Thursday, November 21, 2024

CINERELLO. LE RECENSIONI E LE VARIANTI

Lello Montuori

 

text_ Lello Montuori

NEI GIORNI PRECEDENTI E SUCCESSIVI AL DEBUTTO DELLO SPETTACOLO TEATRALE “IL GRAN BALLO DI CINERELLO”, SCRITTO E DIRETTO DA SALVATORE RONGA, DISCUSSIONI, POLEMICHE, TANTE VOCI SI SONO ALZATE SUI GIORNALI LOCALI E, SOPRATTUTTO, IN FACEBOOK PER COMMENTARE LA SCELTA DI REALIZZARE UNA COMMEDIA TEATRALE CHE RIVEDE UNA DELLE FAVOLE PIÙ CELEBRI DELLA CULTURA OCCIDENTALE, CENERENTOLA, IN VERSIONE OMOSESSUALE. CINERELLO È, INFATTI, UN RAGAZZO CHE SI INNAMORERÀ -CORRISPOSTO – DEL PRINCIPE. IL REGISTA RONGA HA AFFRONTATO IL SOGGETTO CON LA SENSIBILITÀ, L’INTELLIGENZA, LA CAPACITÀ MAIUETICA DI TIRAR FUORI DAI SUOI ATTORI IL MEGLIO, CHE GLI APPARTENGONO. QUANTO AI NUMEROSI COMMENTI CHE SI SONO SVILUPPATI ATTORNO ALL’IDEA DI UNO SPETTACOLO CHE PARLASSE APERTAMENTE DI OMOSESSUALITÀ IN UN CENTRO PICCOLO COME ISCHIA, ABBIAMO SCELTO LA RIFLESSIONE DI LELLO MONTUORI, AVVOCATO, DIRIGENTE DEL COMUNE DI ISCHIA E FRA I PROTAGONISTI DELLO SPETTACOLO.

 

Ho riflettuto a lungo prima di scrivere questo post. Per quanti sforzi uno faccia di essere sereno, ci sono sempre mille e una ragione che indurrebbero a tacere. Per quieto vivere. Per evitare critiche. O anche solo apprezzamenti. Perché – secondo alcuni – su certi temi è meglio stare saggiamente sulla riva del fiume e aspettare che passi la piena per guadarlo in sicurezza, piuttosto che farsi trascinare via dalla corrente.
Ma di Cinerello vorrei scrivere. È un tema coinvolgente, che merita di essere affrontato. Non per solidarietà amicale nei confronti dell’Autore. Non ne ha bisogno. Nemmeno per difendere un talento artistico del tutto inesistente (il mio, s’intende). Ché sul talento degli altri Attori e del Regista preferirei sorvolare, accogliendo l’invito di Wittgenstein: “Occorre tacere tutto ciò di cui non si può parlare con certezza”. Cedo tuttavia alla tentazione, scusandomene subito. Io personalmente li ho trovati straordinari. Ma non ho alcuna competenza per valutarne la resa in palcoscenico. E viviamo in tempi in cui è bene che “ciascuno parli con certezza di ciò che sa” piuttosto che esercitare il diritto – o dovrei dire l’abusata facoltà – di partecipare agli altri, a tutti gli altri, ciò che gli passa per la testa. Poi, per carità, ciascuno è libero di regolarsi come crede. Sotto quale profilo vorrei allora scrivere di Cinerello e del Gran Ballo? Sotto l’unico profilo che in fondo stava a cuore non all’autore, non agli attori e nemmeno a buona parte del pubblico di sala, ma a chi in quella sala non c’è stato o magari ci è venuto perché il tema sullo fondo era di quelli attualissimi e ad un tempo dibattuto. Vale a dire, inutile girarci intorno, “il mondo omosessuale” come alcuni hanno scritto non rendendosi conto – ne sono certo – della portata se non omofoba almeno ghettizzante ed offensiva della presunta o reale “appartenenza” di questo e di quello a tal presunto mondo di cui – forse – i primi ad averne capito molto poco, sono proprio molti di quelli che ne innalzano il vessillo nei tanti pride di città in città, nelle nazioni progredite dell’Occidente tollerante.
Sì. Perché ammesso che una lezione si possa trarre da un’opera d’arte – e una rappresentazione teatrale, riuscita o meno, è per convenzione culturale un’opera d’arte e dell’ingegno – quella lezione, o forse il suo nucleo di senso della quale sono davvero grato all’Autore, sta tutta in quella felice o molto triste metafora del Fato: Cinerello crede che le sponde siano due e non si accorge che si tratta piuttosto dell’unica sponda di un laghetto con tante paperelle.
È la famiglia umana in cui si intrecciano lega- mi dalla notte dei tempi. Legami spesso senza nome, ma con tanti volti. Emozionati o tristi, appagati, delusi o per un attimo felici. I lega- mi d’affetto d’amore e d’amicizia dell’uomo in quanto uomo. Non esiste infatti alcun “mondo omosessuale” nel quale rispecchiarsi per cercare identità.
Perché l’identità non è la maschera di chi ci si porta a letto. Non esiste un modo d’essere che contraddistingue un “mondo”, piccolo o grande che sia. In questo presunto “mondo” che non esiste, ci sono persone intelligenti e persone che non lo sono affatto, uomini e donne colte e altri che non lo sono, persone sensibili
ed altre aridissime, vanesi, sprovveduti, erotomani, persone generose ed altre avide. Persone per bene ed altre che non lo sono. Semplicemente perché quello omosessuale non è un mondo. Ma solo una variante fra le infinite varianti del modo di essere di ogni creatura
– uguale solo a se stessa – in questo mondo. Non c’è quindi sensibilità omo o etero che sia da trasferire in un’opera d’arte -e il teatro è un’arte – che appartiene al suo Autore non più di quanto appartenga da sempre ad ogni spettatore che da quell’opera trae emozioni, suggestioni, aspirazioni, desideri o semplicemente delusioni. Pretendere di trasferire all’opera – che sia riuscita o meno – una parte vera o falsa della storia di chi l’ha creata significa – in fondo – privarla del suo nucleo di senso, o forse non riuscire a coglierlo. Perché si correrebbe il rischio di ridurre ogni rappresentazione ad un’autobiografia rischiando di perdere ciò che almeno da Platone in poi fa dell’artista un “essere leggero e alato”, che sa dire ciò che altri provano senza saperlo esprimere o addirittura ciò che molti non sanno nemmeno di provare. Libertà dunque. Di amare un’opera d’arte. Persino di detestarla. Di restare delusi. O ad essa indifferenti. Ma non di leggervi al di là di ciò che essa esprime.

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