17/2007
Photo: Marco Albanelli
Text: Annamaria Rossi
Non sto a raccontare tutto quanto Renato Sellani abbia fatto durante la sua lunga carriera artistica, a partire dall’esordio nell’orchestra della Rai diretta da Gorni Kramer fino ad arrivare alla partecipazione di oggi ad IschiaJazz: andate in rete e troverete tutto. Anche perché Sellani è un uomo schivo, non ama essere protagonista, afferma di non desiderare biografie od altro, detesta essere riconosciuto per strada, anche se spesso è inevitabile. In fondo penso gli faccia anche piacere dopo tanti anni di lavoro, essere apprezzato come uno dei grandi del jazz, avendo iniziato in un’epoca in cui in Italia questo stile muoveva i primi passi. E’ determinato nell’affermare che il suo successo è arrivato per caso, incontri fortunati al momento giusto. Certo la sua grande bravura e sensibilità artistica hanno aiutato, aggiungo io, anche se il Maestro nicchia e dice di non avere mai studiato più di tanto, essendo la sua una dote istintiva. ‘Desicamente’ messa a buon frutto, visto che ha percorso ogni strada, dal primo contatto con la tromba di Bill Coleman al periodo milanese con Franco Cerri e Basso-Valdambrini, poi le tournée con Lee Konitz, Chet Baker, Sarah Vaughn. Negli anni ha accompagnato con il suo pianoforte tutti i maggiori artisti del mondo, non si è fatto mancare niente, sempre chiamato, dice lui, per circostanze strane e fortuite, in realtà interpellato per la straordinaria capacità di accompagnare grandi artisti con stile inconfondibile e talento innato. Ci ricorda: “per poter comandare bisogna prima saper servire. Accompagnare un grande artista che si esibisce in voce richiede adattamento e discrezione, forse possiedo queste doti, per questo sono stato chiamato spesso. Ricordo una sera alla Bussola di Viareggio, quando durante un concerto di Mina si verificò un black out energetico. Bernardini agitato mi chiese di trovare una soluzione, confezionai al volo un megafono di cartone per Mina, e così lei con la sua voce ed io con il pianoforte, che non richiede corrente elettrica, salvammo la serata. Oggi non sarebbe possibile, l’eccesso di tecnologia nella musica ed anche in tutto il resto, ci ha portato ad essere totalmente dipendenti da molte cose che vincolano in modo spropositato le nostre azioni”. E’ praticamente obbligatorio chiedere a Sellani le sue impressioni su come il jazz si sia evoluto o involuto in Italia nel corso degli anni. “Dopo il fermento iniziale dal dopoguerra in poi, c’è stato un blocco totale negli anni ’80 e primi ’90. Oggi vedo una sorta di rinascita, vi sono molti giovani che si avvicinano a questo tipo di musica anche solo per curiosità, stanchi della futilità e dell’improvvisazione vuota di molto materiale che circola oggi. Spesso la curiosità diventa poi voglia di approfondire e seguire meglio. Anche tra i musicisti oggi vedo moltissimi giovani interessati e molto preparati, bravi, ma dopo anni di conservatorio si trovano di fronte ad una carenza di spazi per potersi proporre al pubblico, che pure richiederebbe luoghi di ascolto per il jazz. Una volta era più facile, eravamo in pochi e poi c’erano i locali, i clubs, che oggi sono purtroppo pochissimi”. Cosa fa Renato Sellani quando è libero dai concerti? Si gode la vita, gioca a biliardo, ama gli sport che segue con interesse, scrive musica, la “sua” musica, che non propone mai in pubblico per una sorta di pudore, unico episodio il disco “Sellani plays Sellani”. Ed ora sta preparando un nuovo lavoro, una serie di interpretazioni di pezzi napoletani classici rivisitati “alla Sellani”. Inizia il breve concerto-aperitivo del Continental Terme, il Maestro al pianoforte con Massimo Manzi alla batteria e Massimo Morioni al contrabbasso. E di fronte ad una racchiusa platea di intenditori esordisce con un intenso Summertime, un divertente Besame Mucho, passa in Italia con Abbassa la tua radio e Parlami d’amore Mariù, omaggia il Quartetto Cetra, Garinei Giovannini e Kramer con In un vecchio palco della Scala, ricorda Pavarotti con “E lucevan le stelle” da Tosca e “Tu che mi hai preso il cuor” dall’operetta Il paese del sorriso, mi fa piangere con una struggente My funny Valentine. Tutte interpretazioni intense, eleganti, antiche e modernissime, classe eccelsa e consumata disinvoltura, divertimento e gran affiatamento del trio, una quantità di requisiti, i migliori, per lasciarci godere di un talento discreto e potentissimo, un’ora piena di ritmo giustamente dosato nello spirito di un jazz classico che ormai si ascolta raramente.