Friday, November 22, 2024

 

Interview_ Gianluca Castagna  Photo_ Daniel Conte  Dayana Chiocca

 

 

Si definisce apolide, ribelle, una nomade stanca della Germania, che in fondo non ha mai avuto casa né heimat. Vive a Parigi, dove l’ha portata la vita, l’amore e il cinema. Il cammino artistico e umano di Margarethe von Trotta, regista sensibile ad ogni spirare di vento nuovo o contrario, sempre attenta alle problematiche sociali e ai risvolti imprevedibili della sfera psicologica individuale, è costellato di film emblematici sui temi a lei cari. Soprattutto le donne, meglio se unite da un legame di sorellanza turbolenta. Alle donne, più attente al pulsare della vita interiore, il compito di ricostruire rapporti e speranze anche tra le pieghe recondite di avvenimenti dove la violenza esplode e il malessere dilaga. Il culmine di questo percorso è “Anni di piombo”, il suo film più discusso e famoso, ma in questa direzione andavano  già i suoi ruoli di attrice per i giovani registi del Neuer Deutscher Film. Animati tutti dalla volontà di rinnovamento e di diversa qualità, dal bisogno di tensione creativa e di recupero di un’identità smarrita anche per vie insensate e alienanti. Un corpus cinematografico che infiammò la Germania degli anni ‘70 perché scandalosamente attento alla capacità svelatrice dello sguardo sensibile, alla forza (pre)potente di linguaggi più espressivi dei sentimenti e dei pensieri, alla tentazione di rivoltare la coscienza di una nazione da cima a fondo. Con rigore, strafottenza e allegria.

 

 

 

Tra gli anni ’60 e ’70 lei è stata una delle protagoniste del Nuovo Cinema Tedesco, un’ondata di autori destinata a fama internazionale. Cos’è rimasto di quel movimento?

Più che Nuovo Cinema tedesco, parlerei di Nuovo Cinema bavarese. Siamo stati tutti insieme soprattutto a Monaco, notevole centro cinematografico da sempre, in particolare dal dopoguerra, quando, andate distrutte o passate ai sovietici le strutture produttive di Berlino, Monaco divenne il maggiore centro di produzione della Germania. Tutti quelli che facevano cinema erano lì: Herzog, Kluge, Schlondorff, Fassbinder, Reitz, anche Wenders. Eravamo un gruppo, non una scuola. Ribelli perché la verità ci veniva negata. Abbiamo fatto i conti con la Germania della guerra, col nazismo, con il trauma e il silenzio collettivi. Tutti diversi e con una voglia di fare un cinema differente da quello dei padri. Ci siamo riusciti.

Li vede ancora?

Volker Schlondorff, mio ex marito, in questo momento è a Parigi, a casa mia. Sta montando il nuovo film e vive nel mio appartamento. Wim lo incontro a Berlino, o in qualche aeroporto, visto che gira sempre tantissimo. Herzog è in America, non lo vedo quasi mai. Fassbinder è morto.

E’ vero che il cinema di Fassbinder è morto con lui, senza eredi?

Perché deve esserci un cinema come quello di Fassbinder? Era una personalità così unica, originale, non c’è bisogno di eredi. I suoi film rimangono, organizzano retrospettive in tutto il mondo, è un cinema vivo malgrado lui non ci sia più. Francois Ozon, ad esempio, è un regista francese che si avvicina molto a Fassbinder, senza bisogno di definirlo un erede.

All’Ischia Film Festival è stato proiettato “Hannah Arendt”, uno dei suoi lavori più recenti e di maggior successo. Cosa la spinse verso questa figura così importante e controversa del Novecento e della riflessione sul Novecento?

Non mi ritengo un’intellettuale, non sono una filosofa e nemmeno così intelligente come la Arendt. Mi mancava il coraggio per fare un film su un’icona come lei. Un mio amico ha talmente insistito che alla fine ho ceduto. Anche la mia cosceneggiatrice era entusiasta, così mi sono sentita in trappola e ho dovuto avvicinarmi a questa donna. Una pensatrice che aveva le sue idee e le ha difese contro tutto e tutti. Guardava con i suoi occhi e pensava con la sua testa. Non le è stato mai perdonato.

Come i suoi reportages da Gerusalemme per il processo Eichmann.

La sua vita era troppo lunga da raccontare, così ci siamo concentrati sui quattro anni del processo e su quello che è accaduto dopo, in particolare le polemiche violente che seguirono la pubblicazione dei suoi reportages, appunto. Io ho insistito molto per avere le vere immagini del processo, volevo che il pubblico lo seguisse esattamente come fece Hannah, che vedesse quest’uomo così banale e ordinario. Non so se lei avesse ragione o meno, il film non lo dice. Basti pensare a quando il suo amico ebreo Hans Jonas, sul finale, le rinfaccia tutto nell’aula universitaria. Un ripudio doloroso e definitivo. Nessuno può dire chi avesse ragione. La Arendt guardava il Novecento per quello che era stato. Senza più alcuna speranza o utopia.

Siamo agli antipodi con un altro personaggio storico che lei ha raccontato sul grande schermo: Rosa Luxemburg nel film “Rosa L.”

Mi viene da ridere pensando a quel titolo. Gli italiani scelsero di abbreviarlo perché strizzava l’occhio al cinema erotico, pensavano portasse più pubblico. Ovviamente non aveva nulla di morboso. Tra l’altro, nemmeno quello era un mio progetto. Doveva farlo Fassbinder, subito dopo “Querelle”. Quando morì, il produttore mi disse: ora sei tu che devi continuare il suo lavoro. Accettai solo a patto di trovare una mia strada per descriverla. E scegliermi da sola la protagonista, visto che loro volevano Jane Fonda o la Shygulla.

Rosa Luxemburg guardava il secolo da venire.

Era un’utopista, credeva nella Storia. Pensava che con la Rivoluzione la società sarebbe cambiata. Non mollava mai, anche a costo di grandissime sofferenze. Finì ammazzata dai gruppi paramilitari agli ordini dei socialdemocratici. Quelli che, tempo dopo, sarebbero diventati nazisti. Penso a lei come la prima ebrea vittima di Hitler. Sul Novecento ho fatto anche un altro film, “Rosenstrasse”, ambientato a Berlino nel ’43, nel centro più doloroso di quegli anni bui: donne ariane che lottavano contro il Terzo Reich per salvare la vita ai loro mariti ebrei.

A chi si sente più vicina?

C’è stato un tempo, intorno al ’68, in cui credevo davvero fosse possibile cambiare le cose e il corso della Storia. Oggi sono più vicina alla Arendt, al suo guardare al passato e alla fine delle illusioni. Non credo più in alcuna utopia. Mi spiace, è triste ammetterlo, ma è così.

Nel film la Arendt è interpretata da Barbara Sukowa, attrice a cui è molto legata.

Abbiamo fatto sette film insieme. In “Anni di piombo” fu un inferno. Un carattere ribelle, sempre contro, durante le riprese mi dicevo: non farò mai più un film con lei. Con “Rosa Luxemburg” fu completamente diversa, capii che molto dipendeva dal personaggio, che lei affronta sempre in maniera intensa. E’ un’attrice tra le più intelligenti che io abbia mai conosciuto. Sensibile, attenta, generosa, umanissima. Senza di lei non avrei mai potuto girare Hanna Arendt, dove Barbara ha dato tutto quello che poteva. In Germania mi dicevano: non prenderai ancora lei? Basta! Io replicavo: anche Bergman usa spesso le stesse attrici.

A proposito del nazismo, è vero che i tedeschi, al contrario degli italiani, hanno fatto i conti con la storia del loro paese e con il tema della responsabilità collettiva?

Non l’hanno fatto di propria volontà, sono stati costretti. In quegli anni terribili, i tedeschi si dimostrarono più feroci degli italiani, più crudeli. E poi non è vero che siamo

naturalmente predisposti alla resa dei conti.

Anche i tedeschi rimuovono. Durante tutti gli anni ’50 e ’60 non volevano sapere niente, ci hanno cresciuto nel silenzio, vivevamo sotto una cappa di piombo. A scuola, quando ero una bambina, nulla ci veniva raccontato sulla seconda guerra mondiale e sull’Olocausto. La crepa si è aperta solo con il ’68. Da quel momento è cominciato un travaglio, un lavoro durissimo di ricostruzione della memoria, del ricordo e delle responsabilità.

Che effetto le fa sapere che, dopo decenni,  la Germania di oggi è di nuovo la nazione più potente d’Europa?

Non mi fa piacere, ma non posso dire nulla contro. Quando la Merkel è stata così severa con la Grecia, però, mi sono vergognata di essere tedesca.

La Cancelliera è un personaggio interessante da raccontare?

Tanti giornalisti me lo chiedono. Ci vorrebbe una certa distanza, prima dovrebbe essere morta (ndr. ride…). Ipotesi difficile, è più giovane di me. Potrei cominciare a girarlo qui, un film su di lei. So che passa abitualmente le sue vacanze pasquali a Ischia e ama molto quest’isola.

Nel suo cinema ha raccontato di personaggi femminili che lottano per la libertà. Cosa significa oggi per lei essere liberi?

Parlare di libertà è difficile. Forse bisognerebbe discutere di indipendenza. Cerchiamo tutti, come esseri umani, di porci in maniera indipendente dalle opinioni degli altri o dei potenti. In Europa l’indipendenza delle donne è cresciuta molto in confronto agli anni in cui ero giovane e cominciavo a fare questo lavoro. Una donna indipendente significa anche un certo grado di libertà nella società. E una società democratica è sempre segno che si è realizzata una certa indipendenza per la donna.

C’è una differenza tra uomo e donna nei confronti del potere?

Forse nell’immaginario. Si dice sempre che le donne non siano così sedotte dal potere come gli uomini, che esercitino più resistenza a questo richiamo. Eppure esistono tanti esempi di donne che, arrivate al potere, diventano esattamente come un uomo.

All’Ischia Film Festival è presidente di Giuria. Che rapporto ha con i festival? Cosa ricorda della sua vittoria a Venezia con “Anni di piombo”?

Fu un’esperienza fantastica, molto emozionante. Venezia mi portò fortuna, perché l’anno prima, nel 1980, mi trovavo in Giuria con Suso Cecchi d’Amico, Umberto Eco, un gruppo straordinario. Ho fatto la giurata altre volte, anche se non amo molto questo ruolo. So quanto è difficile fare un film, trovare i finanziamenti, impiegare tutte le tue energie per farlo bene, quindi è complicato giudicare i film degli altri. Dover essere crudeli, in certi casi, dicendo no, quel film non vale niente, non mi piace molto.

Cosa guarda del cinema italiano contemporaneo?

Non ne vedo tanto. Amo Sorrentino. E Ferzan Ozpetek, che mi piace molto. Siamo stati in giuria assieme a Chicago, ci siamo molti divertiti.

Lei ha girato tre film italiani…

Si. Ho lavorato con Stefania Sandrelli, Valeria Golino, Carla Gravina. E con le fantastiche maestranze italiane, così piene di entusiasmo e creatività.

Il suo prossimo film?

Una commedia, la versione al femminile di “Una strana coppia” con Walter Matthau e Jack Lemmon. Una delle due protagoniste sarà Katja Riemann, l’altra è ancora un segreto.

A chi rivela i suoi segreti?

A un diario, che scrivo rigorosamente a mano, su un taccuino, mentre bevo del vino o un caffè in un bar di Parigi, dove vivo praticamente da sempre. Tutti mi guardano. Hanno tablet, pc, telefonini e pensano: guarda questa come scrive…

Che ne pensa dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea? 

Non sono un’economista, posso solo dire che, malgrado tutto, una piccola utopia mi era rimasta:  l’idea di un’Europa unita, che cerca di fare le cose insieme per scongiurare un’altra guerra. Il nazionalismo cresce un po’ dappertutto: in Polonia, in Ungheria. E mi dà molta tristezza. Per anni noi tedeschi abbiamo lavorato come pazzi per dimenticare. Non sono stata nazista, ma come tedesca ho dovuto gestire, talvolta con fatica, il senso di colpa per quello che era successo. L’idea di un’Europa unita, baluardo dei popoli contro ogni conflitto, mi ha aiutata molto a conquistare un profondo senso di pace. Qualcosa che adesso non ho più.