Il Global Fest 2016 accoglie calorosamente il regista italiano più premiato dell’anno per il suo lungometraggio d’esordio, “Lo chiamavano Jeeg Robot”, film che attraversa i generi, mix di fantastico e realismo, tanti anni per riuscire a realizzarlo e finalmente una messe di riconoscimenti, non ultimo il botteghino.
Text_ Gianluca Castagna
Per acciuffare Gabriele Mainetti, la “nuova speranza del cinema italiano”, bisogna essere dei supereroi. Come minimo. La liturgia festivaliera imporrebbe di passare sul cadavere dell’attaché de presse e liberare l’ostaggio. Nessun omicidio, tanto basta lo stress ad ammazzarli. Gli addetti stampa, superata la terza giornata, vivono già in uno stato di avanzata alterazione psichica. Corrono a destra e sinistra senza alcuna ragione plausibile, ansimano come appena scampati a un’epidemia di Ebola, per capire le scuse che farfugliano (in mala fede) è necessario richiamare in vita i maya di “Apocalypto”. “Non disponibile”, recita lo staff paramilitare della kermesse. Solitamente non esiste tribunale d’appello (a meno che non facciate parte del cerchio magico dei protégé); solo la fiducia nei vostri superpoteri può farvi superare indenni la via crucis e arrivare, for your eyes only, al cospetto del regista italiano più inseguito, coccolato e decorato del momento.
Non a torto. Gabriele Mainetti è riuscito in più di un’impresa: assimilare la trasformazione dei codici, delle mitologie e dell’immaginario collettivo dei cinecomic; masticare golosamente alibi poetici e storie di vita vissuta; resuscitare – più che il cinema di genere – il credito dell’industria italiana verso un possibile (nuovo) cinema di genere; prendere in contropiede gli specialisti del tritatutto mediatico; intercettare l’attenzione internazionale; conquistare 7 David di Donatello, 2 Nastri d’argento, un Globo d’oro, 4 Ciak d’oro e chissà cos’altro ancora. Vi sembra poco? Tutto con un solo film: “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Opera d’esordio dopo solidi corti quali “Basette” e “Tiger boy”.
Il quasi 40enne cineasta romano costruisce un film denso di grumi cianotici e colori squillanti, senza mai rinunciare alla crudezza di quel che racconta: perché il sangue è sangue, un pestaggio è un pestaggio, la violenza è violenza. E i supereroi, inevitabilmente lontani dalle formulette high tech globalizzate, non possono che emergere dalle tenebre di una Roma (quindi di un’Italia) da catastrofe imminente e vernacolo fatale. Niente manzi in calzamaglia, tutine aderenti o calzoni d’acciaio: Enzo Ceccotti, protagonista del film, è un anti-supereroe che agisce per soldi e cazzi suoi. Al posto delle solite auto, strafighe e cocaina, si sputtana il bottino dei furti in budini e pornazzi. Altre variabili impazzite incrociano la sua solitudine, entrando nella sua gabbia disperata: un guitto malavitoso di periferia che non sopporta l’anonimato e una ragazza da salvare trincerata nel suo mondo infantile. Solo alla fine del percorso, da un vestito insanguinato sul lungotevere, rinascerà un uomo dolorante ma migliore.
Mainetti prova a dirci che la grande narrazione popolare dei miti moderni custodisce formidabili intuizioni sulla realtà. E’ il virus contagioso proveniente dall’Estremo Oriente (da santi/santoni come Gō Nagai e Park Chan-wook), quella sensitività che ci spinge a scoprire il senso nascosto (e vertiginoso) che alberga in ogni presentimento, gesto, azione o incidente di (un) percorso segnato (ma non vincolato) dal Destino. I superpoteri sono una metafora della forza di spirito e sopravvivenza che dimora dentro ognuno di noi quando fronteggiamo pericoli, fatiche e voraci fauci quotidiane. Tutto in un film che, nel problematico scenario del cinema tricolore, è un gioiellino pop, amarissimo e potente.
Qual è stata la molla espressiva più urgente che l’ha portata a realizzare “Lo chiamavano Jeeg Robot”?
La voglia di fare un cinema diverso, nuovo, personale. Un film che mi sarebbe piaciuto vedere da spettatore. Mi sento più pubblico che regista: ho sempre amato la capacità degli americani di fantasticare. Sono cresciuto con Spielberg e Indiana Jones, travolto dal cinema delle nuova Hollywood tra i ’60 e i ’70 di cui ho visto praticamente tutto. Un lobotomizzato, come il protagonista di “Arancia Meccanica”. E poi Totò, Leone, Monicelli. Il cinema asiatico. Secondo me l’incontro tra culture produce cultura. Ho provato a trasferire un certo immaginario nella nostra realtà, evitando di copiare gli americani perché non avrebbe avuto senso. “Lo chiamavano Jeeg Robot” non è un film facile, gioca con molti generi. Mettendoli insieme, ho cercato di trovare un’armonia, di farli funzionare.
Lo hanno definito “la via italiana dei supereroi”. E’ d’accordo?
In Italia un cinema dei supereroi non esiste, quindi ho tentato di abbracciare qualcosa che non ci appartiene per farlo funzionare anche qui. Un mix tra fantastico e realismo, perché il cinema italiano, in fondo, è sempre stato a stretto contatto con il mondo vero. La sfida era trovare un senso italiano a questa sintesi. Sentivo di poterci riuscire, perché avevo capito i topoi del genere e l’importanza di uno sviluppo drammaturgico dei personaggi. Non sono stato il primo, Sergio Leone ha compiuto questa sintesi. Certe battute di “Per un pugno di dollari” sembrano dette da un coatto di Trastevere.
Il cast è sempre stato quello?
Ho fatto dei provini, poi ho scelto gli attori del film che mi sembravano più in linea con quel tipo di lavoro sul personaggio. Una forte credibilità, anzitutto, altrimenti non riesci a veicolare le emozioni dello spettatore. Per questo li ho calati in un contesto tutto italiano, anzi, fortemente romano e periferico. Volevo fossero tridimensionali, con possibilità introspettive importanti e una complessità psicologica shakespeariana. Non li volevo appiattiti, come in molto cinema americano sui supereroi degli ultimi anni. Santamaria, Marinelli, la stessa Ilenia Pastorelli, scelta dopo una lunga ricerca, sono indiscutibilmente dei talenti con una forte creatività. Questo mi ha aiutato molto.
Come è riuscito a evitare lo sguardo borghese sulla periferia romana?
Trattandola con rispetto E’ una realtà che conosco, da cui sono stato sempre affascinato, anche se provengo da tutt’altro ambiente. Con questo film chiudo un capitolo della mia vita da ragazzo di buona famiglia attento ai margini urbani e a realtà che non mi appartengono direttamente, ma a cui mi sono sempre avvicinato nel modo più onesto possibile, cercando un approccio antropologico moderno. Nicola Guaglianone, autore del soggetto e sceneggiatore del film, mi ha aiutato molto a formare questo sguardo, grazie alle sue storie disperate e meravigliose. Jeeg Robot è drammatico ma c’è speranza, umanità, riscatto. A differenza di molti film dove tutto è uno schifo. E’ la storia di un delinquente che può cambiare, uomini e donne che hanno più voglia di sognare degli altri e non si rassegnano. Non li ho mai guardati con pietà.
Com’è nata l’idea di un innesto della canzone d’autore al femminile sul personaggio dello Zingaro, il villain del film? Lei non è troppo giovane per ricordarsi di “un volo a planare dentro il peggiore motel”?
Da bambino amavo molto la Bertè, Nada, la Nannini. Anna Oxa era la donna che mi piaceva di più in assoluto. E’ sempre questione di profondità del personaggio. Potevamo scrivere un cattivo bidimensionale, malvagio in quanto tale. Lo Zingaro è invece un uomo sofisticato, con un carattere importante, aggressivo ma in modo diverso. Ha talento, sa cantare, se fosse cresciuto in un quartiere differente avrebbe fatto un percorso migliore, non sarebbe diventato un delinquente. Lo Zingaro porta con sé una nevrosi contemporanea: il bisogno di mettersi in vetrina, di essere riconosciuto sui social. Un antieroe struggente, sensibile, con un grande dolore e un lato femminile che possediamo tutti.
Queste canzoni che autori come Fossati, Prudente, Avogadro scrivevano per le primedonne della canzone erano già previste in fase di sceneggiatura?
All’inizio siamo partiti dal repertorio di un cantante romano, poi sono sorti problemi con i diritti e abbiamo sterzato, in maniera radicale, sulle icone femminili. Artiste immense dotate di una grande personalità, anche musicale. La canzone dello Zingaro doveva essere “Non sono una signora”, pezzo-manifesto che dava forse un approccio troppo didascalico nel presentare un assassino e la sua fragilità. Con Luca Marinelli, che ha regalato al personaggio le caratteristiche più affascinanti, alla fine abbiamo scelto “Un’emozione da poco”.
Sono tanti i giovani registi che vorrebbero girare un film di successo. Lei è stato più bravo o fortunato?
Tutti e due. Fare un film è un viaggio lungo e faticoso. L’idea risale al 2010. Da allora, una ricerca vana e snervante di un produttore. Alla fine ho capito che potevo contare solo su me stesso e l’ho prodotto da solo. Il film era pronto da un anno, è stato presentato alla Festa del cinema di Roma e abbiamo capito subito quanto potesse piacere. La tempistica ha contato: fosse uscito a novembre, forse non avrebbe vinto tutti i premi che poi ha vinto. Una serie di circostanze favorevoli, d’accordo, ma la fortuna è come un treno che passa: bisogna afferrarla a volo, saperla sfruttare.
L’uso dei superpoteri è sempre un’occasione per riflettere sul tema del potere.
Quando ce l’hai, devi utilizzarlo per gli altri e non unicamente per te. Con Guaglianone e Menotti, l’altro sceneggiatore, ci siamo detti: raccontiamo questo bisogno di tendere la mano e aiutarsi a vicenda. Non a caso, abbiamo messo il potere più forte in mano all’ultimo degli ultimi, un ladruncolo di periferia. C’è più purezza e speranza che le cose possano cambiare, perché non è viziato dalle logiche sul potere che seguono un istinto puramente egoistico.
E’ la svolta di Ceccotti.
Il film parla di un riscatto sociale, di persone che si sentono ostaggio di una borgata dove il destino sembra essere già deciso. Ceccotti è un misantropo, un lacerato, un piccolo criminale che non fa male a nessuno e avrebbe tutte le ragioni per dire “questo potere lo tengo per me”. Attraverso l’amore per una ragazza, comprende che può fare qualcosa per gli altri. In un Paese dove il potere non è pensato come servizio, ma come privilegio.
Sarà anche per questo che “Lo chiamavano Jeeg Robot” è stato un po’ irretito nella campagna elettorale che ha portato Virginia Raggi e il M5S alla vittoria in Campidoglio. Un film con superpoteri per una Capitale con superproblemi. Le ha dato fastidio o no?
Ho mantenuto una certa distanza, o almeno ci ho provato. Esistono argomenti, legati soprattutto alle periferie, che mi stanno particolarmente a cuore. Quando si parla di queste cose, sono disposto a dire la mia. Però durante tutta la campagna elettorale per le amministrative di Roma il film è stato strumentalizzato da una parte e dall’altra. In occasione di “Edison for Nature”, progetto di cinema collettivo su natura, uomo ed energia a cui partecipo, i giornalisti continuavano a chiedermi delle Olimpiadi a Roma. Cosa c’entrava? Sono dovuto intervenire pubblicamente per liberare il mio film da ogni strumentalizzazione di questo o quell’altro partito. Oggi in Italia ha poco senso parlare di identità politica. I partiti si sono trasformati in entità assai rarefatte, ostaggi di tecnicismi incomprensibili. Jeeg è di tutti, non è di destra né di sinistra. E’ un eroe sociale, non politico.
Sequel sì o sequel no. Sciolga l’arcano, almeno per le prossime 24 ore.
Mai detto che non avrei fatto un sequel. Ci vuole l’idea giusta, quindi ci penso. Con una certa cautela, però ci penso.