DUE GRANDISSIME STAR OSPITI A ISCHIA
PER L’EDIZIONE 2016 DELL’ISCHIA GLOBAL FILM & MUSIC FEST.
A Ischia Global sono passati molti attori e attrici che hanno fatto grande il cinema e i nostri sogni. Perché, a dispetto della modernità, o dei cambiamenti d’epoca e costume, il richiamo della celebrità non è mai davvero tramontato.
Uno di questi è certamente Danny DeVito, interprete comico di graffiante ironia, regista di tagliente intelligenza, produttore cinematografico dal fiuto invidiabile. Nato a Neptune, New Jersey, nel 1944, è una figura sorprendente nel panorama cinematografico hollywoodiano. Artista totale ed eclettico di cui sono in pochi, tra il pubblico generalizzato in libera uscita il sabato sera, a conoscerne il genio. Forse perché il suo primo ruolo importante è quello di un borderline inebetito nella gabbia di matti di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. O forse per colpa di quel fisico buffo e tarchiato, a cui hanno riservato spesso parti sgradevoli (il laido paparazzo di “LA Confidential”), uomini magari rispettabili, ma troppo spesso animati da intenti truffaldini, dissimulati dietro una patina di contagiosa simpatia.
Istrione in coppia con Schwarzenegger (“Gemelli”) o in trio (con Douglas-Turner) nella saga d’avventura “All’inseguimento della pietra verde”, DeVito è insuperabile quando contamina la sua comicità con massicce iniezioni di cinico sarcasmo, che lo portano – ad esempio – a lasciare la consorte rompiscatole in mano ai rapitori in “Per favore, ammazzatemi mia moglie”. O quando, all’opposto, regala ai suoi personaggi politicamente scorretti (il mostro metà uomo e metà pinguino di “Batman”; l’espertone che si finge avvocato in “L’uomo della pioggia”; il comico incompreso in “Man on the moon”) una commovente carica di umanità. Del resto la difesa di deboli e freaks dalle angherie dei più forti è un leit motiv della sua carriera d’attore, regista e produttore. Anche in queste due ultime vesti, DeVito si diverte ad avvelenare l’America più perbenista e bacchettona. Produce il rivoluzionario “Pulp fiction” di Tarantino, il coraggioso “Erin Brockovich” con Julia Roberts da Oscar e “Man on the moon” di Milos Forman, intelligente omaggio a Andy Kaufman, suo collega di un tempo nella sitcom “Taxi”. Perfino dietro la macchina da presa, non si nega il brivido di qualche triplo salto mortale in storie corrosive, mai banalmente commerciali, capaci di svelare, anche con il sorriso e lo sghignazzo, ogni deformità del mondo. Ne “La Guerra dei Roses” trasforma un matrimonio modello nel più inarrestabile grandguignol di stampo elisabettiano; ritrova Nicholson in “Hoffa” e insieme si avventurano sul terreno scivoloso del sindacato americano; in “Matilda 6 mitica” (da Roald Dahl), mostra l’intelligenza viva di una ragazzina umiliata dalla severità della sua insegnante (e di un sistema scolastico demenziale) e in lotta contro l’indifferenza dei suoi genitori. Un atlante umano disfunzionale come quello raccontato da Todd Solondtz, altro irriverente del cinema americano, in “Wiener – dog”, film d’apertura di Ischia Global Fest e interpretato da DeVito con Greta Gerwig, Kieran Culkin ed Ellen Burstyn. E’ andato invece all’attore britannico Jeremy Irons il premio “Luchino Visconti Legend Award”. Un protagonista del cinema internazionale sempre molto amato dalla critica, legato al regista di “Senso” anche per il sogno, durato una vita intera e mai realizzato, di portare sul grande schermo la “Recherche” di Proust. Fu proprio Irons, otto anni dopo la morte di Visconti, a interpretare Charles Swann in un (dimenticabile) film di Volker Schloendorff. Bravo di una bravura solida e tetragona ai facili effetti, dotato di implacabile ironia british e del fascino discreto di un uomo del suo tempo, Jeremy Irons non gioca mai con lo spettatore, né mira a sedurlo compiacendosi del suo talento. Tanto che le sue interpretazioni, anche quelle più recenti dove il mestiere consumato e la routine di lusso prevalgono sulla freschezza espressiva dei primi anni, appaiono quasi dimesse, tutte giocate in tono minore. Puntellate su quello sguardo, intenso e interrogativo, dalle occhiaie perenni, enigmatico sullo schermo quanto lo sono state, sulla carta, le sue scelte professionali. Dopotutto, avrebbe potuto diventare una superstar da milioni di dollari a film, o signore incontrastato del palcoscenico, invece compare di rado, in pellicole mai all’altezza del suo carisma. E tuttavia, anche nei film più sballati (Irons – come tutti – ne ha girati eccome) la sua presenza finisce comunque per imporsi, miracolo di un’apparente normalità e di una recitazione di quieta e distesa intensità. Che fosse un fuoriclasse si era capito dal primo film in cui apparve con un ruolo importante: “La donna del tenente francese”, accanto al (già) solito mostro di bravura Meryl Streep. Il suo percorso d’attore s’instrada lungo una difficile ricerca all’interno di anime turbate e complesse: è un gesuita in Amazzonia alle prese col duello tra carne e spirito, delitto e castigo, civiltà e buon selvaggio in “The Mission” (al fianco di De Niro); presunto uxoricida ne “Il mistero von Bulow”, con il quale vincerà il premio Oscar come miglior attore; scrittore dai giorni contati nell’educazione sentimentale che Bernardo Bertolucci cuce sull’ultima vergine a caccia del principe azzurro di “Io ballo da sola”; ministro conservatore travolto da una passione irrefrenabile per la fidanzata del figlio ne “Il danno” di Louis Malle. A un certo punto, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, il suo nome si lega a una delle personalità più potenti e visionarie del cinema: David Cronenberg. Insieme girano “Inseparabili” e “M. Butterfly”, due autentici tour de force per qualunque attore. Nel primo, in particolare, il suo sdoppiamento nella coppia di gemelli chirurghi che si porteranno alla perdizione reciproca è forse una delle più affascinanti prove d’interprete che si siano mai viste sullo schermo.