Interview_ Silvia Buchner Photo_ Riccardo Sepe Visconti
È partito da Forio per tornarvi tante volte, Gino Coppa. Alla ricerca di suo padre, della propria maturità artistica, per quanto consapevole fin da giovanissimo che dipingere sarebbe stato il suo mestiere, del contatto con altri mondi e culture. Incontra così la sua Africa, che esplora con amore e che per anni trasfonde in migliaia fra schizzi, bozzetti, quadri, anche di notevolissime dimensioni. Ma contemporaneamente conosce e si fa conoscere con le sue opere nelle gallerie europee e americane, esponendo a Parigi, Londra, New York, Zurigo, Berlino, Essen. Una continua, rigorosa e incessante ricerca e sperimentazione di tecniche e materiali, una fedeltà quasi ossessiva ad un tema dominante, studiato, analizzato a lungo e con meticolosità in infinite variazioni; una sensibilità sociale, “etnica”, “antropologica”, attenta e attratta da realtà arcaiche, ancestrali, caratterizzano i lavori di Gino Coppa. A Forio dipinge i suoi 3 figli piccoli, ma non c’è discontinuità tra i due cicli africani, in particolare il secondo, e quello dei bambini, appunto. I bambini “foriani” e i tuareg fasciati nei loro turbanti blu, gli uni e gli altri raffigurati raccolti su se stessi, le donne magrebine avviluppate nei loro lunghi abiti colorati, diventano figure essenziali e arcane, immagini monumentali, potenti, ieratiche che si allargano sul supporto occupandone totalmente lo spazio. L’anatomia è manipolata, reinterpretata e alterata dall’artista alla ricerca dell’astrazione, dell’essenzialità, della semplicità, della sintesi in forme geometriche, architettoniche, mentre il colore, audace, acceso, deciso, puro, vibrante, conquista una sua autonomia. Lo abbiamo incontrato nel suo splendido studio foriano: fra enormi tavoli coperti da fogli di carta, supporti per dipingere, quadri, contenitori in cui sono ordinatamente suddivisi un’infinità di pennelli, spatole, barattoli, tubi di colore, scaffali occupati da cornici, tele ancora bianche, raccoglitori in cui sono archiviati bozzetti, corrispondenza, fotografie, giornali, cataloghi, e poi moltissimi libri, cavalletti, casse per far viaggiare le opere, con disponibilità e cortesia Gino Coppa ci ha parlato di sé…
Com’è stata la sua gioventù a Forio?
Sono cresciuto senza padre, lui era un civile che lavorava in Africa con la ditta Astaldi, costruivano strade e piazze ad Addis Abbeba. Fu fatto prigioniero durante la guerra: a un certo punto scappò e visse in un villaggio, nella casa del capo, e riapparve nel 1947, ma ci scriveva e sapevamo che era vivo. Durante tutta la mia infanzia, ho sognato l’Africa, perché era il luogo dove stava mio padre. Avevo chiaramente una propensione innata per le espressioni artistiche: a 6 anni i miei amici mi portavano pezzetti di carta in cui ritagliavo un perfetto profilo di Mussolini e da ragazzo inventavo maschere e costumi favolosi per Carnevale.
Da giovanissimo, ho dipinto soggetti ischitani, ma sono relativamente pochi quadri: essendo poverissimo, mi facevo da solo i colori per dipingerli e tuttavia i quadri di quel periodo sono quasi tutti ‘in buona salute’. A 16-17 anni già esponevo in collettive italiane, come S. Marino, Riviera del Conero, La Spezia, ero invitato sotto giuria e accettato regolarmente. Finalmente un critico d’arte mi notò alla Quadriennale di Roma, era il 1950, in quell’occasione vendetti anche uno dei due quadri accettati.
Perché ha messo da parte presto i temi ischitani?
Sognavo l’Africa, e un critico d’arte turco vide i miei quadri a Roma e mi propose una mostra a Instambul: vendetti tutte le opere e con quei soldi acquistai un biglietto per l’Africa, per raggiungere mio padre. Lo trovai in Uganda: il volo per arrivare a Nairobi, con un piccolo aereo a elica, durò 21 ore, 8 ore per attraversare il lago Vittoria fino ad Entebe, con un aereo di legno e tela: fu impressionante e io non avevo mai volato prima.
Suo padre si era molto legato all’Africa…
Sì, vi tornò per altri 22 anni dopo la guerra, aveva 3 mesi di vacanza ogni 3 anni. Io andai nel 1957/58 e per un anno girai l’Africa nera: l’Uganda appunto, dove lui lavorava in quel periodo, il Kenia. Gli africani lo amavano molto, perché li trattava bene, diversamente dalla maggioranza degli altri. Le donne, infatti, si davano agli operai italiani perché non avevano di che nutrire i propri figli, e in cambio ricevevano neanche soldi, ma il pane o il pollo che avanzava. Ho visitato anche il Congo, ricco di miniere, allora era pieno di occidentali facoltosi, ha l’unico lago dell’Africa centrale in cui si può bagnarsi senza pericoli, ma un costume da bagno costava 23.000 lire nel 1958.
Cosa ha fatto durante quell’anno?
Ho dipinto tutto il tempo, centinaia e centinaia di schizzi di villaggi, persone, bambini, scene di animali, donne, che lì non avevano paura di farsi vedere e ritrarre, diversamente da quelle dell’Africa islamizzata.
A parte il desiderio di ritrovare suo padre, cosa l’ha affascinata dell’Africa?
Un’umanità che mi ha sconvolto, per la sua miseria, per le persecuzioni razziali che ha subìto: il contatto con tutto questo mi ha cambiato, mi ha reso migliore come uomo e, tornato in Italia, sono diventato comunista, nel senso che ho acquisito consapevolezza delle ingiustizie sociali che ci sono nel mondo. Tutto ciò ha influito su di me e ha contribuito a fermare la mia mente sul mondo africano, che ho dipinto per oltre 10 anni. Appena rientrai a Forio, iniziò il lavoro dei grandi olii che nacquero come un’esplosione, li ho sviluppati senza guardare i bozzetti, che mi servono in realtà per incamerare e fermare immagini e sensazioni nella mente. Subito cominciarono ad arrivarmi inviti per esporre queste opere a Parigi, Londra, New York.
Ha continuato anche in seguito a dipingere soggetti africani?
Sì, ma ispirandomi all’Africa araba, che fino a quel momento avevo volutamente evitato. E’ stato un caso: nel 1976 degli amici mi invitarono ad andare con loro in Marocco per un viaggio e fu un altro shock. Ma da quando nacquero i miei 3 figli, si aprì anche un altro ciclo, a lungo infatti ho dipinto i bambini, ho fatto centinaia di studi e poi dei grandi acquerelli.
Che differenze ha colto tra l’Africa nera e quella araba?
Quella araba è più scenografica – il deserto, l’architettura meravigliosa, la gente solitaria e silenziosa – ma non vuole comunicare la miseria e la sofferenza che pure là è tantissima. L’unica cosa che lì si muove e gioisce è la gioventù, i ragazzi che quando si va nei villaggi appaiono all’improvviso, festosi come un nugolo di uccelli, per poi scomparire di nuovo.
Lei ha viaggiato nel deserto: ce lo racconti.
Ho percorso il Sahara in lungo e in largo: è un viaggio da affrontare con saggezza, stando attenti a non perdere le piste, se c’è un’indecisione conviene attendere che arrivi la luce giusta per osservare le ombre e stabilire il percorso. Bisogna armarsi di pazienza e non reagire in maniera violenta, con agitazione se ci sono degli imprevisti; non bisogna correre sulle dune se non si ha una seconda macchina e un verricello, perché può non passare nessuno anche per 10 giorni. Noi portavamo viveri al massimo per 2 giorni, molta benzina e tanta acqua, ma ci fermavamo ogni notte in oasi o villaggi. Poi si deve stare attenti ai serpenti, anche se si dorme negli alberghi dei piccoli paesi. Questo me lo ha insegnato mio padre: nel Queen Elizabeth National Park in Uganda, dormivamo in una carovana mobile, di metallo, divisa in due appartamenti da una porta e altre 2 porte ci separavano dall’esterno. Johnny, il boy che si occupava di lui, ogni sera disfaceva il letto riordinato al mattino, controllavamo che non ci fossero serpenti, lo risistemava, mi chiudeva dentro e solo allora potevo stare tranquillo.
Ha fatto molti ritratti nell’Africa araba.
Sì, per esempio le donne algerine e marocchine, che si drappeggiano sempre con molti bei tessuti e veli. Quelle del gruppo dei tuareg sono molto belle, nobili, snelle, in un certo senso più libere delle altre donne arabe tanto che le si può vedere a capo scoperto, se non ci sono uomini in giro.
Quanto ha contato la tecnica nello sviluppo della sua opera?
Moltissimo, sono stato uno scavatore di tecniche, man mano che sono entrato in questo mondo, ho voluto conoscerlo a fondo, anche per garantire la durata delle mie opere e quindi ho studiato i colori, volevo i migliori e ho investito tutto nel mio lavoro, anche dal punto di vista economico. Non ci sono tecniche che non ho esplorato, ho fatto anche la grafica ma la trovo un po’ fredda, mi annoiava la sua ripetitività.
Ha conosciuto Eduard Bargheer, il più famoso degli artisti stranieri che si sono stabiliti a Forio?
E’ stato importante per me, osservandolo ho capito certe tecniche dell’acquerello: era geniale nell’usare il colore per realizzare le bellissime luci del nostro paesaggio ed era un grandissimo acquerellista. Io sono riuscito anche ad andare oltre, unendo a ciò che ho imparato da lui le mie sperimentazioni sui pigmenti, sui collanti, l’obiettivo è sempre stato quello di raggiungere una padronanza tale da riuscire a rendere, per esempio, la terra del Sahara, le sue sfumature, che si riverberano nei vestiti, negli oggetti, altrimenti il quadro resta solo una ‘cartolina africana’.
Da poco, dopo una lunga sospensione di circa 3 anni dovuta a una malattia, lei ha ripreso a lavorare: come si realizza questo difficile passaggio?
I temi vanno affrontati nel momento giusto. Sempre, in ogni tempo, ci sono tanti quadri non finiti, e io ricomincio da questi, ripescando quelli che mi attirano di più, e provo a finirli: in questo modo ho portato a termine anche opere che avevo iniziato 5 anni fa e per le quali non trovavo la soluzione. Almeno per uno (ndr. un grandissimo pannello con un gruppo di cacciatori africani) la soluzione era che non andava finito. Il fatto è che la maturità ti consente di vedere come non vedevi prima. Così, in una settimana ho finito 7-8 quadri, anche difficili.
Come si vede adesso?
Più maturo, appunto, e quindi vedo più chiaramente di prima quello che voglio fare, ma mi è rimasta una prudenza estrema prima di imbarcarmi in un’avventura nuova, che ci sarà, molto diversa da tutto quello che faccio oggi. Aspetto il momento opportuno, di avere la sicurezza, non di fare l’opera d’arte, ma di essere pronto a starci dentro: è come una battaglia. Io ho tanti desideri, sempre nell’ambito della continuità, che non significa continuità del tema, dello stile, perché ogni nuovo ciclo ha cambiato il mio lavoro, ad esempio nel ‘periodo dei bambini’, generato dalla nascita e dall’osservazione dei miei figli, ho prodotto centinaia di opere: si tratta di cicli in cui tutta l’attenzione viene diretta su ciò che in quel momento mi interessa, e vi ho trasferito anche la mia infanzia e l’infanzia sofferente che ho visto in Africa.
Comunque preferisco che un quadro nasca e venga finito nel più breve tempo possibile: questo acquerello (ndr. donna velata in blu) è il lavoro di due-tre ore ed è stato ammirato e recensito in tutta Europa. Ci sono anche delle cose segrete che non vi dirò su come adopero il colore, è un’esecuzione immediata, senza traccia di matita sotto, passa direttamente dal mio cervello alla realizzazione. Il rapporto tra le mani, i piedi che stanno sotto l’abito, tutto deve essere posseduto da me e va poi eseguito al più presto possibile. Quando il quadro non riesce subito, si aggiungono altre sostanze: io ho scelto di non fare acquerello su acquerello o tempera su tempera ma adopero l’acrilico, ma il risultato deve essere tale che chi osserva non si accorga dove finisce una tecnica e dove comincia l’altra.
Che vantaggi offre questo sistema?
Consente di recuperare un’opera assolutamente valida. Picasso, in alcuni quadri, ha adoperato pastello a cera, acquerello, inchiostro, poi non essendo contento ha usato l’acrilico oppure ha fatto oli misti ad acrilico. La cosa importante è il risultato finale: un insieme, una struttura architettonica di forme colorate che o funziona o non è niente. Anche Caravaggio, se non contenesse questo mistero nei suoi quadri non sarebbe nulla. Il pittore è in grado di predisporre – direi quasi con magia – una serie di meccanismi non visibili, chiamiamole linee di meccanica dinamica in cui questo insieme vive, anche se è per tre quarti scuro e ci sono alcune emersioni colorate, di luce.
Quanto conta il soggetto, in questo discorso?
Molto, è un modo di comunicare energia. Paul Klee in una lezione all’accademia di Berlino disse: “Un albero cresce dal basso verso l’alto” e accompagnò queste parole con un gesto che comunicava il partire dalla terra di un’energia di crescita, di sollevazione del tronco. Questa tensione continua deve esserci sempre, di un braccio si deve capire il peso che ha, altrimenti si riduce a mero fatto decorativo. Per esempio, nei 4 ritratti di donne arabe, nota come in quella anziana è stata violentata l’anatomia della persona perché fosse così espressiva.*
* Intervista pubblicata su Ischiacity 15 nel 2007