33/2012
Photo: Emanuela Migliaccio
Text: Serena Pacera
Ovvero, breve guida per un consumo ittico consapevole. È risaputo. È quasi banale. Anche la più negata delle massaie, addirittura la sottoscritta, sa che alla base di un buon piatto vi è la qualità degli ingredienti, oltre ovviamente alla maestria culinaria, o almeno a quel minimo di pratica che consente di non dar vita ad obbrobri velenosi ed immangiabili. E perché un ingrediente sia buono non è necessario che costi molto o che abbia un aspetto impeccabile, ma c’è bisogno – questo sì – che sia fresco e, soprattutto, di stagione. Zoccolo duro della cucina isolana, oltre all’intramontabile coniglio all’ischitana, è senza ombra di dubbio il pesce, presente sulle nostre tavole per tutto l’arco dell’anno, a memoria delle tradizioni contadine e marinare. Ma non tutti hanno la possibilità di rivolgersi ad una pescheria di fiducia, e così è importante essere ben informati sulle varietà ittiche da prediligere nelle nostre zone in una determinata stagione, e sulla provenienza dei prodotti presenti sul banco del pesce. Per quest’ultimo problema, la soluzione è molto semplice. Basta individuare il codice definito dalla FAO per indicare il mare in cui l’animale è stato pescato: 37 per il Mar Mediterraneo, 21 per l’Atlantico Nord Occidentale, 27 per l’Atlantico Nord Orientale, 51 e 57 per l’Oceano Indiano. Occhio alle acque, quindi, visto che tra i più pericolosi inquinanti rientra il mercurio (e ci sono mari più contaminati di altri), il quale attraverso la catena alimentare può facilmente intossicare l’organismo umano – senza tralasciare che in ambienti insalubri i pesci vengono facilmente attaccati da parassitosi come l’ascaridiosi e la cisticercosi, facilmente trasmissibili all’uomo. Tutti i commercianti sono obbligati dalla legge europea ad indicare questi numeri sulle etichette, assieme al nome del pesce, al fatto che sia stato pescato o allevato, e alle modalità di pesca e di allevamento. Questo aspetto è molto importante, basti pensare che buona parte del pesce che acquistiamo è in realtà carne di squalo, e proprio noi italiani ne siamo inconsapevolmente i maggiori consumatori. Sono da evitare i pesci d’allevamento intensivo in vasca: innanzitutto perché per alimentarli è necessario pescare più di quanto si allevi e, in secondo luogo, perché essendo le condizioni delle vasche di stabulazione tutt’altro che salubri, questi pesci vengono preventivamente trattati con antibiotici, e non sempre vengono commercializzati rispettando i periodi di emivita dei farmaci, che così rimangono nelle carni. Quindi, no al salmone d’allevamento (le scorie prodotte da 200mila salmoni in un anno equivalgono ai liquami di una città di 60mila persone! In pratica la vostra cena ha nuotato per un anno nell’equivalente quantità di feci prodotta ad Ischia), no al tonno rosso (specie fortemente a rischio a causa dei ritmi serrati di pesca), no ai gamberi tropicali il cui allevamento distrugge le foreste di mangrovie, no al pesce spada (la cui pesca, fatta con le “spadare”, non solo fa strage di numerose altre specie in via d’estinzione, come squali e delfini, ma include anche esemplari di dimensioni inferiori a 140 cm, il minimo stabilito per legge), no al novellame (per intenderci, il cosiddetto bianchetto). Un’altra specie da salvaguardare, anche sulle nostre tavole, è la cernia, pesce più nostrano che mai: non tutti sanno che questo animale è ermafrodita, infatti nei primi anni di vita è femmina, poi si trasforma in maschio. I maschi vivono in profondità, quindi a essere catturate sono soprattutto le giovani femmine, generando un pericoloso squilibrio tra sessi che compromette la sopravvivenza della specie. Cosa, quindi, dovrebbe bollire in pentola? Innanzitutto, il pesce azzurro di stagione. E per “pesce di stagione” s’intendono quelle specie che non sono in fase riproduttiva e che hanno dimensioni tali da aver raggiunto la piena maturità. Per fare qualche nome, ai primi posti della “top ten” dei pesci da consumare abbiamo: l’aguglia (che si pesca in estate e in autunno ed è ottima impanata e fritta), lo sgombro (che si pesca in primavera), il sugarello (pescato per lo più in primavera/estate), la palamita (il cui periodo migliore di pesca sono i mesi di maggio/giugno ed ottobre/novembre, ed ha una carne estremamente delicata), il pagello (di cattura invernale e primaverile) e la lampuga (un must della tradizione ischitana, pescata in autunno/inverno e consigliatissima “all’acqua pazza”). Tutti pesci, insomma, molto vicini alle abitudini alimentari dei nostri nonni e ben lontani dagli standard consumistici dei nostri giorni, in cui si prediligono prodotti industriali come i bastoncini preconfezionati, o il sushi, tanto di moda, del quale l’80% delle volte non si conosce né la provenienza, né tanto meno il metodo di preparazione, che invece rappresenta un rituale ben preciso nei costumi culinari orientali. Per aiutare l’acquirente in pescheria consiglio un veloce esame delle caratteristiche esteriori del pesce: partendo dalla rigidità, che deve essere presente (facciamo quindi attenzione alla forzata esposizione arcuata di alcuni esemplari, sostenuta dal filo di lenza che unisce coda e bocca: il pesce fresco, infatti, irrigidendosi tende ad assumere naturalmente questa posizione, che si perde poi nel tempo col rilassamento muscolare, portandolo a distendersi), la consistenza delle carni deve essere soda, la superficie brillante, l’odore salso, l’occhio vivo, le branchie non semplicemente rosse, ma di un bordeaux carico. In conclusione, dopo tanti consigli, avrei una considerazione da fare, l’ultima, la più amara: se un tempo si diceva “il mare è pieno di pesci”, oggi non si può più. Il nostro è un mare vuoto, povero, in crisi come il nostro Paese. È un mare che spinge i gabbiani a nidificare lontano dalla costa, per cercare cibo altrove. È un mare verso cui l’uomo è stato ingrato, in cui sono stati gettati rifiuti tossici, che è stato depredato dalla pesca sconsiderata. È un mare cristallino di cui amiamo vantarci, su cui costruiamo la nostra economia, ma per il quale avremmo dovuto avere maggiore rispetto, al quale abbiamo procurato danni irreparabili e di cui adesso abbiamo il dovere di prenderci cura – se non per riparare agli errori commessi, almeno per non aggravare ulteriormente la situazione.