Abbiamo scelto di incontrare Celeste Manieri perché sapevamo che nel “mondo di Giovanni Di Costanzo”, oltre ad essergli stato amico sincero ha rappresentato, probabilmente, la persona a lui più vicina per affinità e condivisione dell’idea di arte.
Le frasi che riportiamo sono estrapolate da un lungo colloquio avuto con Celeste e sono trascrit- te volutamente nel modo più semplice e schietto, così come egli ce le ha consegnate: una scelta di metodo voluta per rispettare con estrema fedeltà il pensiero, il sentimento, l’idealità del rapporto che ha legato questi due artisti.
Giovanni Di Costanzo ha fatto arte fino alla morte, io ero presente e lo posso testimo- niare. Le persone così non sono benvolute dalla società: Giovanni, ad esempio, non comprava un chilo di pane per non spendere, ma poi era ca- pace di acquistare un libro da 200 euro solo per- ché c’erano delle figure interessanti che potevano servirgli a creare delle opere. A volte, mi dicevo: “No, ma io a Giuvann l’aggia proprij abbandunà, è proprij pazz! (*)”, poi un’altra voce dentro di me mi diceva che è una caratteristica di tutti gli artisti essere un po’ strambi.
(*) “No! Io Giovanni devo assolutamente abbandonarlo, è proprio pazzo!”.
Aveva migliaia di libri: un giorno mi disse che dovevamo tappezzare ed inchiodare tutte le porte e le finestre di casa con la vetroresina in ro- toli, perché lui all’interno del telaio e nei vani delle porte aveva realizzato scaffali ed aveva paura che le infiltrazioni rovinassero i libri. I vestiti li teneva
Giovanni Di Costanzo è morto per l’arte: aveva accumulato cose e malattie. Non si cu- rava perché gli interessava solo l’arte, abbia- mo fatto cose talmente assurde insieme… Anda- vamo ai mercatini, si innamorava letteralmente di qualunque cosa, un giocattolo, un soprammobile, e doveva per forza avere quell’oggetto. Un giorno vide in un negozio a Forio una statuina, ma costa-
E’ stato accettato dalla società solo nella misura in cui era un professore di scuola, ma per tutto il resto non lo comprendevano, tant’è che anche dalla scuola è andato via, mi disse che non riusciva più ad avere un rapporto coi ragaz- zi, a controllarli. La gente che gli stava intorno si chiedeva: “Ma, che sta facenn? (*)”, perché casa sua era un caos totale, soffriva di accumulo compulsivo e conservava tutto. Beveva un succo di frutta? Conservava il cartone. Finiva il latte? La bottiglia non la buttava, e questo non viene accettato. Ne abbiamo discusso tante volte: “Sta munnezz s’adda ittà tutta quanta! (**)” – gli di- cevo e mi rispondeva che non capivo niente, che ogni cosa che lui conservava aveva il suo senso. Abbiamo riempito otto porter di spazzatura e cose inutili dopo la sua morte. Dovevi prenderlo per com’era, ed io talvolta non ero preparato ad affrontare questo suo modo originale di vivere.
(*) “Ma cosa fa?”. (**) “Questa spazzatura va tutta buttata via!”.
sparsi per la casa ed i libri dentro gli armadi, rive- stiti di cartoni perché era umida; anche a Napoli, all’ospedale, aveva cominciato ad accumulare li- bri. Non li leggeva, o leggeva solo quello che gli interessava, di solito li comprava per le immagini. Quando era ricoverato al Cardarelli gli dissi che eravamo vicini al posto di cui gli avevo parlato – Portalba – dove vendono libri e oggetti a poco prezzo, e lui, tutto entusiasta “Ma che dici?! Famm’ vede’ si riesc a cammina’ nu poco (*)”.
(*) “Cosa dici?! Vediamo se riesco a camminare almeno un po’ ”.
va 50 euro e non poteva permettersela, però non ci dormì la notte. Il mattino seguente partimmo alle 8 da Buonopane e dato che il negozio non era ancora aperto, andammo addirittura a sve- gliare il proprietario a casa: per lui era importante averla, perché voleva studiarne le fattezze. A volte lo prendevo in giro dicendogli: “Ma oggi che hai fatto? Manc nu disegn? (*)”. E lui mi diceva che io ero sposato, che mia moglie mi faceva trovare tutto pronto. “Cele’, io me sent sul, me vuless truvà na femmn (**)”. Si sentiva un ragazzino, però, e si abbassava sempre l’età. Una volta andammo in un negozio a Forio e lui rimase folgorato dalla commessa e subito mi disse di trovargli carta e penna che doveva farle il ritratto. “Eh, e io mo andò u vag a piglià? (***)”. Poi ebbi l’intuizione, corsi da Mariolino Capuano (Ndr. Artista che ha un negozio al corso di Forio) e gli chiesi tutti i colori che aveva, ché Giovanni doveva fare un servizio, il ritratto ad una ragazza. La mise a modo suo, le girava intorno, colse tutti i particolari della sua figura, fece un disegno bellissimo e poi glielo regalò. Si innamorava sempre delle ragazze giovani. La sua era una follia buona, ingenua, genuina. Una volta andam- mo alla Galleria Ielasi a vedere una mostra fotografica particolare, perché le foto si dovevano osservare nell’oscurità. Appena arrivammo Giovanni urlò: “Ueè!! Iela’! Ma puot appiccià nu poc e luc ca dint? Che nun se ver nient! (*)”. Lui era un grande artista ma a volte non capiva l’arte degli altri: Ga- briele Renzullo organizzò una mostra presso una piccola galleria ed espose un frigorifero nuovo, appena acquistato, con dei colori all’interno e quella era l’opera d’arte, chiamata “Affresco”. Arrivò Giovanni e disse: “Ma io nun aggio capito: mo’ e culur se stipan dint o frigorifero?!… (**)”.
C’è una storia che riguarda questa scultura che è molto vecchia, del 1980 o ‘81. La forma della bocca non è realistica se confrontata a quella del gatto, il fatto è che lui era in grossa difficoltà e non sapeva come realizzarla. Passò Raffaele Di Meglio (Ndr. Artista ischitano, il cui soprannome era Monnalisa) che scendeva giù a Nitrodi, e sentendolo scolpire chiamò: “Giuva’, c’am- ma fa’ nu bicchier e vin? (*)”. Dopo aver bevuto – più Raffaele che Giovanni, che era molto indaffarato – Giovanni gli confidò di non riuscire ad andare avanti a causa delle proporzioni della bocca, e Raffaele subito gli consigliò di farla “tipo messicano” coi denti da “cristiano”. Giovanni seguì il consiglio e rimase molto soddisfatto, anche perché se non l’avesse ultimata sarebbe andata but- tata o persa come tutte le opere che non finiva.
L’arte è anche una moda ma Giovanni Di Co- stanzo era l’unica persona che non se n’è mai ‘fot- tuto’ di questo, voleva disegnare ‘a crapettella, ‘u mi- scill (*), le mode non gli interessavano. Ha incominciato vari percorsi, prima la pietra, poi legno, ceramica – aveva anche il forno per cuocerla, ma ad un certo punto ha smesso di realizzare sculture in creta perché era molto ‘tirato’ e non voleva consumare la corrente necessaria a far funzionare il forno. Preferiva il foglio e la matita, ma anche così era attento a non sprecare niente: al bordo dell’album ci sono i trattini per strapparlo, ma lui dise- gnava anche oltre i trattini e poi tagliava il bordo con le forbici. Disegnava anche dietro la copertina. Dietro le scatole di detersivo, dietro le cassette della legna, io andavo a prenderle dal fruttivendolo per bruciarle nel caminetto e lui me le faceva smontare per prendere il fondo.
Si paragonava a Picasso, dice- va che tutta la casa doveva esse- re uno studio, dentro e fuori, e che non doveva avere un posto esclusivo per creare, anche la polvere non an- dava tolta, perché faceva parte della composizione.
Durante il ricovero in ospe- dale, un giorno gli misero una flebo e la bottiglina della medicina aveva una forma particolare, quan- do finì Giovanni disse: “Ue’ scusa! Ma quella butteglia mo a ittat, no? E pecché nun a lat a me, ca me serv?”. La nipote: “’U zi’! Ma che dici quà sta la medicina!” “Ma qua- la melicin?! Chell è nu poc ‘e acqua! Nui a sciacquamm… Guarda che bella form ca ten! (*)”.
Nell’ultima fase, prefe- riva disegnare cose e per- sone strane, con difetti fisici, ma per le belle ragazze non ha mai perso la passione.