nico Targa. Ed io sono Puck, che viaggia su una luna mobile. Certo non è uno spettacolo perfetto però io amo l’imperfezione, quando c’è la voglia di fare qualcosa che non stia nei termini di ciò che si conosce, che non rientri negli schemi. Sto pensando di rifare questo sogno, magari l’anno prossimo, rivisitato da attori giovanissimi.
Lei è tra quelli che i sogni li ricorda o tra quelli che dicono di non sognare mai?
Dico di non sognare mai ma non è vero perché so che si sogna comunque. Qualche volta, ad esempio se mi sveglio presto la mattina e poi mi riaddormento, ho l’impressione che qualcosa mi è successo, quindi è chiaro che non ricordo i sogni. Però credo nella loro importanza. Il sogno conta e forse conta anche non ricordarli. Tuttavia, mi capita di avere delle continue visioni da sveglio, non sono mai serene, ma sempre catastrofi che capitano a delle persone care, per cui penso che siano degli esorcismi, che queste cose non accadranno, perché le ho già fatte accadere.
Ricorda ancora la sua prima volta sul palcoscenico?
Mi ricordo un senso di potere e di libertà che ho ancora. La prima volta ho recitato a Settignano (ndr. Frazione del Comune di Firenze), dove sono andato perché mi aveva invitato una ragazza molto bella, più grande di me (lei era all’università, io facevo il ginnasio) e lì ho fatto “L’allegro principe” di Athos Ori, e mi sono sentito arbitro di una situazione. Dipende da te se respiri o non respiri, se fai una pausa, se guardi da una parte o dall’altra. Hai l’impressione che tutto si orienti verso le cose che stai facendo, quindi è una sensazione molto eccitante, ha a che fare proprio con l’eros, sicuramente.
Poi la prima parte importante con Luchino Visconti…
Poi c’è stata l’esperienza del circolo del teatro di Firenze dove c’erano i professionisti, attori o registi dell’Accademia dell’Arte Drammatica di Roma, e l’unico dilettante ero io. Una sera, Visconti è venuto a vedere uno spettacolo e…. ho fatto il Troilo (ndr. La commedia “Troilo e Cressida” di Shakespeare), una piccola parte, il servo di Cressida, una lunga battuta e basta, però è stato il debutto…
Da lì, e anche prima di arrivare lì, il successo è stato immediato e abbastanza clamoroso. È stato tutto molto rapido, non ricordo di aver fatto la gavetta.
Quindi il successo ha scelto la strada che doveva seguire…
Sì. Io volevo fare architettura, disegnavo e scrivevo. A Natale esce per Mondadori un libro di 190 poesie. Si intitola: “Al sorriso di Pia”.
Insieme a Daro Fo ha portato la “Storia del Teatro” in tv, la prima volta nel 2004, la seconda quest’anno. Lei lo ha definito “un gioco non finito, perché mancano ancora le parti dedicate all’800 e al ‘900″…
Infatti, ci sarà un terzo capitolo. Ci vediamo fra un po’ a Roma con i responsabili della rete, per registrare il programma.
Come nasce l’idea di questo viaggio virtuale e reale alla riscoperta delle radici del teatro?
L’idea mi pare sia partita ad un certo punto da me che mi chiesi perché non raccontare il teatro in Italia, perché le persone non lo sanno cos’è. In un primo tempo dovevo essere affiancato da una ragazza, poi alla fine mi sono ritrovato con Dario, due mostri del teatro italiano che con l’aria di raccontarlo lo fanno. Non è un programma pedante, scolastico. Certi momenti sono abbastanza riusciti, Dario ed io, poi, siamo il diavolo e l’acqua santa. In realtà non si sa chi è il diavolo, secondo me sono io.
Cosa rende il vostro sodalizio così forte?
L’idea che il teatro non sia la pagina scritta, ma una traslazione della pagina, tutta rivisitata. Questo ci unisce. Finché non ne abbiamo parlato io e Carmelo Bene, in Italia si pensava che il teatro fosse letteratura. Invece è un’altra cosa, una segnaletica misteriosa, cabalistica, segni che assumono valore nella fonazione o anche nel silenzio… parlo del vero teatro che non è facile vedere, normalmente si assiste all’illustrazione di una pagina scritta.
Chi fa, allora, il ‘vero teatro’, a parte lei e Fo?
Qualche gruppo c’è o qualche volta scappa a qualcuno di farlo. Per esempio, quello che fa Ranieri nel suo spettacolo è teatro secondo me. Il teatro è sempre rivoluzione, è cambio di persona, è trucco, inganno, è stupro. Una serata uguale all’altra non è pensabile, non è possibile In certe cose lo ha fatto Carmelo (ndr. Bene). Le avanguardie hanno fatto qualcosa attorno.
C’è qualcosa che non è riuscito ancora a raccontare attraverso l’arte?
Sì, e scriverò un libro su ciò che non ho fatto
Cos’è che non ha fatto?
Le cose più belle, e spesso non le ho fatte perché non me le hanno fatte fare. Una ad esempio: quando dirigevo “Taormina Arte”, andando sull’Etna scoprii che a metà c’è un cratere spento che sembra un anfiteatro, c’è un buco laggiù in fondo che sembra portare al centro della terra. Mi è venuta l’idea di fare Dante, in tre lingue diverse con tre attori e tre cantanti. La gente sarebbe arrivata lì, da questo buco sarebbero uscite delle fiamme. La Rai ritenne che non era fattibile, per i costi. Quello, secondo me, sarebbe stato un grande spettacolo, un’idea che mi vene almeno cinque, sei anni prima del Dante di Benigni.
Cose belle ed importanti ne ha fatte però.
“Le memorie di Adriano” è una di queste. “L’Amleto” a Londra, nel quadricentenario della nascita di Shakespeare. Ce n’erano cinque, provenienti da tutto il mondo e il teatro nazionale inglese scelse quello mio, diretto da Zeffirelli. I critici scrissero: “Correte londinesi, un Amleto così si vede ogni 80 anni”.
Nell’ultimo film “La rabbia” di Louis Nero, in cui interpreta il ruolo di un produttore, si affronta la crisi del sistema cinematografico italiano. Secondo lei, conviene abbandonare il mondo del cinema e dedicarsi alle rapine, come suggerisce ironicamente il film, o si può ancora campare con l’arte?
È difficile estrapolare l’arte dalla corruzione del mondo, come ormai è impossibile non subire l’andare e venire del mercato nelle cose che si fanno. Anche se non so se si può proprio parlare di corruzione. In fondo, anche nella vita è impossibile che il mondo resti immobile, fermo ad un concetto di bello che forse va rivisitato.
Pensa mai di tornare a dirigere un film (dopo “Gradiva” e “Gli angeli del potere”)?
Mi piacerebbe molto. Mi sono occupato spesso del protocristianesimo, pur essendo un laico spinto. Negli anni ’70 ho scritto “Pilato sempre”, rappresentato anche in America, sul Gesù storico. Poi ho scritto “The Passion Play”, che non è stato fatto e “Verso Damasco” sul tema della Resurrezione, per Zurlini che poi è morto. Vorrei realizzare un film su questo o su un aspetto della mia vita un po’ adombrato in una mia autobiografia, “Un perdente di successo”. Nel dopoguerra, stavo ad Ancona per ragioni politiche e insieme ad un mio amico, un esponente anarchico, ci venne l’idea di fondare una compagnia teatrale. Ci servivano, però, i soldi. Il mio amico, grande giocatore di poker, decise di trovare cinque gonzi da pelare.
Io, invece, non sapevo come avrei potuto recuperarli. C’era un tizio che aveva tutti i materiali che gli americani riversavano nel nostro Paese, pasta, riso, ma anche pellicce. Decisi di andarle a vendere nelle case di tolleranza cominciando a frequentarle, vestendo le ragazze. Alla fine riuscimmo a metter su una compagnia che poi fallì miseramente. Su questo vorrei fare un film. Bisogna trovare un Albertazzi giovane.
Com’era Albertazzi da giovane?
Proprio oggi, ad una ragazza inglese dicevo: “I was a glam boy”. Ero molto carino, una birba, come dicono a Firenze.
E com’è Albertazzi oggi?
Oggi? Uguale!
Di lei dicono che è un eterno seduttore. Lo si nasce o lo si diventa, secondo lei?
Sedurre è una cosa innata, perché non è che il seduttore vuole sedurre, anzi spesso chi ci prova non ci riesce. Il seduttore lo è malgrado tutto.
Come conquista le donne?
Non le conquisto, sono conquistato sempre. Forse in questo essere conquistato c’è un dato di fondo, un mio trasporto nei confronti della femminilità. Preferisco parlare con una donna che con un uomo, i maschi sono così noiosi, salvo rare eccezioni. Secondo me io non seduco, le poche volte che ho provato a sedurre sono stato completamente disatteso, non mi hanno filato per niente.
Parliamo di donne allora…
Le donne sono estremamente intelligenti, hanno una sola debolezza. Sono sensibili al potere e al fascino del bel tenebroso, che vogliono salvare. A parte questo, sono stupende, inconsapevolmente crudeli. In fondo esiste la ‘femme fatale’, ma non credo che ci siano ‘homme fatale’. La femminilità è inafferrabile. Le donne sono come i cavalli ed io amo entrambi, infatti colleziono cavalli. Sono animali molto misteriosi, fieri, armoniosi. E non è vero che si sottomettono. Se non ti vogliono ti sbattono contro la parete quando meno te lo aspetti.
Com’è sposarsi ad 80 anni?
Non so, non l’ho ancora capito.
Le ammiratrici cosa le dicono?
Mi dicono continuamente che sono bello, io questa cosa non la capisco. C’è una ragazza di diciotto anni che mi scrive certe cose imbarazzanti. Ho notato che più si va in là con gli anni più le ammiratrici diventano giovani.
Qual è il segreto di una carriera così lunga?
Il talento.
Da solo basta, secondo lei?
Forse no. Non so da che dipende una carriera così lunga. Il talento certamente conta, conta forse il fatto che c’è qualcosa dentro di te che non invecchia. C’è qualcosa, non voglio dire spirito perché è banale dirlo, c’è qualcosa… Per me è la bellezza. Se dovessi dire perché sono così, è perché la bellezza mi attrae. Dovendo lasciare il mondo – come accadrà – succede a tutti non vorrei esser l’eccezione, la cosa che più mi dispiace lasciare è la bellezza, soprattutto quella femminile, in cui si racchiude e si sintetizza quella del mondo e della natura.
D’un tratto, i suoi occhi sono rapiti da una graziosa fanciulla, di passaggio nella nostra orbita, che sembra quasi fargli perdere la parola, e la memoria. L’eterno, inconsapevole, seduttore non si lascia mai sfuggire l’occasione di farsi conquistare. Sotto l’attento sguardo del vigile maestro, ogni donna diventa un mondo da scoprire, una figura da ridisegnare. Una birba resta una birba sempre. L’età è un dettaglio che non le appartiene.