28/2010
Photo: Redazione Ischiacity
Text: Peppino Brandi
Il profumo, nel contempo acre e dolce, della ceralacca squagliata nell’apposito pentolino era il mio naturale sonnifero, nelle sere che precedevano il Natale del secondo dopoguerra. Insieme a mio padre, ed ai fratelli più piccoli, trascorrevamo intere serate a costruire il Presepe ed a medicare i pastori feriti che alla fine mi apparivano come un esercito di combattenti e reduci. Gli zampognari erano autentici pastori, a volte della Ciociaria altre volte delle terre d’Abruzzo o di Calabria. Ed erano vestiti da autentici zampognari a cominciare dai calzari fatti di pelli di capra, dai pantalonacci di velluto scuro a coste spesse, alle camicie di ruvido fustagno ed al corpetto pure di velluto e, su tutto, l’ampio mantellaccio nero di calda e grezza lana; un cappello a tesa larga a volte ingentilito da qualche penna di corvo completava la “mise”. Non erano invasivi, essendo amanti della riservatezza, segno di una cultura del rispetto degli altri, e non erano frugali nel suonare la nenia natalizia, limitandosi, come quelli di oggi al solo ritornello, ma, invece, la eseguivano per intero davanti a noi “piccirilli” ed al Presepe, muto testimone di quegli attimi di felicità. E poi, il mezzo bicchiere di rosso che dava loro quello “spread” per riprendere la marcia e continuare a rendere felici tanti altri piccoli. Ma quello era anche il tempo dei racconti del vecchio nonno “Giuseppe e’ paglialonga”, pescatore a riposo, e dei cugini della zona detta del “sudaturo” per via delle fumarole di caldo secco che fuoriuscivano dalla parracine e dagli antri e dalle grotte dove, beate loro, riposavano le bestie. Molti anni dopo, leggendo le novelle de “Lu cunto de li cunti” o meglio “de lo trattenimento de’ piccirille” mi resi conto che mio nonno attingeva, a sua insaputa, alla tradizione orale del favolismo secentesco. Anzi, devo dire che più che favole quelle del nonno erano fiabe, sempre nuove o rinnovate nel racconto, nelle quali si muovevano come protagonisti in maniera del tutto indifferente uomini e animali, reali od immaginari, fate ed orchi, draghi e streghe e su tutti il “munaciello”, del quale non bisognava svelare le sembianze altrimenti ci saremmo attirati addosso le malattie. Intorno al braciere acceso e nella luce incerta di un lume a petrolio, il nonno ci teneva per ore ed ore incantati nel racconto. E quando chiedevamo al nonno chi fosse realmente questo “munaciello” ci veniva risposto che si trattava di un bambino “scartellato”, figlio di Caterinella, e per questa sua deformità portatore di bene, ma, se fatto arrabbiare capace di molti dispetti. Era uno spirito simpatico che non disdegnava di apprezzare le belle fattezze femminili con qualche palpeggiamento. Le suore del convento dove fu allevato gli cucirono addosso una mantellina di monaco per mascherare la sua deformità e dopo la sua prematura morte il “munaciello” era diventato uno spirito benigno, amico e consolatore. “E adesso per consolare il nonno andate a comprargli una sigaretta”, una corsa dal tabaccaio e con una lira portavamo al nonno l’agognata “alfa”, una sigaretta fetida, fatta del peggior tabacco, che gli avrebbe abbassato di mezzo-tono la voce. Altre volte, per rendere la voce meno gracchiante, il nonno ci chiedeva di portargli un paio di “sarache” che, condite con aglio e peperoncino, lo avrebbero tirato su, complice anche un buon bicchiere di vino. Le aringhe, il nonno questo non lo sapeva, con l’alto contenuto di omega 3 oltre a tirarlo su gli avrebbe anche allungato la vita, ed, infatti, se ne andò ultranovantenne. Quel tempo natalizio era collegato a castagne peste, fave arruscate e, confesso, anche a “sciuscelle” trafugate nella bottega di “Ciccio e’ stanziola”, consumate avidamente e di nascosto. E poi a tavola il pranzo di Natale, proprio come da tradizione. La nonna era la depositaria dell’antica ricetta: ‘menesta de cicoria, velluto ‘mmescato, capone a lo tiano, ‘nteriora de pulle ‘mpasticcio, puorc ‘nsiviero, arrusto e puorc ‘e Surriento, ‘nsalata ‘e cavulisciure, jancomagnà’. ‘U puorc ‘nsiviero’ era il maiale in agrodolce tagliato a pezzetti, soffritto con sugna e bagnato con vino rosso e poi amalgamato con la ‘concia’ fatta di mustacciuolo pestato, grani di garofano e cannella, cedro tritato, zucchero e poco aceto, si bolliva il tutto, si assaggiava per correggere eventuali prevalenze poi, fatto denso, si serviva. Lo ‘jancomagnà’ altro non era che latte mischiato a zucchero, rossi d’uovo, farina di riso, acqua e buccia di limone, messo a bollire girando in continuo e sempre dallo stesso lato con una ‘cucchiarella’ di legno; si serviva freddo con un’infiorata di cannella. E poi, il giro per le case dietro Don Ubaldo per il bacio del bambino, e la Chiesa di San Giorgio che troneggiava dalla sua posizione dominante sulla umile e nascosta Arciconfraternita di Santa Maria di Costantinopoli che, però, poteva vantarsi di essersi sistemata lungo la strada intitolata al Generale Giorgio Corafà. Per non dire delle funzioni religiose, con quel latino maccheronico e cantilenante che mi ritorna ancora nella mente. Mi ricordo, sì, mi ricordo del canto del “Tantum Ergo”, del “Salve Regina” e del “Gloria” ed anche della difficoltà quando, servendo la Messa, inciampavo nel “suscipiat”, dell’organo e dei mantici che nessuno voleva “tirare” perché si trattava di una prestazione faticosa e poco appariscente. Ma il Presepe della Congrega era una cosa che faceva stravede’. Certo, saliva un tanfo di chiuso quando si aprivano le casse che contenevano i pastori vestiti di stoffa, e le strutture lignee apparivano ogni anno più tarlate o ‘rosicate’ dai topi, ma i volti lucenti di quei pastori e le figure centrali del Presepe (Madonna, San Giuseppe e Bambinello) così intimi, serafici e pii facevano passare tutto il resto in secondo piano. E poi i Re Magi, ornati di vesti orientaleggianti che, invece che a cavallo od a piedi, pervenivano alla grotta in groppa ai cammelli ingualdrappati, sbrigliavano la fantasia dei fedeli che si accapigliavano, anche perché erano anni che si dibatteva sulla loro identità. Ancora oggi si discute nella Congrega testaccese chi fosse Gaspare, chi Melchiorre e chi Baldassarre. E poi, finalmente, l’Epifania, “ultimo dei 12 giorni di Natale”. Una notte insonne nel tentativo di vedere la Befana. La calza, le leccornie, il carbone, le cipolle e, poi, la mattina il confronto tra i vari doni ricevuti. E scoprivi che l’attesa della Befana aveva più sapore dell’arrivo. Che la fantasia appagava più della realtà e che la fiaba andava preferita alla favola che con la sua chiusura morale (morale della favola) ti teneva legato alla terra, mentre la fiaba ti portava nell’irrealtà di quel mondo, dove tutto era possibile…