Saturday, November 23, 2024

Photo_ Riccardo Sepe Visconti _Google

Nell’ambito del Sabato delle idee, osservatorio multidisciplinare dell’Università Federico II nato per studiare i mutamenti dello scenario geopolitico internazionale, il giornalista Alessandro Barbano ha intervistato Romano Prodi (nella foto in apertura), Presidente della Commissione Europea nel quinquennio 1999-2004 e due volte premier in Italia. Ne è scaturita una serie di riflessioni che offrono punti di vista originali – che se ne condividano o meno le posizioni – su dove sta andando l’Europa e su temi che stanno determinando il futuro del mondo, dalle nuove tecnologie alla messa in discussione del concetto di democrazia al ruolo di Cina e USA.

EUROPA E DEMOCRAZIA: DUE SISTEMI IN CRISI?

La democrazia rappresentativa è messa sotto pressione da culture e pensieri politici che hanno come obiettivo di conquistare il palazzo europeo e svuotarlo dall’interno. Di fronte a questa congiuntura dobbiamo registrare la debolezza dei singoli Stati: la Germania si avvia alla chiusura di un ciclo, segnato dalla leadership di Angela Merkel, la Francia di Macron si scopre fragile; l’Italia, da parte sua, è stata la prima a capitolare alle forze anti-europeiste, mentre in Spagna alla delicata contingenza politica si affiancano le difficoltà dovute alla frammentazione dei partiti e alle spinte scissionistiche della Catalogna. L’Europa è in pericolo? E se è così, pensa sia in percolo il destino dell’Europa federale o la stessa idea di democrazia?

La democrazia è in crisi in tutto il mondo, il desiderio di autorità è diventato dominante a livello mondiale. Nelle Filippine c’è un dittatore, sono di impronta autoritaria i governi di Cina, Pakistan, Russia, Turchia, lo stesso Trump è frutto di questa tendenza, il Brasile ha un presidente con uno stile da pistolero, che solo tre anni fa sarebbe stato inimmaginabile. Questa crisi dilagante non poteva non coinvolgere l’Europa: e così è stato in Ungheria, Polonia e in Italia. Il fatto è che quello che chiamiamo “populismo” è desiderio di autorità e, in effetti, sia la struttura del M5S, nel suo modello organizzativo, che della Lega, per sua stessa definizione, è di tipo autoritario. E’ interessante riflettere sul fatto che gli obiettivi generali dei gilet gialli francesi e dei 5 Stelle hanno tanti punti di contatto: li distingue il fatto che i 5 Stelle hanno raggiunto il potere perché organizzati in modo assolutamente verticale, invece il movimento francese innesca sì moltissime tensioni ma non arriva a cambiare il governo del paese proprio perché manca di questa organizzazione verticistica, è privo di un’autorità.

Lei ci ricorda, quindi, che l’utopia della democrazia diretta nasconde sempre un’evoluzione che conduce al governo di pochi sui molti.

Non c’è dubbio, l’unica democrazia che funziona è quella rappresentativa.

Lorenzo Giusso, intellettuale napoletano attivo ai primi del ‘900, che guardò con favore al fascismo, ma era di matrice liberale e ha scritto Le dittature democratiche d’Italia, oggi si parla di “democrazie illiberali”. Marco Revelli in un libro sul populismo presenta un parallelo fra ciò che accadde durante la prima crisi della mondializzazione, alla fine della prima guerra mondiale e ciò che avviene adesso. Definendo la crisi di allora una malattia infantile della democrazia, che faticava a imporsi come condizione stabile. Oggi, invece, la considera una malattia senile, frutto della consunzione della democrazia. Lei pensa che la democrazia sia all’epilogo, o è una fase di passaggio, oltre la quale esiste la possibilità di recuperarla?

Questo non può dirlo nessuno, perché la storia non si ripete mai: certamente siamo in un momento di stanchezza ma la si può rivitalizzare. Con l’eccezione di Italia, Polonia e Ungheria, la democrazia liberale in Europa c’è ancora, con caratteristiche del tutto diverse: in Germania, per esempio, nel dopoguerra c’erano due partiti. Poi sono aumentati e la formazione del governo, di conseguenza, è diventata sempre più complicata: il fatto è che la democrazia fatica ad adattarsi alla combinazione sempre più articolata di fattori che offre una società evoluta. Ma questo passo in avanti va fatto, la democrazia ha sempre avuto la forza di adattarsi alle circostanze.

Lo sviluppo tecnologico sopravanza la democrazia nella capacità di costruirsi un vestito sui mutamenti della società?

NNon sopravanza, sfida! E’ una gara aperta, in cui l’Europa ha ancora molto da dire. Siamo diversi in senso positivo da altri luoghi nel mondo, non solo perché la democrazia tutto sommato prevale. Noi con tutti i nostri problemi, un welfare state, un minimo di protezione nella sanità, per esempio, lo abbiamo ancora; altrove non è così, in Cina, paese comunista, nel quale quindi dovrebbero per definizione esserci garanzie per tutti, ma anche negli USA, se ci si ammala è un problema. Come europei abbiamo ancora modo di costituire un punto di riferimento sulle questioni essenziali, ma non dobbiamo essere divisi.

La retorica populista contro l’Europa si nutre di alcune categorie che hanno molta presa, una di queste è il ruolo dell’euro, in particolare l’idea che l’unione monetaria fra paesi con sistemi fiscali e regole del lavoro differenti abbia concentrato ricchezza dove c’era già e indebolito gli altri. Ma c’è chi, invece, per esempio Mario Draghi, fa notare che gli effetti dell’euro sono stati anche positivi: prima della moneta unica, infatti, le valute nazionali non avevano la sovranità assoluta, essendoci la dittatura del marco. Lei è d’accordo?

Certamente. Quando si costruì l’euro ero presidente del Consiglio italiano, e nel momento della costituzione ero presidente della Commissione Europea: quando feci notare a Helmut Kohl, allora primo ministro della Germania, che tutti gli industriali tedeschi erano contro l’euro e gli domandai perché nonostante ciò lui fosse a favore, mi diede una risposta che non mi sarei mai aspettato. Disse infatti: “Voglio l’euro perché mio fratello è morto in guerra!”. Quindi il cancelliere tedesco non ha fatto ragionamenti finanziari, per lui era importante l’idea politica forte che deve sottendere all’Europa unita. Se non riusciamo in questo intento, le difficoltà ci saranno sempre. E quando gli replicai che realizzare per bene la moneta unica significava mettere in atto misure di coordinamento dei bilanci, raccordare le strutture economiche, anche in quel caso mi rispose: “Voi italiani avete un proverbio che dice ‘Roma non fu fatta in un giorno’! E – aggiunse – solo con la violenza si può cambiare tutto rapidamente, operando in pace c’è bisogno di tempo”. Insomma, l’Europa è un processo in costruzione.

LE DIS-UNIONI EUROPEE

Di recente, lei ha dichiarato che l’euro grazie alla guerra dei dazi fra USA e Cina ha una nuova occasione. Ci spieghi a cosa si riferisce.

Lo faccio raccontando un episodio, avvenuto quando come presidente della Commissione avevo incontri bilaterali con il presidente cinese. Sono riunioni cui si arriva con dossier imponenti che riguardano ogni genere di ambito, ma lui era interessato soltanto a sapere se avremmo introdotto l’euro, se sarebbero scomparsi marco e franco (non mi chiese niente della lira!). Poi aggiunse: “Potremmo prendere le nostre riserve (cosa che infatti fecero)” e concluse “Vorrei che l’euro diventasse forte, perché se accanto al dollaro c’è un’altra moneta, ciò vorrà dire che c’è posto anche per la nostra!”. Aveva già la visione di un mondo che da monopolare diventava multipolare: l’Europa non potrà mai trasformarsi nella prima potenza militare del mondo, non ha senso, ma avere la forza di essere arbitro, poter mediare, esprimere una propria posizione, questo sì. E allora c’erano i presupposti per riuscirci; poi scoppiò la guerra in Irak… Ma il nostro obiettivo come Europa rimane avere una parola in questo scontro fra giganti.

L’euro era un mattoncino intorno al quale andava costruita una leva fiscale comune. Quando, dopo la caduta del muro di Berlino, i grandi capitali iniziarono a transitare grazie alla potenza delle multinazionali con una capacità di impatto che superava quella degli stati-nazione, qualcuno si accorse che, in assenza di una leva fiscale globale, queste forze avrebbero minato le basi della democrazia. Faccio un esempio che illustra bene quanto sta accadendo già da tempo. Apple si insedia in Irlanda con una tassazione irrisoria dei proventi e all’Europa che richiede all’Irlanda, che dell’UE fa parte, di tassare maggiormente la multinazionale dell’elettronica, lo Stato risponde che alle tasse preferisce i posti di lavoro che essa garantisce. Alla fine, pressato, lo Stato irlandese li incassa pure 14 miliardi di euro, ma li accantona in attesa che Apple faccia ricorso perché nella sostanza è colluso con loro contro l’Europa. Questa non è la resa della democrazia alla forza del capitale finanziario?

No, questa è la fesseria prodotta da un paese che è convinto che essere da soli dia più forza. Quando dico che l’Europa è come un pane mezzo cotto e mezzo crudo, fatto a metà insomma, intendo proprio questo, siamo frammentati e c’è chi pensa di poter trarre vantaggi comportandosi come ha fatto l’Irlanda. Ma vediamone le conseguenze: i nuovi dominatori del mondo sono tutti americani o cinesi. Vent’anni fa i dominatori dell’economia globale erano alcune grandi banche e poi General Motors, General Electric, Esso, e trovavamo anche la Shell (compagnia petrolifera fondata in Olanda) e alcune aziende europee. Oggi, invece, sono Apple, Ali Baba, Google, Amazon, nessuna è europea, nessuna! Nel Rinascimento l’Italia primeggiava, Venezia, Napoli, Genova, Firenze, eravamo i campioni del mondo, nell’arte della guerra e in quella della pace, nella filosofia e nella scienza. E’ arrivata la prima globalizzazione, la scoperta dell’America e  siamo scomparsi per 4 secoli dalla carta geografica del mondo. Mi rattrista molto che noi siamo quelli che hanno coniato il detto “Francia o Spagna, purché se magna!”. Questo significa essere divisi… Gli Stati europei sono come quelli che componevano l’Italia prima dell’unità, la stessa Germania, e lo ha detto anche l’ex ministro degli esteri tedesco Joska Fischer, è forse troppo grande per l’Europa, ma è troppo piccola per il mondo: se non ci mettiamo insieme non riusciremo mai a varare le caravelle! E saranno sempre altri a comandarci.

Sergio Fabrini nel suo libro Sdoppiamento teorizza “l’Europa a 2 velocità”. Portando avanti una tesi presente nell’elité europea secondo cui ci dovrebbe essere un nocciolo duro di paesi che condividono politiche fiscali, politiche di intesa, e un’altra parte che sta nel mercato comune. In questo modo si supera il tema dell’unanimità delle decisioni guadagnando in operatività. Ammesso che lei sia d’accordo con questa posizione, chi poi dovrebbe assumere l’iniziativa, i governi? Non si rischierebbe di depotenziare ulteriormente il Parlamento dove attualmente tutti i paesi hanno il medesimo peso? O lo lasciamo decidere all’accordo Angela Merkel e Macron, che, peraltro, sembra un accordo di piccolo cabotaggio?

Voglio un’ Europa che comprenda tutti, ma sono già due anni e mezzo che parlo con realismo di Europa a più velocità, perché ci sono Stati meno pronti di altri a condividere certe scelte. Peraltro, la storia stessa dell’Europa ci dice che per arrivarci si deve passare per un grande accordo franco-tedesco, con l’Italia che media. Tuttavia, nella realtà dei fatti ci sono delle difficoltà a raggiungere l’obiettivo di avere alcuni paesi che facciano da avanguardia. E spiego perché. Macron è andato al potere lanciando dei segnali che facevano pensare a una sua volontà di farsi artefice di una svolta. Contemporaneamente il Regno Unito usciva dall’Unione Europea, per cui la Francia restava l’unico paese dell’Unione con il diritto di veto all’ONU e con l’arma nucleare. La conseguenza logica di questa serie di premesse era che il presidente francese prendesse l’iniziativa per l’esercito comune europeo, nel senso di condividere almeno in parte l’uso dell’arma nucleare e del diritto di veto all’ONU, dove il potere è passato dall’assemblea al consiglio di sicurezza, che riunisce i cinque paesi vincitori della seconda guerra mondiale. E invece Macron finora si è dimostrato più francese che europeo in politica estera. E’ andato in Libano senza parlare con noi italiani che stiamo mantenendo la pace lì da tempo, bombarda la Siria senza dirlo ai tedeschi, e in Libia tratta con tutte e due le parti (Ndr. La Libia attualmente è attraversata da una guerra civile e ci sono due governi che si contrappongono). Di fronte ad atteggiamenti del genere, la Germania ha reagito dicendo: voi francesi vi prendete il monopolio della politica estera, io mi tengo quello della politica economica. Di conseguenza, qualsiasi proposta francese diretta a mettere insieme la gestione dell’economia (e negli ultimi mesi ce ne sono state di interessanti) viene respinta. Così invece di avere un solo motore con due pistoni, abbiamo due motori con un pistone ciascuno. Al momento ‘l’automobile europea’ procede in questo modo…! Poi c’è stato l’incontro di Aquisgrana fra Merkel e Macron: avevano capito che non si poteva andare avanti così e hanno stretto un mezzo accordo. Sui grandi temi c’è ancora distanza, ma hanno cominciato ad agire su ambiti delicati come la politica industriale comune. E purtroppo l’Italia in questa fase strategica è totalmente esclusa.

Lei ha esortato per anni l’Italia ad allearsi con la Spagna e invece adesso è la Spagna che ha preso il nostro posto…

E’ vero che la Spagna si trova in grande difficoltà per la questione della secessione catalana, però nessun partito spagnolo mette in dubbio l’adesione all’Europa. Invece l’Italia tende a tirarsene fuori, e quindi è chiaro che la Spagna va a sostituirci sulla scacchiera dei rapporti con i partner europei. La Spagna è economicamente più debole dell’Italia ma in questo momento è più affidabile. Ho già detto che secondo me si arriverà all’Europa a due velocità: ora se si continua di questo passo l’Italia finirà esclusa dal primo gruppo. Mentre due anni fa avrei giurato che c’eravamo! Il governo prende posizioni che mutano rapidamente: qualche mese fa sembrava che si volesse uscire dall’euro, adesso pare che nessuno voglia farlo più, l’uscita della Gran Bretagna è talmente pasticciata e dannosa che neppure gli inglesi riescono a gestirla. Anzi la brexit sta consolidando fra loro i paesi europei: eravamo tutti convinti che di fronte alla brexit ci sarebbe stata un’Europa divisa a trattare con un ‘regno unito’ di Gran Bretagna. Invece, è accaduto esattamente il contrario, la Gran Bretagna si è divisa al suo interno sul tema dell’uscita dall’UE ed è stata costretta a intavolare trattative con un’Europa che si sta mostrando compatta. E aggiungo che non vedo all’orizzonte prospettive di ulteriori scissioni. I paesi che più avevano la tentazione di farlo – Ungheria e Polonia – non se lo sognano neanche, dato che vivono dei soldi che arrivano dall’UE. E la Polonia li sta spendendo in modo splendido, negli ultimi 5 secoli non ha mai avuto un periodo di sviluppo e di capacità di espressione come quello che sta vivendo oggi.

GLOBALIZZAZIONE: VINCITORI E PERDENTI

In aree diverse del mondo la globalizzazione ha prodotto effetti differenti: c’è chi vive di globalizzazione e grazie ad essa ha migliorato il suo stato, mentre in Occidente ci sono i perdenti della globalizzazione. Ma è davvero questa la verità? La generazione attuale, a ben guardare, non è la più ricca rispetto a tutte quelle che l’hanno preceduta? Il vero errore del liberalismo è stato di aver fatto crescere le diseguaglianze o piuttosto di aver fatto aumentare le aspettative, cioè che si aspira a possedere, in maniera esagerata?

Dal punto di vista generale il risultato della globalizzazione è certamente positivo, due miliardi e mezzo di persone sono arrivate ad avere una sufficienza economica e oggi sono la spinta dello sviluppo del resto del mondo: nel 2018 un terzo dello sviluppo mondiale si deve alla Cina. Ma questo sviluppo tumultuoso senza garanzie sulle regole del commercio ha messo in difficoltà da noi una serie di strutture economiche. Particolarmente strategica è la questione della proprietà intellettuale: la Cina ha potuto copiare mentre si sarebbe dovuto porre delle regole: ci penalizza il fatto che manchi un’autorità mondiale che le faccia rispettare. Nel tempo abbiamo messo in crisi istituzioni come l’ONU, il WTO (World Trade Organization, l’Organizzazione Mondiale per il Commercio, nata per supervisionare gli accordi commerciali fra gli Stati aderenti), e si è lasciata la decisione alle imprese occidentali, e il loro interesse era andare a produrre in Cina e prosperare grazie al basso costo del lavoro che c’è lì. Già negli anni ‘80 scrissi un articolo su questo problema che era intitolato “1-40” perché il costo del lavoro in Italia era 40 volte quello praticato in Cina. Oggi lo stesso articolo dovrebbe intitolarsi “1-2,5”. E se guardiamo alle professioni più elevate, il costo del lavoro a Shangai per una banca come Unicredit per esempio, è identico a quello che si registra a Milano. Tuttavia, continuiamo ad avere regole non coordinate, per cui parte della concorrenza cinese è selvaggia, in particolare insisto sulle prescrizioni da imporre sulla proprietà intellettuale, che mancano e consentono loro di copiare. In realtà la grande disparità nella ridistribuzione del lavoro deriva da altri due fenomeni: la finanziarizzazione dell’economia, da imputare ad americani ed europei, e lo sviluppo tecnologico, per cui ogni grande innovazione spiazza i lavoratori intermedi, facendo emergere un piccolo numero di addetti che guadagna di più, mentre il resto si dedica a incombenze poche pagate come pulizie ed assistenza. Ciò costituisce la vera spaccatura che attraversa la nostra società.

E questo fenomeno può solo accentuarsi nei prossimi anni, con lo tsunami di innovazione cui stiamo assistendo, che aumenta la produttività ma anche l’automatizzazione del lavoro con la conseguente riduzione di impegno umano necessario. Con due effetti, ridurre i salari e spostare il carico fiscale dal capitale ai lavoratori. Come si fa ad invertire questa tendenza?

Posso per una volta non essere ottimista? Finché ci saranno paradisi fiscali sarà difficile, è necessaria un’autorità internazionale per riuscire a invertire il trend. Accanto a quelle che abbiamo già indicato come tendenze nel mondo del lavoro, va ricordato un fenomeno molto importante cui stiamo assistendo, vale a dire la perdita di potere dei governi sulla fiscalità. Faccio l’esempio degli Stati Uniti, dove alla fine della Seconda Guerra mondiale l’aliquota massima per i più ricchi era fra il 70 e l’80%; oggi è inferiore al 30%. Ma ciò accade in tutti i paesi del mondo, perché se si innalza l’aliquota il capitale scappa. Oggi la politica può solo promettere “meno tasse”, salvo poi non riuscire a mantenere il proposito. Esiste solo una minoranza puramente intellettuale, negli USA e in Gran Bretagna con Corbin, che va controcorrente, perché se non arriva un accordo sovranazionale è difficilissimo invertire l’attuale tendenza e avere il riequilibrio di cui si parlava.

CHE FINE HA FATTO LA SINISTRA?

Il riequilibrio può essere dato solo dal ritorno ad una fiscalità onerosa e all’intervento pubblico, o il liberismo può difendere le sue prospettive? I mercati possono regolarsi senza intervento statale? O lei si identifica nelle posizioni del leader della sinistra inglese Corbin e dell’economista francese Piketty che propone una patrimoniale dell’80% sui redditi alti?

Il ritorno ad una certa maggior giustizia sociale è indispensabile per la salvezza dei sistemi, i riassestamenti sono indispensabili. Ma non ci si può arrivare senza una collaborazione fra Stati, perché ci sarà sempre, per esempio, l’Irlanda che per attrarre grandi multinazionali rifiuta di applicare una leva fiscale adeguata, come si è visto. D’altra parte, sono convinto che se non si ottiene il riequilibrio ci sarà un momento di rottura perché questa differenziazione ha toccato livelli di guardia. E stiamo andando verso la non-comprensione del fenomeno, la Cina ha tentato un cambio di rotta, ma non è stata finora abbastanza incisiva e le divisioni stanno aumentando.

Individua in questo una delle cause della sconfitta delle sinistre in tanti paesi?

In realtà la crisi tocca tutti i partiti tradizionali, non solo la sinistra. La destra al momento si salva ancora solo perché si è presa il ruolo di controllare l’immigrazione. In Germania, per esempio, i socialisti sono un disastro, ma i democristiani hanno avuto un bel calo di consensi.

In questo contesto le politiche riformiste di sinistra verso il mercato che hanno liberalizzato il lavoro, per esempio il jobs act in Italia, sono state un errore? La sinistra italiana fa bene a metterle da parte, o invece ha perso perché ha osato poco, non ha scommesso sul ridisegno della mappa delle debolezze, puntando piuttosto sul mercato in maniera ancor più coraggiosa?

Si deve distinguere fra sinistra e sinistra. Dove troviamo una struttura statuale più severa, com’è nel nord Europa, la forbice fra ricchi e poveri non si è accentuata – ed è uno dei pochi posti al mondo in cui c’è stato anzi un riavvicinamento degli estremi. E sono i paesi in cui la sinistra ha ceduto meno. Ma hanno applicato strumenti di giustizia sociale che da noi è più difficile mettere in atto, penso per esempio che se in Italia ci fosse un’evasione fiscale in linea con quella media in Europa non avremmo nessun problema di debito e di deficit. E su questo tema né sinistra né destra hanno potuto far molto. Abbiamo anche un problema di credibilità: ricordo che quando andai al governo la prima volta si pensava che saremmo durati 5 anni: ebbene, dopo pochi mesi venne da me il ministro delle finanze Visco stupito perché era cresciuto il gettito fiscale, benché non avessimo ancora cominciato a mettere in atto misure particolari. Era successo che i cittadini vedendo alla guida del Paese un governo più strutturato con delle prospettive di durata e che avrebbe lavorato sul problema delle imposte, spontaneamente versavano le tasse dovute; ovviamente quando, viceversa, si sono palesate le debolezze di quello stesso governo si è avuto un’altrettanto rapida inversione di tendenza. Il problema è che la democrazia deve avere in se stessa l’autorità, mentre adesso sono due entità totalmente separate.

IL MONDO AI TEMPI DI TRUMP E HUAWEI

Sul piano internazionale, come premier e come presidente della Commissione europea, lei ha rappresentato un atlantismo intelligente, che dialogava con la Russia, facendo capire all’Europa che alcune rigidità nei loro confronti erano un errore. Allora, però le posizioni erano definite, chiare. Oggi, invece, con un alleato come Trump, che è il primo a voler rompere l’alleanza, prendere posizione è più difficile. Come si fa in un mondo che sta tornando alla competizione dei grandi blocchi a trovare un punto di equilibrio che salvaguardi le esigenze della collocazione internazionale dell’Italia e dell’Europa e il rapporto con la Russia?

E’ vero che prima era più facile. Sono stato l’unico leader occidentale ad andare in visita ufficiale in Iran nel momento in cui era al governo l’ayatollah Khatami, ma l’ho fatto essendomi prima confrontato con il presidente americano Clinton – come è giusto quando si hanno alleati potenti. E gli ho spiegato che il nostro paese aveva interessi seri in Iran e lui era d’accordo a che la visita avvenisse, perché l’Occidente aveva interesse al dialogo e noi potevamo costituire un passaggio intermedio in questa direzione. Quando l’Alitalia ha comprato i primi aerei jumbo jet non li ha messi sulla linea Roma-New York ma Roma-Teheran, perché ai tempi dello Scià i rapporti con il nostro paese erano intensi. Venendo all’attualità, è vero che tutto è mutato, il presidente Trump costituisce un cambiamento radicale. Ne ho conosciuti tanti di presidenti americani, Bush non era certo una persona colta, ma la sua famiglia aveva legami con l’Europa, e lui se ne sentiva un po’ figlio; Clinton in Europa aveva studiato. Per Obama, invece, eravamo un punto qualsiasi del mondo, valevamo quanto Singapore, insomma. Poi è arrivato Trump, che sente l’Europa come un potenziale avversario, perché mette al primo posto la questione economica. Si permette di insultare la cancelliera Merkel in modo assolutamente volgare, di attaccarci, di prenderci in giro. E questo è sicuramente un errore storico.

E come si deve reagire? Difendendo noi l’atlantismo, aumentando le spese militari come la Lega da tempo chiede o dobbiamo, viceversa, disimpegnarci ulteriormente?

Va fatta l’una e l’altra cosa. Dobbiamo allineare le posizioni europee su questo punto, mentre la Nato oggi è assolutamente sbilanciata e ci sono divergenze fra gli Stati europei. Se ci fosse, invece, un esercito europeo, per quanto meno forte di quello americano, avremmo maggior voce in capitolo nelle questioni internazionali, e non dobbiamo presentarci divisi. Per esempio, l’America propone di installare missili sul territorio polacco e, sostanzialmente, è la Polonia che decide, non l’UE. Altro fattore strategico da considerare è che, per quanto ci sia fedeltà all’Alleanza Atlantica, non abbiamo interesse a rompere i rapporti con la Russia e a buttarla fra le braccia della Cina. La Russia, infatti, a fronte delle sue smisurate risorse naturali ha un’economia fragile, non ce la fa ad andare avanti da sola: faccio un esempio che chiarisce questo punto, la crescita di un anno della Cina (nel 2018 è stata del 6,6%, neppure eccezionale) equivale a tutto il pil russo, cioè la Cina cresce di una Russia all’anno! E’, quindi, un paese politicamente forte, importante negli equilibri militari e territoriali del mondo ma debole sul piano economico. Per cui non può stare da sola ed è ovvio che se l’Europa le chiude le porte si rivolgerà alla Cina! Durante la conferenza stampa finale di un vertice Europa-Cina, ero insieme a Putin e illustrai tante iniziative che potevamo portare avanti insieme sintetizzandolo nell’immagine ‘Russia ed Europa sono come whisky & soda’; lui si disse d’accordo, correggendomi solo sul fatto che preferiva rifarsi all’accoppiata ‘caviale & vodka’! Dopo però si è rotto tutto… Oggi abbiamo le sanzioni contro la Russia, il paese leader che le pone è la Germania che, però, ha anche concluso con la Russia il più grande affare strategico che si potesse realizzare, cioè il gasdotto del Nord, che farà arrivare direttamente in Germania il gas russo passando sotto il mare, saltando Ucraina e Polonia. Davanti a tutto ciò io dico: questa è un’Europa unita?!

Davanti all’incompiutezza politica, sembra che la pace si regga sui vantaggi economici costruiti dalla globalizzazione…

Da qualche tempo, contrariamente all’opinione comune, penso che non ci sarà una vera guerra commerciale fra USA e Cina, la ragione è che il 40% delle esportazioni cinesi sono in capo a multinazionali, che hanno interessi quindi in più punti del mondo e bilanciano lo scontro commerciale. Mentre penso che sarà terribile la guerra per il primato scientifico e tecnologico. Il caso Huawei, che è culminato nell’arresto in Canada della figlia del proprietario dell’azienda di elettronica cinese, nulla ha a che fare con il commercio ma riguarda piuttosto la supremazia tecnologica, perché Huawei è l’unica al mondo a poter fare concorrenza agli americani sul sistema futuro del 5G e sull’intelligenza artificiale (che influenza il commercio, l’industria, le scienze ma anche i risultati elettorali). E su questo l’intesa è impossibile.

I diciottenni che hanno votato per la prima volta alle Europee 2019 sono nati dopo l’attentato alle Torri Gemelle, sono figli della globalizzazione facile, quella che sembrava funzionare, ma anche della crisi europea, si sono convinti che le istituzioni servono e non servono, hanno visto, da ultimo, la più grave crisi economica dalla fine della prima guerra mondiale. Come si spiega a questi ragazzi che l’Europa deve avere ancora un ruolo?

I ragazzi di cui parla lei stanno spaccando tutti i modelli informativi, i discorsi come il nostro non li attirano. Da giovane ho studiato molto il tema dell’antitrust, cioè i sistemi di leggi che limitano la forza delle grandi imprese (petrolieri, banchieri), mentre oggi di questo non si parla più, eppure fortissime potenze economiche (Apple, Google) esistono eccome! Ne ho parlato di recente con un professore con cui ho lavorato all’università di Berkeley, e lui mi ha detto: “Il mondo da allora è totalmente cambiato. Rockfeller era potentissimo ma antipatico, perché faceva pagare di più la benzina con tutto quello che ne viene. E di conseguenza nel Parlamento americano si coagulavano le forze per limitarne il potere. Al contrario, i grandi ricchi di oggi risultano simpatici ai nostri ragazzi, perché danno servizi gratis (i guadagni li fanno in altro modo), e nessun politico osa condurre azioni di antitrust contro di loro, che hanno un potere immenso. E continueranno a usarlo fino a che non violeranno alcune norme”. Per esempio, si inizia ad accusare le aziende che raccolgono ed elaborano i dati che provengono dalla rete di interferenza nella vita politica, come è accaduto alla società di consulenza Cambridge Analytica, ciò significa che forse ci stiamo svegliando e iniziano le prime reazioni. Ma al momento è una macchina infernale, che cresce sempre di più e si sta andando verso la radicalizzazione del sistema.

ICITY54