29/2011
Photo: Riccardo Sepe Visconti
Text: Riccardo Sepe Visconti
Alle soglie del federalismo fiscale, sul ciglio di un certo dissolvimento del senso unitario della Repubblica Italiana e, soprattutto, a cavallo fra il tramonto dell’era bassoliniana e l’avvio del governatorato di Stefano Caldoro, Marco De Marco, direttore del Corriere del Mezzogiorno – costola partenopea del più grande quotidiano italiano, Il Corriere della Sera – che si è imposto come il più autorevole laboratorio di analisi e progettazione politica nel Meridione, si offre alle nostre domande. De Marco è il fondatore e da sempre il direttore della testata, il che fa di lui uno degli interpreti principali del giornalismo italiano, ma anche uno dei più ascoltati esperti della politica del Sud Italia. Il Direttore ci ha risposto in veste di commentatore ma anche di scenarista, spingendosi a proporre delle ipotesi percorribili per ridisegnare un Mezzogiorno capace di recuperare i deficit e rimettersi nuovamente in linea per competere nella modernità. E’ uscito da poco il tuo libro “Terronismo”, con il quale entri nella spinosa querelle sulle responsabilità storiche della difficile situazione che attraversa il sud Italia. Quale posizione hai scelto di prendere? Il mio libro è una risposta a Pino Aprile che con il suo “Terroni” sostiene la tesi della rapina da parte del Nord sul Sud e parla di una ‘piemontesizzazione’ del Mezzogiorno, come del resto fanno anche i neoborbonici. Questa tesi ha un suo fondamento ma è esagerata, e per riparare ad un danno si è finito per provocarne un altro. È proprio per questo che ho scritto “Terronismo”, per evidenziare come gli atteggiamenti molto localistici, sia nordisti che sudisti, hanno in comune più di quanto si creda e fanno male al Paese. In linea di massima, si pensa che i leghisti siano lontani dai neoborbonici mentre, a ben vedere, spesso prendono posizioni simili, nel senso che preferiscono un’Italia pre-risorgimentale, divisa in sette Stati (tra i quali il Regno delle due Sicilie) piuttosto che unita. Gli uni e gli altri, inoltre, professano una retorica dell’epopea del brigantaggio in quanto, poiché i briganti erano contro i piemontesi e quindi contro l’unità del Paese, sono funzionali anche alle tesi leghiste. I fautori del primato Nord come del Sud sono talmente all’opposto che alla fine quasi si toccano, hanno dei punti di contatto ed il “terronismo” non è altro che questo, l’estremizzazione dei localismi. A partire da un certo momento, è apparso evidente come intorno all’Amministrazione di Antonio Bassolino si sia costituita una “corte”, regolata da un sistema di potere e clientele che ha fatto molto male alla Campania. Si potrebbe quasi cogliere aspetti di contiguità con la vicenda borbonica: i funzionari corrotti popolavano l’apparato borbonico e pare che Garibaldi abbia vinto non solo per l’audacia delle sue truppe, ma anche per un esercito nemico guidato da generali che si sono subito venduti ai Savoia. C’è molta differenza con i “generali” di Bassolino? La metafora funziona, non c’è differenza. Il Regno borbonico è imploso in pochi mesi e non si capisce quale fu la ragione primaria, se non quella di un male che lo aveva colpito in ognuno dei suoi settori; ed anche il ‘regno’ bassoliniano, dopo circa sedici anni e più di successi, improvvisamente è scoppiato. Per tempo ho fatto una lettura critica di questo fenomeno. Dopo, invece, ho scelto 28 – C U L T U R E i MARCO DE MARCO Interview: Riccardo Sepe Visconti Photo: Riccardo Sepe Visconti di insistere meno su questo punto, non perché abbia cambiato idea ma, semplicemente, perché l’hanno cambiata gli altri. Fino a circa cinque anni fa, infatti, era difficile attaccare il sistema bassoliniano e quando il Corriere del Mezzogiorno lo ha fatto è stato considerato un ‘marziano’. Poi, le cose si sono capovolte, non ce n’era più nemmeno uno che non lo criticasse: è allora che mi sono fermato, perché è diventato un luogo fin troppo comune, e il rischio che corriamo adesso è di identificare con Bassolino l’unico male campano. Il sistema di governo bassoliniano è stato fallimentare, ma non si è analizzato con serietà perché sia andata così ed in mancanza di un’analisi, che oggi molti preferiscono non fare, il fantasma dell’ex Presidente viene agitato più come alibi che come spiegazione. Sono convinto che la sinistra avrebbe dovuto fare un’analisi compiuta del periodo bassoliniano e quindi emettere un giudizio che fosse di condanna o di assoluzione. Pensi che adesso si sia realmente voltato pagina? No, non abbiamo ancora voltato pagina, proprio perché non c’è stata questa lettura critica, se non da parte di alcuni, e forse il Corriere del Mezzogiorno è fra questi. Il PD, però, il partito di Bassolino, non si è mai fermato a capire cosa in quel sistema non andasse ed il problema del rapporto con il suo leader campano non è stato mai risolto. Perché il PD non riesce a elaborare questo giudizio su Bassolino? Mancano le persone in grado di compiere un tale passo? Non riesce a farlo perché è una fase politicamente molto complicata per tutti, ma in modo particolare per la sinistra, soprattutto quella meridionale. Sono finiti, infatti, i grandi partiti del ‘900 e sono finite anche le esperienze dei grandi leader della Seconda Repubblica, quelli che furono i primi sindaci d’Italia scelti con il sistema di elezione diretta, per esempio lo stesso Bassolino, Leoluca Orlando. Loro, come anche i governatori delle Regioni, hanno fallito nel solo compito che dovevano portare a termine: unire il Paese dal punto di vista socio-economico. Non ci sono riusciti e, nonostante i notevoli fondi europei, la distanza Nord-Sud non è stata colmata. Quello che poteva salvarci era l’alternanza, cioè il fatto che nuovi leader sostituissero quanti avevano fallito, ma i nuovi leader frutto dell’alternanza non sembrano avere una strategia completamente diversa dai loro predecessori e la necessaria robustezza di analisi: insomma, non mi danno l’idea di aver ben chiaro cosa vogliono fare. L’attuale presidente della regione Campania, Stefano Caldoro è uno di quelli che incarna di più l’alternanza, ma allo stato attuale quale sia il suo progetto per il Mezzogiorno è difficile dirlo, ed è passato un anno da quando è stato eletto. Forse è caratterialmente troppo debole… Probabilmente Caldoro dà l’immagine di un leader debole perché ha alle spalle un piccolissimo partito, quello socialista, perché la sua candidatura è stata il frutto di un compromesso tra grandi elettori del centro-destra, perché non è stato scelto con molta convinzione e così via, ma ci sono situazioni in cui, una volta ‘al fronte’, si deve crescere rapidamente. Non credo, quindi, nella debolezza di Caldoro. Credo che, fino a questo momento, si stia impegnando in un risanamento dei conti pubblici, che era un atto meritorio ma inevitabile, un ‘vicolo stretto’ nel quale doveva necessariamente entrare: lo ha fatto ed ora sta cercando di uscirne. Capisco anche che tenti di occupare quanti più posti di comando è possibile, perché la politica è anche questo, tuttavia manca il passaggio successivo, la strategia, che ha a che fare con la scelta e, al momento, da parte sua non la vedo. Risanare i conti, occupare l’occupabile… ma per fare cosa? Non si riesce a capire. Prendiamo la sfera di cristallo in mano: che fine farà Nicola Cosentino, il potente coordinatore regionale del PDL? Tu credi che i suoi artigli siano ancora ben aggrappati alla spalla di Caldoro? Se parlassi di ‘artigli’ accetterei una visione di Cosentino che non è propriamente la mia. Non credo sia il male: è molto discusso, ma politicamente è una persona di indubbia bravura perché è l’unico che sia riuscito a sconfiggere Bassolino. C’è, poi, un’altra faccia di Cosentino che è quella giudiziaria, che lo sospetta di essere colluso con la camorra, si sta svolgendo un processo e ci sono molti lati oscuri. Aspetto il processo e non lo dico solo formalmente: fino ad ora ho letto dichiarazioni molto inquietanti di pentiti, ma avere la dichiarazione di uno di loro non è di per sé una prova e il fatto che sia accusato da molti pentiti e che questi rimandino ad altri pentiti ancora, non mi fa maturare la convinzione di una condanna. Bisogna cercare le prove e spero che escano durante la fase dibattimentale. Non si rischia così di peccare di eccesso di garantismo? In un momento di grande sbandamento, in particolare del Meridione, non avremmo bisogno di una classe dirigente che sia perlomeno libera dai sospetti? Politicamente, possiamo operare questa scelta attraverso il voto. Si può votare o non votare Cosentino, ma quello che non mi convince è la creazione di alibi attraverso la creazione di mostri, sui quali concentrare tutti i mali di questa Regione. Ci siamo già passati: Bassolino governava lamentandosi delle bocche fameliche dei democristiani e dei socialisti, per esempio Pomicino, Di Donato, Gava che allora, in realtà, erano già tutti fuori gioco. A questo proposito, ricordo che lui, di solito molto corretto nel lessico, rilasciò un’intervista a La Repubblica e poiché Gava, che di lì a poco sarebbe morto, l’aveva criticato, autorizzò il giornalista D’Avanzo a “mandarlo a fare in culo”, e così fu scritto nell’intervista. Gava ha governato un secolo fa politicamente, e paventare i fantasmi del passato mentre si hanno in mano gli strumenti del governo a me dà fastidio. E lo stesso meccanismo si può innescare nuovamente: Cosentino avrà delle colpe, ma non credo che lui sia il male e che, una volta estirpato, qui ci sarà il paradiso. Il Mattino, uno dei quotidiani storici di Napoli, sembra aver abdicato al ruolo di foglio che parla alla classe dirigente e alla società civile della città. Sei d’accordo? E che funzione ha scelto di darsi la testata che dirigi? Per me è un po’ difficile parlare criticamente de Il Mattino, non per una questione di bon ton, quanto piuttosto perché ne capisco i problemi: è il più grande giornale del Mezzogiorno (anche se è essenzialmente campano), ha una lunghissima storia alle spalle che ne fa un’istituzione ma deve anche stare sul mercato, deve parlare a tutti perché è un generalista ed ha una responsabilità che le testate più piccole, come la nostra, non hanno. Per noi, è molto più facile assumere posizioni provocatorie, rivolgersi all’élite e stimolarla, siamo come una scialuppa rispetto all’ammiraglia che va più lenta. Il Mattino è stato coinvolto nella crisi più generale che abbraccia tutto il Mezzogiorno? Sì, ma ci siamo dentro tutti. Se questo Mezzogiorno non ha voce, se ha perso la capacità di interloquire con il Nord e non riesce più a produrre una classe dirigente, come faceva fino a qualche tempo fa, è un problema che riguarda tutti, anche noi che abbiamo avuto un atteggiamento critico. Essere stati critici, per esempio su Bassolino, non ci salva dal fatto che avremmo potuto fare molto di più. Come Corriere del Mezzogiorno abbiamo tanti meriti, credo. Uno di questi è aver aperto “L’osservatorio sulla camorra e l’illegalità”, cui ha partecipato tra i primi Roberto Saviano e che gli ha consentito, come giornalista ed opinionista, di uscire da un ambito di nicchia in cui si era mosso fino a quel momento, scrivendo per riviste on line e per Il Manifesto. Tuttavia, è dovuto arrivare il libro scritto da Saviano, “Gomorra”, per far aprire gli occhi sulla camorra: noi che eravamo già qui, in primo piano, con un giornale, non ci siamo riusciti. Significa che abbiamo avuto un difetto di comunicazione, non siamo stati capaci di farci sentire. E quando non ci si fa sentire, è soprattutto colpa di chi parla: probabilmente non abbiamo parlato abbastanza chiaro. Non direi che non si è parlato abbastanza forte perché, anzi, il Sud è abituato a gridare, urlare, protestare in maniera clamorosa, ma è mancata la qualità della protesta, ed abbiamo sbagliato noi giornalisti, intellettuali, opinion maker, avremmo dovuto capire che era tempo di scegliere un linguaggio più diretto. Tu hai una grandissima responsabilità, sei sul ponte di comando di uno dei giornali che vuole contribuire a tracciare la rotta. Se siete usciti fuori rotta o non avete navigato nella direzione giusta, ora come pensi che si possa riparare? Non penso di essere uscito fuori rotta. Un giornale che ha capito con grande anticipo sugli altri che l’epopea bassoliniana era destinata al fallimento, è un giornale che non ha sbagliato, che era sulla rotta giusta. Penso, piuttosto, che la velocità, la quantità e la qualità di informazioni non sia stata adeguata ai tempi. Stiamo, comunque, parlando di un giornale locale, ma le cose sono un po’ cambiate da quando abbiamo il sito web che ci ha consentito di guadagnare una platea più ampia. Il problema, ora, non è nell’analisi delle condizioni del Mezzogiorno, perché su questo grosso modo siamo d’accordo, la questione è: che fare? Ho sempre pensato che un giornale deve stare addosso a chi comanda, essere molto critico, non solo con chi governa politicamente ma anche con chi governa l’opinione pubblica. Questa, però, non è una regola assoluta. Attualmente, sei critico con chi governa, ma in passato Il Corriere della Sera con il vecchio direttore Paolo Mieli ha scelto di appoggiare apertamente Prodi ed il suo governo. Attenzione! Ciò che ha fatto Mieli non è stato capito fi no in fondo. La sua presa di posizione non era semplicemente una scelta di campo in favore di Prodi, ma la scelta di una trasparenza di tipo britannico, come è normale in tutti i giornali politici seri in Europa (in particolare quelli inglesi) dove, prima del voto, il direttore dichiara cosa voterà. Ma, in quel sistema di informazione, lo stesso giornale che palesa la propria posizione è il medesimo che, poi, criticherà di più chi governa. Mieli mentre si dichiarava per Prodi, dava anche una garanzia ai lettori sul fatto che Il Corriere sarebbe stato il primo e più severo controllore. Questa seconda parte del ragionamento di Mieli non è stata capita, in primis da Berlusconi e dai suoi. Comunque, alla luce di quell’esperienza del mio direttore, ho preso atto che non è ancora tempo di fare degli “endorsement”, non è prudente. Durante l’anno che precede il voto, però, le mie opinioni sono abbastanza esplicite e, comunque, la nostra posizione è chiara: il giornale deve innanzitutto criticare chi governa. Oggi, governa Caldoro e non è un caso che le prime osservazioni, anche negative, al sistema Caldoro siano venute da qui, nonostante io per primo avessi auspicato l’alternanza. Ma, non appena l’alternanza si è realizzata, ho cominciato a guardare alla qualità della stessa, sono quello che osserva con più attenzione l’attuale governo regionale, per sottolinearne le positività come ciò che non funziona. Altra cosa cui tengo molto è il fatto che non possiamo porci solo il problema della pura informazione, perché il Sud ha bisogno di strumenti di autogoverno, di organizzazione e il giornale deve essere uno di essi. Quali sono gli altri strumenti cui è necessario fare riferimento? Il mercato, i partiti, le istituzioni. Da questo punto di vista il Mezzogiorno fa acqua da tutte le parti. Le nostre istituzioni culturali sono messe male, le Università non brillano per qualità, il mercato è condizionato dalla presenza criminale, gli imprenditori non investono con serenità, le istituzioni hanno una strana concezione di se stesse, credono di dover produrre assistenza e non progettualità, il che m’inquieta. Allora, chi seleziona la classe dirigente in un sistema ridotto in queste condizioni? In un sistema normale la classe dirigente è selezionata dall’Università, dal mercato, dalla concorrenza, ma tutto questo al Sud manca. Anche i partiti selezionano la classe dirigente, sono uno degli strumenti che la società si dà. E voglio fare l’esempio della Lega Nord. Nella Lega chi è arrivato a governare nei Comuni e nelle Regioni? Forse quelli che agitavano il cappio in Parlamento, i più sboccati, i più radicali? Credo di no. Sono andati a governare i migliori, perché li ha selezionati quel partito, parliamo ovviamente non dei partiti ‘personali’, creati ad hoc intorno alla fi gura di un leader, ma di quelli che difendono il territorio. Mi parli con ammirazione della Lega. Mi chiedo se questa simpatia non abbia origine nella tua passata militanza nel PCI, nel quale l’attività delle sezioni e lo strettissimo rapporto con i gruppi di base erano elementi fondanti nella vita del partito. Oggi, la sinistra anche da questo punto di vista è cambiata, ma forse ritrovi nella Lega il medesimo forte collegamento col territorio che fu della sinistra? Non so se ci possa essere questa spiegazione di tipo psicologico. Non sono un elettore della Lega, ma rifuggo dall’idea che i mali attuali dell’Italia li abbia provocati la stessa Lega. E, infatti, ho scritto un libro per dimostrare che l’antimeridionalismo razzista è nato prima della Lega ed è nato a sinistra e nel Mezzogiorno, non al Nord e non nel mondo culturale della Lega. Affonda nei secoli passati, intorno al ‘200-‘300, allora si parlava del Mezzogiorno come di un “paradiso popolato da diavoli”, intendendo che il Sud era sì bello ma abitato da individui assolutamente all’opposto. All’inizio del ‘900, queste visioni piene di pregiudizio si concretizzano in un vero e proprio atteggiamento razzista nei confronti del Sud attraverso il pensiero di Cesare Lombroso, il sociologo criminale che elabora una teoria secondo la quale in Italia esistono più razze. Lombroso è un settentrionale e arriva nel Sud con l’esercito piemontese, ma i lombrosiani sono tutti meridionali e tutti socialisti! Diventano razzisti quando, a quarant’anni dalla liberazione dai Borbone, si rendono conto che la loro terra è ancora con le ‘pezze al fondo della schiena’. Non si spiegano come il Piemonte vada a gonfi e vele mentre loro sono ancora al palo e, invece di confrontarsi con la propria realtà e darsi una spiegazione razionale, addossano la colpa di questa situazione non alla classe dirigente ma al popolo napoletano e meridionale, un popolo di barbari, incolto, plebeo. I leghisti arrivano molto dopo, ma questo nessuno lo dice. Allora, che giudizio dai del grande successo della Lega? Io vedo la Lega come un partito che funziona e che riesce a selezionare classi dirigenti. In fondo, a cosa serve un partito? A decidere chi debba governare – un Comune, per esempio – e tra i suoi sceglie il migliore. Possiamo dire tutto contro la Lega, tranne che non abbia selezionato un’ottima classe dirigente, locale e nazionale. Maroni, leghista, è considerato da tutti forse il miglior ministro degli Interni di tutti i tempi e stiamo parlando di un Ministero che è stato retto da fi gure di altissima qualità. Molti Comuni del Nord sono bene amministrati e lo affermano gli stessi cittadini. Si provi a chiedere ad un napoletano se è contento di come è gestita la sua città: non se ne troverà uno che dica di sì. In verità, i comunisti credevano che il partito fosse l’esclusivo strumento di governo della società e in ciò sono un post-comunista, perché non concordo con questa posizione. Credo, infatti, che ci siano altre forme di selezione, come un’università qualifi cata, ma anche un mercato in cui c’è concorrenza seleziona classe dirigente, perché consente che emerga l’imprenditore migliore: e, ripeto, nel Mezzogiorno nessuno di questi sistemi è all’altezza. Non sono, quindi, affascinato dalla Lega in sé. Ugualmente, mi affascinano il mercato, la concorrenza, ma è un fatto che la Lega da più di vent’anni decide l’agenda politica di questo Paese ed ha prodotto l’unica proposta di ‘ingegneria’ statale degli ultimi tempi: il federalismo, la devolution, la regionalizzazione dei Ministeri sono tutte idee innovative venute dal Nord, non dal Sud. Il fatto che la Lega sia un partito che non vuole rappresentare la totalità degli italiani, ma solo una fetta di popolazione ben defi nita, rende forse il compito un po’ più semplice. Seguendo questo ragionamento, allora al Sud dovremmo creare il partito meridionalista? Chi ce lo vieta? Una discussione vera sul ‘partito Meridionale’ non è mai stata fatta: qui si stabilisce ciò che bene e ciò che male, e si decide che un partito meridionale sarebbe il male. Sicuramente, non ho una concezione neo-borbonica, ma penso che si possa fare una discussione. Invece, in questo Paese si decide che ci sono cose delle quali non si può neanche parlare e l’idea di un simile partito fa venire l’orticaria a tanti. I modi per poter fare un partito Meridionale sono vari: per esempio, si potrebbe richiamarsi a un’esperienza come quella del partito Radicale, che selezionava classe dirigente prevedendo la doppia tessera, potevi essere comunista e radicale, socialista e radicale. Perché allora non prevedere un sistema in cui c’è un partito Meridionale con la doppia tessera, permettendo di far parte di questo e di un altro partito? Parlare di partito Meridionale rievoca solo l’MPA di Lombardo e l’UDEUR Popolari per il Sud di Mastella. Mentre nessuno vede che nel Sud si sta realizzando la più grande rivoluzione civile dell’Italia repubblicana – e di questo parlo nel mio libro – vale a dire il fatto che, ogni anno, centinaia di migliaia di giovani lasciano la loro terra, non perché in condizione di miseria, ma perché non ne possono più di un paese dove non c’è mercato, non c’è concorrenza, dove i padri devono coltivare le clientele per i fi gli, dove per vincere un concorso devi essere ‘fi glio di’. Questi ragazzi sono il segno che nel Mezzogiorno c’è una forza viva che decide di esprimere il proprio dissenso in modo civile, non vanno via, come era successo ai loro nonni, per disperazione, ma perché rifiutano un sistema che non funziona: è una vera e propria rivoluzione silenziosa di cui non si parla. Un partito Meridionale da formare non dovrebbe essere chiuso in un localismo asfittico, potrebbe avvalersi della grande esperienza di questi giovani con l’obiettivo di portare il Mezzogiorno fuori dalle secche in cui è finito. Penso al “concretismo” di Gaetano Salvemini che, dopo aver studiato l’esperienza americana e come quella società si organizzava, una volta tornato in Italia sosteneva che i partiti avrebbero dovuto formarsi espressamente con l’obiettivo di risolvere problemi concreti. Ora, uno dei più grandi problemi che abbiamo qui non è tanto la questione meridionale, ma quella napoletana: un partito che si prefigga di trovare una soluzione è, secondo me, un partito nobilissimo e degno di provare ad esistere. Quali sono le tre priorità che daresti a questo partito? Quali sarebbero i primi nodi da sciogliere? Una è sicuramente la lotta alla criminalità, dando una mano a chi ha questo compito: sarebbe un bel modo di dare corpo allo slogan “siamo tutti Saviano”. Facciamo sì che la battaglia per la legalità non la porti avanti un solo eroe ma tutti, facendo funzionare le procure, il sistema giudiziario, non battendo la strada della pura retorica e del sospetto. Fondamentale è anche lo studio del fenomeno criminale: per dieci anni, nel periodo bassoliniano fino alla faida di Scampia, non è stata prodotta alcuna ricerca sociologica sulla camorra. Eravamo convinti che, visto che governava la sinistra, ciò era sufficiente! Possibile che l’unico studioso del fenomeno criminale in Campania sia Saviano? Questo è un compito delle università, degli economisti. Le altre priorità che individuo sono liberare il mercato e il lavoro, dando una possibilità ai giovani di trovare uno sbocco qui, se vogliono. Come hai detto, Roberto Saviano ha scritto sulle colonne del Corriere del Mezzogiorno. Eppure, è accaduto che il vostro giornale abbia preso posizione contro di lui, per esempio nella polemica che ha avuto con la nipote di Croce, a proposito di un aneddoto, in verità privo di riscontri certi, secondo cui il padre del filosofo, quando era sepolto sotto le macerie del terremoto di Casamicciola, avrebbe consigliato al giovanissimo Benedetto di pagare una cifra spropositata per comprare l’aiuto dei liberatori. Ebbene, Saviano ha letto in quest’episodio un incitamento alla corruzione, un voler ricorrere ad ogni mezzo pur di superare gli ostacoli, indicandolo come un malcostume del Sud diffuso e fortemente radicato da secoli, anche nelle classi più evolute. Non sono d’accordo con Saviano su questa lettura della mentalità meridionale, e tuttavia lo scrittore è un simbolo della lotta alla camorra e all’illegalità diffusa: per questa ragione, non è preferibile evitare simili polemiche contro di lui? È sbagliato delegare tutto a Saviano, dargli questo ruolo mistico di esclusivo eroe civile. Una società che ha bisogno di eroi è una società messa male, perché l’eroismo sottintende la delega: se devo denunciare qualcosa ci penso, però compro il libro di Saviano e mi sento l’anima in pace, ma questo meccanismo non è utile. Saviano non va trattato come un mito, ma preso per quello che è: uno scrittore che, attraverso ciò che dice, mobilita le coscienze. Il problema è che Saviano tende talvolta ad incarnare la verità e questo credo che nessuno possa farlo. Chi ha fede pensa che Dio sia la verità, chi non ha fede non può pensare che Saviano sia la verità. Nonostante da me e dal Corriere del Mezzogiorno sia partito l’Osservatorio sulla camorra per far scrivere Saviano che aveva bisogno di molto spazio, non si può far finta di nulla quando commette degli errori. Questi errori possono essere marginali, ma cos’è che li fa diventare importanti? Il fatto che lui li neghi. Nel caso specifico, dice sempre di anelare ad una vita normale. “Chiedere scusa” è una cosa normalissima che non ha a che fare con lo stato di privazione di libertà in cui si trova: perché non ha chiesto scusa a Marta Herling, la nipote di Croce? Perché ha cercato di difendere l’indifendibile? Perché bisogna dargli ragione, quando ci si accorge che sta prendendo una strada che conduce al fanatismo? Non capisco tutto questo. Io faccio parte di una generazione che ha criticato, sbagliando, anche Giovanni Falcone. Ero all’Unità quando si candidò alla Procura Antimafia e ricordo che in quegli anni il mio giornale lo attaccò, quando era già stato oggetto di un attentato, era minacciato dalla mattina alla sera, viveva sotto scorta. Ciò nonostante, in quell’Italia lì era ancora possibile fare una battaglia politica trasparente tra chi voleva Falcone e chi voleva Cordova alla testa della Superprocura. L’Italia si schierò con Cordova sbagliando, ma si schierò e non per questo Falcone andò in tv a parlare delle riserve che gli venivano mosse: accettò la battaglia. A breve, l’isola d’Ischia voterà con un referendum consultivo per esprimersi a favore o contro il Comune Unico: cosa ne pensi? Credo che, se i sei Comuni in cui l’isola è attualmente divisa non hanno prodotto il risultato sperato, continuare così sia una stupidaggine. Sono portato a dire, quindi, che una concentrazione delle forze è la soluzione migliore. Non necessariamente, però, si deve arrivare al Comune Unico. Un’organizzazione più omogenea si può fare anche prima della riforma istituzionale: adesso ognuno pensa per sé e quando è così è evidente che nessuno pensa per tutti. Spesso lo sviluppo anche economico non dipende da risorse finanziarie, persino il processo che ha portato all’Unità d’Italia non è nato su interessi economici forti ma su un’idea, l’idea di “Italia”, un’idea avuta prima dai letterati e poi dai politici. Ad Ischia manca un’idea. Che cosa vogliamo fare? Cosa dev’essere Ischia? Il giardino a mare d’Europa? Potrebbe esserlo, il verde di Ischia è meraviglioso. La grande beauty farm d’Europa? Può esserlo, tutto sta ad avere una grande idea. Ognuno, invece, si limita a gestire il suo alberghetto, ognuna pensa a fare concorrenza all’altro ed intanto l’isola è in declino.