17/2007
Photo: Marco Albanelli
Text: Riccardo Sepe Visconti
Incontriamo Carlo Pagnotta, Direttore Artistico del festival Jazz più esclusivo dell’estate italiana.
Vorrei iniziare con qualche domanda che non ha nulla a che fare con la musica: quanti anni ha?
Settantaquattro!
Li porta veramente bene. La musica è tutta la sua vita?
Fino ad un anno fa avevo un negozio di abbigliamento maschile che ho gestito per 43 anni, prima ancora lavoravo nel ristorante di mio padre.
Da quando lei è direttore artistico di Umbria Jazz?
Dal 1973, quando questa avventura iniziò, insieme ad Alberto Alberti, che era uno dei due inventori del festival di Bologna, molto importante negli anni ’50 e ’60.
La Regione Umbria si identifica in maniera fortissima in questa manifestazione?
E’ vero, ma abbiamo una storia di oltre 35 anni. D’altra parte la Campania è una regione che ha prodotto molti musicisti ed è un peccato che il Napoli Jazz Festival sia ridotto male: ci vorrebbe un festival collocato in autunno, per il quale si spenda molto, e che si possa inserire tra i migliori festival europei.
Quanti figli ha Umbria Jazz, vale a dire manifestazioni derivate dalla sua, come quella di Ischia?
Di richieste ne abbiamo tante, ma siamo molto selettivi, sia che si tratti di eventi piccoli che grandi, per esempio quest’anno abbiamo lasciato Melbourne per divergenze tecniche. Il bilancio di Umbria Jazz è di 3 milioni di euro, sul quale i costi per il personale incide solo per il 2% perché si tratta nella quasi totalità di volontari, dobbiamo anche divertirci. Il logo Umbria Jazz è proprietà della Regione e noi lo abbiamo solo in gestione e dobbiamo rendicontare tutto alla Regione che ci dà carta bianca: durante la settimana di Umbria Jazz a New York la Regione fa in contemporanea la sua promozione dei luoghi e dei prodotti tipici. Il festival estivo e quello invernale sono diventate manifestazioni di altissimo livello: dire che quello estivo è il miglior evento jazzistico italiano è quasi limitativo, nel senso che non saprei dire quale si colloca al secondo posto.
Com’è nata la collaborazione con Ischia che ha dato vita a Ischia Jazz?
Sono 5 anni che lavoriamo insieme: bisogna calibrare con attenzione il programma al target di pubblico presente e fare un mix di esibizioni nel clubs e di concerti serali, proponendo artisti che siano adatti.
Faccia un bilancio di questi 5 anni.
Purtroppo, essendo in un’isola si deve fare uno sforzo triplo rispetto a quello necessario per realizzare la stessa manifestazione in terraferma; qui il pubblico non è molto giovane.
Il cambio di direzione organizzativa a livello locale cosa ha comportato?
Le cose sono andate bene anche con i nuovi organizzatori.
I concerti, devono secondo lei, essere a pagamento o gratuiti?
L’uno e l’altro, naturalmente con prezzi accessibili, e in tal caso servono anche da calmiere per i curiosi e per scremare le persone realmente interessate.
Cosa pensa della possibilità di portare i concerti anche fuori dall’arena Mirtina?
Sono d’accordo, anche perché a me l’arena non piace, preferivo la vecchia sede nella pineta (ndr. attualmente per quella sede non vengono più date le necessarie autorizzazioni).
Cosa ne pensa del jazz suonato per le strade?
Perché no? L’importante è trovare la location e la musica giuste, mentre certi concerti vanno fatti in posti raccolti.
Quanto il suo lavoro è fatica e quanto divertimento?
Io non posso lavorare se non mi diverto.