LECTIO MAGISTRALIS A ISCHIA PER LO PSICHIATRA E SOCIOLOGO PAOLO CREPET CHE, OSPITE DELL’OPERA PIA IACONO AVELLINO CONTE, RACCONTA I GIOVANI ITALIANI SENZA FARE SCONTI, IN PRIMO LUOGO AI GENITORI CHE LI EDUCANO PROTEGGENDOLI TROPPO, QUASI NON SI FIDASSERO DI LORO.
Un affresco sulle nuove generazioni, partendo da un duro “j’accuse” alle vecchie. Perché l’Italia dei bamboccioni, dei giovani che restano a casa fino alla soglia dei quarant’anni, della conoscenza delle lingue straniere che diventa un optional, è un paese destinato a perdere il confronto con gli altri paesi. E allora lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet, ospite della cerimonia di assegnazione delle borse di studio dell’ultimo concorso dell’Opera Pia Iacono Avellino Conte, non si è fatto pregare: una lection magistralis, la sua, che è stata anzitutto una disamina franca e schietta di un popolo che prova a spianare la strada ai propri figli, «finendo con il crescerli nella bambagia».
Nel Grand Hotel Re Ferdinando di Ischia, in presenza del presidente dell’Opera Pia, Celestino Vuoso, del vescovo Pietro Lagnese e di alcuni dei sindaci dei comuni dell’isola, Crepet ha snocciolato storie e aneddoti. Con un unico filo conduttore: quei figli che non crescono più. O crescono tardi e male. Preservarli, spesso, vuol dire tarpare le ali. «Non per nulla – ha raccontato Crepet, volto assai noto anche del panorama
televisivo, spesso chiamato in causa per consulenze nei più celebri talk show – il padre di Bill Gates, al quale fu chiesto come avesse fatto ad allevare un simile genio, risposte laconico: “Ho semplicemente tolto”. Perché l’intelligenza si sviluppa con la necessità di risolvere problemi e trovare soluzioni. Se ci è dato tutto, ci si impigrisce. Inevitabilmente».
Sullo sfondo, le paure di un mondo incerto, minacciato dai terrorismi. «Così come è un atto empio preservare un bambino dall’esperienza di un funerale – ha spiegato lo psichiatra – è giusto raccontare ai più piccoli quel che sta ac-
cadendo nel mondo: è quel che ho risposto ai genitori che, spaesati, mi hanno chiesto lumi sui recenti, sanguinari attentati terroristici. Ma è insano quel che la nostra generazione ha fatto negli ultimi decenni, convinta che educare significasse celare ai figli il dolore. Un po’ come quella scuola alla cui inaugurazione mi hanno mostrato un pavimento antitraumi. Mi sono guardato intorno e ho chiesto al progettista: “Ma forse viviamo in case in cui non fa male cadere per terra?”. Ecco, educare non può voler dire foderare le mura della propria casa di gommapiuma: è insano educare le nuove ge-
nerazioni togliendo la conoscenza del male e il dolore, quasi che la modernità imponga l’assenza totale di dolore e di fatica, frustrazione e sconfitta».
Un folto pubblico, nel cuore di un sabato autunnale, ha seguito il percorso di Crepet, accompagnandolo con attenzione nei meandri di considerazioni e racconti, riflessioni e sentenze. «Non comprate libri sull’educazione. Non esistono decaloghi», ha sottolineato lo psichiatra. E ai genitori in sala ha suggerito di smettere, laddove sia presente, l’atteggiamento iperprotettivo nei confronti dei figli: «Li accompagnate fin dentro la scuola? Finitela. Fate in modo che i vostri bambini ci arrivino in autobus. Che socializzino coi compagni, che si innamorino, che si confrontino su quel rigo di una versio-
ne di latino non compreso, salvando l’interrogazione imminente. Siamo ossessionati dalla necessità di preservarli da tutto, quasi non ci fidassimo di loro: diventiamo i loro camerieri, eserciti di mamme come quelle che affollavano la scuola in occupazione di mia figlia, portando vassoi di pasta al forno rovente. Ecco, ma un diciottenne non è un novantenne bisognoso di un bastone. Semmai, un ragazzo in rampa di lancio. Pronto a spiccare il volo, purché non gli si tarpino le ali».
Un dato, su tutti. 2,6 milioni di giovani, in Italia, non studiano e non lavorano. Sono in una sorta di limbo, non ancora introdotti nel mondo del lavoro. «Vi sembra un problemino da poco? Non è così: con un fardello insostenibile come potremmo competere nel mondo? Perché io non credo nei miracoli: chi oggi a ventinove anni non ha sviluppato un talento, non lo farà a trent’anni. E quando a trent’anni non sai fare niente, è una brutta malat-
tia. Perché abbiamo allungato la vita, certo, ma non l’ingresso nella vita. E allora rischiamo di tirar su generazioni che non vedano oltre i trenta centimetri dello schermo
del proprio computer, quando bisognerebbe mirare all’infinito. Come quel mio amico che mi ha confessato che da piccolo oltrepassava con l’immaginazione il terrazzo di casa, guadagnando l’orizzonte lontano. Si chiamava Renzo
Piano. Non si accontentava di quel che vedeva, comodamente, dalla sua finestra». Creatività, autostima, talento, crescita personale. «Ho visitato un’azienda di San Francisco acquistata per una cifra imponente dalla multinazionale dell’informatica Cisco. Vi si producono idee straordinarie e ognuno si veste come gli pare. Ci sono cani e biciclette. Gli orari? Sono un optional. Volete sapere quanti anni ha l’amministratore delegato? Ventinove. E ha posto una condizione: restiamo qui a lavorare, e con le nostre condizioni. Producendo in libertà. Creando. Ecco, c’è un problema di fondo se nel mondo in cui viviamo, che resta un mondo pieno di opportunità, i giovani italiani si affacciano timorosi e spaesati, magari anche rassicurati dalla casa di proprietà acquistata dai genitori, mentre in America a trent’anni sei già sulla cresta dell’onda. E c’è un problema di fondo se anziché utilizzare il web cogliendone le potenzialità, ci fermiamo ai ‘pollicini’ su Facebook».
Parole crude, l’aneddotica a supporto di una teoria senza sconti. In una serata moderata da Ciro Cenatiempo e impreziosita da un lungo
videoclip realizzata da Graziano Petrucci, Eleonora Sarracino, Emanuele Rontino e Marco Albanelli: ai giovani ischitani, è stato chiesto di rispondere a una serie di domande sull’isola, sul lavoro, sulla famiglia e sulla politica. Poi, l’assegnazione delle borse di studio del Concorso per le scuole sul tema “Il lavoro: i giovani vivono una condizione caratterizzata da insicurezza e precarietà, con la conseguente impossibilità di progettare il proprio futuro”. Appunto.
Educare non è foderare le mura della propria casa di gommapiuma: è insano educare le nuove generazioni togliendo la conoscenza del male e il dolore, quasi che la modernità imponga l’assenza totale di fatica, frustrazione e sconfitta.
Un diciottenne non è un novantenne bisognoso di un bastone: semmai, un ragazzo in rampa di lancio, pronto a spiccare il volo, purché non gli si tarpino le ali.
text_ Pasquale Raicaldo