L’impressione è che questo sarà l’anno del Museo di Capodimonte. Il nuovo direttore Sylvain Bellenger, francese, con una lunga carriera in strutture museali sia nel suo paese che americane, si è insediato da pochi mesi con una missione insieme ambiziosa e coraggiosa: elevare ad 1 milione l’anno lo sparuto numero di 120mila persone circa che lo visitano attualmente. Come? Attraverso un articolato programma di interventi che va dalla riorganizzazione dei percorsi espositivi delle opere ad un fitto lavoro di riavvicinamento della città al Museo attraverso l’istituzione di una navetta che permetta ai visitatori di raggiungere agevolmente il sito museale di Capodimonte (collocato nella zona alta di Napoli), ma anche dando vita ad iniziative che rendano il Museo – e il bosco – parte viva della città. E mentre il premier Renzi vi si è recato da poco in visita ufficiale, il ministro dei Beni Culturali Franceschini finanzia con 30 milioni di euro (provenienti dai fondi Cipe per cultura, ricerca e turismo) il progetto di Bellenger. Ischiacity – che attraverso questo ampio inserto desidera suggerire ai milioni di turisti che l’isola accoglie di visitare Capodimonte – lo ha intervistato e ha fotografato (scherzando anche sulla sua moderna regalità fino a ritrarlo vis à vis col papa Paolo III!) accanto ai quadri che ama di più e di fronte al magnifico panorama che s’affaccia sulla città, che Bellenger ha restituito alla vista disponendo (coraggiosamente) la potatura delle piante che da decenni lo celavano.
Cominciamo delineando la sua idea di museo.
Una grande domanda, perché il museo che ho conosciuto quando ero bambino e quello di oggi non sono la stessa cosa. Un tempo era un mondo culturale riservato a una piccola parte della popolazione ed era difficile legarlo con il mondo della vita: adesso, la situazione è completamente diversa, specialmente nei grandi musei dei paesi anglosassoni e in Francia. Una volta, in America, una ragazza mi ha chiesto: “Perché dovrei essere interessata a questo museo?” e aveva ragione, il mio lavoro è precisamente farle capire cosa il museo può apportare alla sua vita. In Italia questa istituzione non si è ancora aperta al grande pubblico, mentre negli Stati Uniti quest’ultimo è al centro del museo. La mia formazione – studi in Francia e molti anni di lavoro nei musei americani – mi ha insegnato che il pubblico e la didattica sono la cosa più importante, per attribuire al museo la sua significazione fondamentale, cioè di dare un contributo reale alla vita di ciascuno.
E cosa può portare?
Tante cose, quella immediata è un’educazione dello sguardo. Penso che se una persona sa come guardare un’opera d’arte, sa anche come guardare meglio il mondo che la circonda. E se si è più attenti e sensibili rispetto al mondo che si ha intorno, si è un uomo e una donna migliori.
Attribuisce, quindi, al museo una funzione educativa ed etica?
Sì. Il museo non è tanto da vedere come l’immagine del passato, quanto come una collezione, cioè una selezione, una scelta del passato: questa scelta ci dà indicazioni su come guardare la cultura che ha prodotto quelle opere, ed essere informati su questo aiuta molto a capire il momento presente e verso cosa stiamo andando. All’Art Institute Chicago, dove ho avuto il mio ultimo incarico prima di arrivare a Capodimonte come direttore della sezione dell’arte europea, volevo acquistare sul mercato antiquario un’opera di Tiziano. Motivavo così la mia scelta: un giovane che da piccolo ha visto una pittura di Tiziano sarà un adulto diverso da quello che da ragazzo ha visto Andy Warhol. Tiziano non sono riuscito a trovarlo, costa, quando è disponibile, 20-30 milioni di dollari; poi sono arrivato a Capodimonte e qui ci sono dodici Tiziano di altissimo livello! Mi rendo conto che i ragazzi di Napoli che hanno questo tesoro a portata di occhi non lo usano per la loro formazione ed il loro piacere, e credo sia un grande sbaglio.
Perché accade questo? Perché non riusciamo a portare i napoletani al museo?
E’ complicato rispondere. Due sono le spiegazioni fondamentali, secondo me: i napoletani sono viziati dalla loro storia illustre e dalla ricchezza estetica e culturale fenomenale che la loro città esprime. Ma non ci fanno attenzione, non gli danno valore perché se la trovano letteralmente ad ogni angolo di strada. E’ come per i ragazzi ricchi che avendone troppo perdono il senso dell’importanza del denaro. L’altra spiegazione è meno piacevole: per un giovane napoletano di 20-30 anni è difficile avere fiducia nel futuro, non c’è lavoro, per esempio nei musei statali non ci sono stati concorsi per almeno 20 anni, quindi un’intera generazione di giovani ben formati, con dei titoli, non ha avuto nessuna occasione di poter lavorare in questo settore. Questa disillusione genera disinteresse alla bellezza, non si fidano della vita stessa e posso capire questo tipo di atteggiamento: se appartenessi a una famiglia napoletana normale, non ricca, forse non avrei messo Capodimonte fra le mie priorità.
Lei quali strumenti pensa di mettere sul campo per modificare questa tendenza, colmare questa distanza che si è creata?
Dobbiamo essere ambiziosi, ma gli obiettivi vanno raggiunti facendo cose concrete, per esempio collegando in modo efficace il museo con il centro, quindi istituendo una navetta dedicata, cosa che siamo riusciti a fare in un tempo breve, ottenendo dal Comune – cosa non facile ma ci sono riuscito – l’autorizzazione alla sosta in punti prestabiliti. Lo shuttle Capodimonte è attivo tutti i giorni, tranne il mercoledì, quando il Museo è chiuso: parte di fronte al teatro S. Carlo ogni 50 minuti, fra le 9 e le 19, sostando lungo il percorso a piazza Dante, al Museo Archeologico e terminando la corsa a Capodimonte. Il biglietto, che include l’ingresso al Museo, è di 12.00 euro, quindi molto conveniente.
Esiste anche un problema sicurezza in questa zona? Ha una buona collaborazione con la Questura?
Decisamente sì, all’interno del parco ci assicurano la presenza costante della Polizia a cavallo che ha la sua sede nel bosco e lo controlla.
Il bosco è una delle sue priorità…
Sì, è fondamentale per la città di Napoli, per il quartiere e per il Museo.
Da chi dipende la cura del bosco?
Per la prima volta Museo e bosco sono riuniti e dipendono dallo Stato e quindi da me in quanto direttore del museo, mentre in passato erano divisi fra diversi Enti e la conseguenza era che nessuno interveniva. Il bosco, a sua volta, è un museo vegetale, ci sono alberi di 300 anni, il primo impianto, infatti, fu disegnato dall’architetto Sanfelice nel 1737, qui sono stati piantati i primi mandarini portati in Italia, ci sono le serre in cui si coltivavano gli ananas per la tavola reale. Nel bosco ho l’ambizione di creare anche una scuola per giardinieri, che non esiste in tutto il Sud Italia e mi piacerebbe riuscire a realizzare un contatto con i giardini della Mortella a Ischia, che sono una realtà interessante.
Conosce Ischia?
Sì, sono andato più volte alla Mortella e ricordo come un luogo unico i bagni romani di Cavascura. Ho venduto la mia casa di Chicago e ho pensato anche di comprarne una a Ischia, perché l’isola mi piace.
Tornando a Capodimonte, di quali fondi dispone per realizzare il suo progetto?
Sono fondi che vengono dall’UE e dallo Stato italiano, anzi è disponibile più denaro di quanto pensassi.
Quali sono gli ambiti a cui vuole dedicare gli interventi più urgenti?
Le faccio degli esempi: nelle mappe della città destinate ai turisti, che vengono distribuite negli alberghi, il museo di Capodimonte non è segnalato, mentre ci sono 13 ospedali! Naturalmente, è necessario indicare dove andare quando si hanno problemi di salute, ma partiamo dall’idea che gli ospiti vengano qui per ammirare cose belle e non per curarsi! E, ancora, il parcheggio interno è riservato solo ai dipendenti, non al pubblico, neanche a pagamento, e questo va cambiato, perché a chi viene con la macchina deve essere data la possibilità di sostare. Lungo le strade della città la segnaletica che indica la direzione per Capodimonte è molto insufficiente e, quando ho chiesto al Sindaco perché sia così, mi hanno risposto che era molto complicato migliorare le cose… La stessa segnaletica all’ingresso del Museo è largamente lacunosa: si vede questa grande reggia che, però, non si identifica immediatamente con la sede di una pinacoteca così importante.
Napoli è una città distratta, ma sono certo che non ostacolerà le sue iniziative.
E’ vero, mi hanno accolto a braccia aperte.
E le istituzioni che atteggiamento hanno?
L’unico paese che ho visto in uno stato di immobilismo analogo a quello che verifico qui era l’Unione Sovietica, ho spesso l’impressione di essere nell’ultimo paese comunista del mondo. Il problema dell’Italia, infatti, è una burocrazia rigida e autoreferenziale per la quale quando qualcosa è giustificato dal punto di vista dell’organizzazione amministrativa va bene perché è corretto sulla carta, anche se ha un effetto catastrofico nella realtà. Poiché, però, gli italiani sono intelligenti, dopo una crisi, si inventa una soluzione inattesa, che aggiri i problemi. Qui funziona così.
Ammesso che abbia un senso fare una classifica del genere, rispetto al valore delle opere che posizione occupa la quadreria di Capodimonte?
Realizzando questa struttura Carlo di Borbone, che ne fu il fondatore, ha dimostrato di avere ben chiaro in mente il principio per cui un grande regno deve avere un grande museo: quella ospitata qui è la collezione di un grande regno. Andando più nel dettaglio, per il Seicento Capodimonte si pone probabilmente al primo posto; nell’insieme per l’arte europea è uno dei dieci più importanti musei al mondo. Gli storici dell’arte che vengono qui in ogni sala riconoscono un vecchio amico che hanno visto nei libri.
Eppure, nel 2014 i dati sull’affluenza parlano di appena 126mila ingressi circa …
Sono numeri ridicoli!
Come pensa di poter modificare questa situazione?
Ci vuole tempo e tanti elementi che non dipendono solo da me e dal Museo, nel senso che gioca un ruolo molto importante anche l’immagine che la città nel suo complesso dà. A Chicago ogni anno ci sono più di 400 omicidi soprattutto di ragazzi neri dei quartieri più malfamati, ma non se ne parla. A Napoli i delitti sono in numero sicuramente inferiore, ma se ne parla tantissimo: quando miei conoscenti di Chicago dicono che non vogliono venire a Napoli perché è pericoloso, io sorrido. Il problema è costituito molto dalla percezione che si ha della sicurezza nella città e da questo punto di vista, la situazione a Napoli è negativa. Inoltre, la città è negletta, molto sporca, coperta di scritte ovunque. La cappella Pappacoda, di fronte alla sede dell’Istituto Orientale, che in qualsiasi altro paese verrebbe trattata come un tesoro architettonico unico, viene vissuta come se fosse un edificio senza valore. Napoli è una città di grande bellezza, ma questa bellezza è costantemente ferita e insultata dai cittadini stessi e questa bellezza ferita è ancora più commovente di una bellezza pulita e valorizzata! Tutto ciò ha delle conseguenze economiche enormi perché il turista tende a andarsene, anche per ragioni molto superficiali, come lo sporco e la sensazione che la città non sia controllata: chi scrive su un monumento di marmo deve capire che ne degrada l’immagine e le fa perdere la sua ricchezza economica, che potrebbe aiutare centinaia di famiglie a vivere bene.
Lei, come gli altri direttori nominati la scorsa estate in alcuni grandi musei italiani, è stato scelto dal ministro Franceschini…
La prima volta che mi hanno parlato del concorso al quale ho poi partecipato, un amico mi ha detto “Hai visto? I musei italiani si apriranno al mondo”. Ho pensato che fosse la solita storia per cui i posti erano in realtà destinati a parenti ed amici. Ma non era assolutamente così.
E’ l’Italia che ha fatto questo o Franceschini?
Il Ministro, direi. E’ una persona seria. Durante una delle sue visite a Napoli per una riunione con uno sponsor, è arrivato da solo, senza scorta e ha preso il taxi per rendersi conto di come funziona l’accesso, visto che usando il taxi il costo per visitare il Museo diventa troppo elevato. Durante la giornata abbiamo parlato di tante cose ed il giorno successivo ho ricevuto dal suo staff risposte su ogni punto. Questo mi ha molto impressionato.
Cosa pensa dello sgravio fiscale destinato alle imprese che investono sulla cultura chiamato Art bonus? E’ stato pubblicizzato un vantaggio più consistente di quello che effettivamente è…
Sono d’accordo, solo le aziende molto grandi possono avere un reale interesse ad accedere all’art bonus. Si tratta di strumenti inediti per l’Italia e vanno sperimentati. Le faccio un altro esempio delle difficoltà che si incontrano intraprendendo un cammino nuovo. Quando sono arrivato ho voluto subito creare una realtà che esiste in tutti i grandi musei (Louvre, Museo d’Orsay, British Museum), cioè un’associazione di diritto americano che si chiama Gli Amici Americani di Capodimonte. Questo tipo di istituto consente di beneficiare delle leggi statunitensi che danno il diritto alle fondazioni filantropiche di ottenere uno sgravio delle tasse reali anche del 60%. Alla fine ho raggiunto il mio obiettivo, ma ho dovuto rinunciare a farlo attraverso lo Stato italiano, perché non sono riuscito ad avere un contributo in denaro pubblico da destinare a questa operazione, in quanto coinvolgeva una fondazione privata americana, eppure ciò porterà tanto denaro al Museo. Pensi che il Louvre ha un’associazione di Amici Americani che fa confluire nelle casse del museo 25 milioni di euro all’anno.
Cosa avrebbe dovuto dare lo Stato italiano?
Pagare 7000 euro a un avvocato americano per eseguire la pratica e poi un ufficio e il lavoro di una persona, quindi circa 50mila euro annui, per gestire la struttura. Ho trovato un altro modo per farlo, attraverso gli Amici Italiani di Capodimonte che agiranno al posto dello Stato. Ma è stato un grande sbaglio non riuscire ad avere come museo italiano un’associazione di Amici Americani, soprattutto pensando che ci sono fortune enormi in America costruite da persone di origine napoletana, campana o comunque meridionale. Questo per me è stato un segnale che il Paese non ha ancora capito come usare le risorse private: la verità è che siamo solo all’inizio della riforma ed è normale che ci siano delle incertezze.
Questa iniziativa è possibile grazie all’autonomia che i musei hanno ottenuto grazie alla legge in vigore da poco più di un anno: cosa pensa di questa novità introdotta in uno dei settori fondamentali nel sistema della cultura italiano?
A questa domanda potrei rispondere in modo del tutto negativo, dicendo che qui dentro io sono l’unico autonomo e tutti gli altri sono dipendenti, non solo nel senso che ne hanno il titolo ma nel senso che ne hanno la mentalità, e questo non si cambia facilmente. Ma trovo più giusto rispondere che questo è l’inizio di una rivoluzione, non a caso la scorsa estate, quando noi direttori ci siamo insediati, si è trattato di un avvenimento per l’Italia e si è parlato molto (Ndr. Anche polemicamente) delle nostre nomine, dando visibilità a questo mondo e ai suoi problemi. Ma il nuovo sistema di governo della rete museale può produrre grandi cambiamenti, necessari tenendo conto che i musei italiani hanno almeno 60 anni di ritardo rispetto a quelli del resto dell’Europa. L’autonomia è importante perché dà ai musei la possibilità di sfruttare i loro sforzi, per cui se io ho un milione di visitatori, gli introiti non vanno più allo Stato come era prima, ma restano sul bilancio di Capodimonte, salvo un 20% che va a costituire una cassa di solidarietà per i musei che sono in difficoltà. In precedenza, invece, il denaro andava alla Soprintendenza che aveva una capacità diversa di adoperarli: così il sistema è sicuramente più efficiente.
Ma adesso Capodimonte ha pochi visitatori, quindi pochi incassi, per cui l’autonomia diventa uno svantaggio…
Infatti, beneficeremo della cassa di solidarietà, ma sono sicuro che dopo andrà meglio. Comunque, riceviamo anche fondi statali e il Ministro sta mettendo molta attenzione personale nell’individuazione di sponsor italiani con cui mi ha messo in contatto.
Diamo un giudizio sulle competenze del personale che ha trovato a Capodimonte.
I curatori, gli storici dell’arte sono meravigliosi: non ci sono stati concorsi pubblici per vent’anni quindi sono persone adesso intorno ai 60 anni, mancano i 30-40enni e questo è un peccato, perché così si rompe la comunicazione con la contemporaneità che sta fuori, per esempio mancano persone nate nell’era digitale, i miei collaboratori sono tutti cresciuti in quella analogica, ed io provo in ogni modo ad utilizzare anche giovani che sanno comunicare meglio. Ma detto questo, hanno una formazione ottima e poi sono ‘sopravvissuti’ a situazioni molto difficili, riuscendo a non far chiudere il Museo.
Le audioguide sono in poche lingue, non ci sono codici QR… Sono previsti interventi per modernizzare il Museo dal punto di vista delle tecnologie informatiche?
E’ tutto da rifare partendo da zero. Oggi con uno smartphone basta inquadrare l’immagine e si possono scaricare informazioni virtuali che aiutano la percezione dell’opera che si ha di fronte. Ma si deve lavorare tanto, avere buone immagini, inserire i testi. Le fotografie delle opere che abbiamo spesso sono brutte e talvolta solo in bianco e nero e di cattiva qualità. E’ un lavoro enorme, ma si può iniziare dai quadri più importanti.
E gli allestimenti dell’esposizione?
Intendo cambiare molto, l’illuminazione in primo luogo va migliorata, e anche l’attuale ordine di presentazione delle opere induce in confusione. Quindi, vorrei tornare all’esposizione che c’era quando era direttore Raffaello Causa, negli anni ’50-‘60-’70 e i quadri erano presentati in ordine strettamente cronologico. Ciò rende più facile per il pubblico seguire lo svilupparsi del percorso artistico. I cartelli, inoltre, hanno una concezione molto elitaria, è scritto solo il nome dell’artista, il titolo dell’opera, il numero di inventario e la collezione di appartenenza (per esempio Collezione Farnese). Dico sempre ai miei collaboratori che “Farnese” è una parola che ha un significato solo per poche persone, e lo stesso vale per il termine “collezione”. Per attrarre un pubblico non abituato ai musei, inoltre, devo proporre novità, quindi vorrei portare artisti che a Napoli non sono mai stati esposti come Picasso, Vermeer, Chagall, perché ciò aiuterà a identificare Capodimonte come pinacoteca.
Prevede iniziative che avvicinino il museo di Capodimonte alla città, oltre alle visite alla pinacoteca?
Sì, per esempio vogliamo organizzare una serata dedicata a tutti i tassisti napoletani, in modo che possano sapere cosa c’è nel Museo, essendo loro un tramite importante fra i turisti e il territorio cittadino. Ancora, non penso che Napoli possa essere capita senza tener conto della musica, quindi ho fatto un contratto morale con il Conservatorio di S. Pietro a Maiella, per cui gli studenti sono invitati a suonare nelle sale. Ci sono sia concerti estemporanei, che un programma musicale predefinito, infatti i concerti del venerdì sera al Conservatorio fino a giugno vengono ripetuti la domenica nell’ambito del programma Musica alla Reggia. Il venerdì sera, quando siamo aperti fino a mezzanotte, vorrei proporre una rassegna dedicata ai film che parlano di arte e poi voglio chiedere agli studenti universitari di storia dell’arte, ma non solo, di essere guide nelle sale, senza controllo. Mi interessa avere la voce di giovani che parlano ad altri giovani: anche se quello che diranno non sarà preciso in ogni dettaglio, la cosa essenziale è portare i ragazzi davanti alle opere e fare in modo che le guardino per più di un minuto. Questa è la mia missione, perché credo che questo minuto possa cambiare un po’, o forse molto, la sensibilità delle persone e quindi influire sulla loro vita. Questo è il cuore della mia visione del museo e del ruolo che può avere.
A lei è accaduto qualcosa di simile quando era uno studente? Se sì, ce lo racconti.
Nell’agosto 1980, avevo 23 anni, affittai una camera in un monastero trasformato in albergo a Conca dei Marini un paesino sopra Amalfi, e ogni mattina venivo a Napoli con un autobus per conoscere la città. Ho visitato anche Capodimonte e ho visto la Crocifissione di Masaccio, un’opera forte, complessa, moderna pur essendo stata concepita nel ‘400. Mi ha molto commosso, al punto che quando sono tornato a Parigi ho detto ai miei genitori che non volevo più fare il professore di filosofia, ma tornare alla Sorbona per studiare storia dell’arte, e così è stato. Oggi mi trovo direttore del Museo in cui ho fatto una scelta determinante per la mia vita. Non posso definirlo diversamente che destino. Ho piena coscienza di quanto sia complicato il mio compito, al mattino devo iniziare controllando che i bagni siano in ordine, e quando non lo sono devo fare una guerra, lo stesso vale per l’illuminazione o per essere sicuro di avere l’impianto di aria condizionata in funzione entro il mese di maggio. Devo forzare la realtà costantemente, diversamente so che non otterrò cose che sono necessarie. Ma concepisco questa a Capodimonte come una missione più che come un lavoro. Dopo Chicago, Cleaveland, il castello di Blois e tanti altri musei in cui ho lavorato, mi trovo in uno dei posti più belli del mondo, e sento una responsabilità un po’ spirituale: questo mi dà molta energia, a Chicago ero stanchissimo, qui mai!
Interview_ Riccardo Sepe Visconti
Photo_ Riccardo Sepe Visconti