Thursday, November 21, 2024

EGITTO MON AMOUR – TOUR NEL TEMPO ALLA RICERCA DEGLI ANTICHI EGIZI A ISCHIA

Sarcofago Ischia
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text_Silvia Buchner

Hanno qualcosa in comune Ischia e l’Antico Egitto? Molto più di quanto può sembrare a prima vista. Nonostante la differenza di dimensioni, la piccola isola e uno dei più antichi Stati fra quelli che sono sorti sulle rive del Mediterraneo si sono trovati in contatto più e più volte, con modalità e per ragioni differenti, frutto della storia, della casualità, ma sicuramente anche del fatto che entrambi appartengono a culture e civiltà nate sulle sponde del Mare Nostrum e che per millenni si sono incontrate, scontrate, mescolate…
Cominciamo dall’incontro più recente, quello che vede il monumento per eccellenza dell’isola d’Ischia, il Castello Aragonese scelto per ospitare per un anno quattro sarcofagi provenienti dall’antico Egitto. E’ grazie ad un accordo fra l’Istituto Europeo per il Restauro creato e diretto dal professor Teodoro Auricchio, insieme al suo braccio destro Anna Pilato, e che ha sede a Ischia, e i Musees Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles che nel laboratorio appositamente allestito in uno degli spazi del castello si sta lavorando da quasi 12 mesi, servendosi delle migliori tecnologie per carpire a quattro sarcofagi risalenti a circa 3000 anni fa il maggior numero di informazioni possibile, indispensabili per procedere poi, nei laboratori di Bruxelles, al restauro, con la supervisione dell’egittologo Luc Delvaux, curatore della Collezione Dinastica Egitto Greco-Romano del Museo. I sarcofagi provengono dalla necropoli di Deir El-Bahari, sul Nilo, e furono rinvenuti alla fine del XIX sec. all’interno di una sepoltura collettiva (in tutto 153 sarcofagi) di membri del corpo sacerdotale del dio Amon, il più importante del pantheon egizio. Dopo uno scavo a dir poco frettoloso (le oltre cento sepolture vennero trasferite in soli tre giorni), il museo del Cairo regalò i sarcofagi e gli altri reperti alle collezioni egizie di diversi musei europei, compreso quello di Bruxelles. Ma veniamo a oggi: in una sorta di enorme teca trasparente che consente di sterilizzare l’aria che entra a contatto con i reperti e di mantenere temperatura e umidità uguali a quelle in cui i sarcofagi erano conservati nel museo, l’equipe, costituita nel complesso da circa 16 persone, selezionate con un bando internazionale, servendosi di sistemi laser per la pulitura, video microscopi, microscopi per la scannerizzazione in 3D, sofisticate analisi di laboratorio, si è dedicata a un intero anno di analisi preliminari. “E’ tanto tempo” – conferma il professor Auricchio – “ma l’eccezionalità degli oggetti e la complessità delle stratificazioni da indagare, lo rende necessario. La diagnostica si pone domande precise: sui sarcofagi si vuole sapere il più possibile circa la realizzazione, il tipo di legno, lo strato di preparazione su cui si è apposto il colore, le tecniche di esecuzione, la scannerizzazione in 3D per esempio, consentirà di capire se i geroglifici erano fatti a mano o con uno stampo. Conoscere le sostanze e i pigmenti utilizzati per realizzare le pitture sui sarcofagi, le tecniche costruttive adottate, individuare quali sezioni dei sarcofagi sono eventualmente pezzi di riuso (infatti, gli antichi Egizi, che abitavano un territorio per lo più desertico dove gli alberi erano pochi, riadoperavano parti di altri sarcofagi più antichi dismessi), capire con certezza l’entità dell’intervento di restauro compiuto alla fine del ‘900 nell’immediatezza della scoperta, sono i nostri scopi. E si tratta di domande alle quali si deve dare una risposta, anche se non è sempre facile, per poter poi restaurare gli oggetti in modo ottimale. Tocca al direttore dell’equipe, l’egittologo Luc Delvaux, armonizzare il lavoro di tante persone, tanto più che quando si tratta di reperti così complessi come quelli dell’antico Egitto l’esperto che
conosca a fondo quella civiltà è indispensabile a ogni passaggio del lavoro”. Inoltre, avendo il modulo del laboratorio le pareti trasparenti, i restauratori lavorano in pubblico, sia sul Castello che nel museo di Bruxelles, creando un contatto diretto con la gente che è sicuramente un obiettivo che oggi persegue chi si occupa della tutela dei beni culturali che, oltre a essere studiati e salvaguardati, vanno con ogni mezzo portati alla conoscenza del pubblico.
Per quelle coincidenze intriganti di cui dicevamo prima, lo stesso Castello Aragonese che oggi ospita le antiche sepolture egizie è stato scelto come sfondo di alcune scene cruciali del film “Cleopatra”, celeberrimo kolossal hollywoodiano degli anni ’50 con protagonisti Liz Taylor e Richard Burton (che sul set si innamorarono per davvero) nei panni della regina d’Egitto e del suo amato, Marcantonio. Nella finzione, il Castello era la sua dimora nella città di Azio, in Grecia, dove si svolse una cruciale battaglia da cui il condottiero romano, che innamorandosi della straniera aveva tradito la sua gente, uscì sconfitto da Ottaviano, il futuro imperatore Augusto.
Ma la ricerca di tracce che uniscono l’isola d’Ischia all’Egitto faraonico non si ferma qui: con un altro salto nel tempo che ci porta all’VIII sec. a.C. ci spostiamo a Pithecusa, che altro non è che l’odierno centro di Lacco Ameno. Lì, fra la baia di S. Montano e la collina di Monte Vico, nel 775 a.C. circa intraprendenti coloni provenienti via mare dall’isola di Eubea (che si trova di fronte ad Atene) fondarono il più antico centro greco dell’Italia Meridionale e del Mediterraneo Occidentale. Gli scavi archeologici hanno restituito il quadro di una popolazione attiva nell’artigianato della ceramica (realizzarono vasi con l’argilla ischitana che sono stati ritrovati in tutto il bacino del Mediterraneo) e del metallo, colta (sono state scoperte diverse iscrizioni, fra cui la famosa coppa di Nestore) e molto aperta agli scambi. Al punto che nelle tombe dei bambini si sono ritrovati spesso scarabei egiziani, cioè piccoli pendenti che riprendevano la forma dell’insetto venerato dagli Egizi perché credevano che esso avesse il potere di rigenerarsi. Essi erano realizzati in pasta di vetro con decorazioni in smalto o metallo e provenivano dalla regione del Delta del Nilo. Gli Egizi li adoperavano sia come monili da vivi
che sulle mummie, fra le cui bende infilavano gli scarabei, che portavano incise preghiere ed erano considerati da loro simbolo di rinascita. Attenzione: questo non significa che a Pithecusa vivessero degli egiziani (o almeno finora non si è trovata documentazione di ciò, iscrizioni, tecniche di sepoltura tipiche dell’Egitto, per esempio). Dobbiamo immaginare che i genitori appendessero al collo dei più piccoli questi oggettini seguendo una moda assai diffusa, e se teniamo conto del fatto che la mortalità infantile era altissima i talismani erano sicuramente bene accetti. I Greci consideravano, infatti, la grande e più antica civiltà egizia depositaria di sapienza, per cui attribuivano alle loro usanze – come quella degli amuleti a forma di scarabeo – un potere medico-magico contro il malocchio e, quindi, li adoperavano anche se non appartenevano alla cultura religiosa che li aveva prodotti. Un po’ come accade oggi con il segno a forma di Tau e croce allo stesso tempo, che vediamo spesso indossato come pendente di legno: è un’eredità simbolica risalente al mondo ebraico e poi a quello cristiano e francescano e ha avuto un grande successo per i molteplici riferimenti religiosi che gli sono stati attribuiti nel tempo, ma oggi molti lo portano anche semplicemente per un valore beneaugurante; altro esempio è la “mala” buddhista, il braccialetto fatto con grani di legno di sandalo che i buddhisti usano per pregare ma che
nel mondo occidentale viene indossato anche come ornamento. La serie di scarabei trovata ad Ischia è la più ricca fra quelle provenienti da una necropoli greca e una selezione dei reperti è esposta nel museo Archeologico di Pithecusae, a Lacco Ameno: essi ci dimostrano una volta di più la grande e articolata osmosi culturale che animava il mondo antico, in cui pure, almeno apparentemente, scambi, comunicazione, trasmissione di conoscenze avvenivano con oggettiva maggiore difficoltà.

 

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