Ho deciso di iniziare il mio viaggio nella ristorazione isolana facendo un giro tra i ristoranti che annovero alla voce “caratteristici”. Di che si tratta? Di un connubio tra ambiente e tipicità del cibo. Sono, infatti, convinto che la ristorazione isolana pecchi proprio in questo: l’ambiente! Se fossi un ispettore di guide blasonate ne boccerei molti (moltissimi) per la sciatteria con la quale – specie ad Ischia – si cura l’accoglienza, l’arredamento, lo stile, per dirla in una parola: “il carattere del locale”. Si prenda, ad esempio, la Riva Destra: ad eccezione della Taverna Antonio, di Raimondo Triolo col suo Un attimo divino e di Roberto Vano con l’Osteria del porco nessuno – accidenti, proprio nessuno! – ha provato a curare lo spiritus loci del proprio ambiente. E questo, naturalmente, non è un bene! Ecco allora che decido di iniziare le mie riflessioni sul mondo dell’enogastronomia isolana proprio partendo da questa considerazione: quando c’è, santiddio, esaltiamo l’anima di un luogo! Ad essa si accompagnerà tutto quel can can di emozioni (positive ed… evocative) che legano la memoria (e la nostalgia) al gusto. Pensateci: a Natale quando entrate in un supermercato – specie nel reparto panettoni, vini e spumanti – vi martella (neppure tanto discretamente) una musica con il refrain di Jingle Bell, Bianco Natal, Merry Christmas e similari. Presso le grandi catene di distribuzione sanno bene come far leva sul vostro subconscio per farvi comprare qualche bottiglia di prosecco in più! Ed allora, perché non raccontare la (bella) storia di quest’isola attraverso gli spazi in cui si va a mangiare? La storia di Ischia per secoli è stata sinonimo di coltivazione delle terre, umiltà, lavoro duro, botti, odore di mosto, giornate infuocate a zappare, mattinate di ottobre a far vendemmia, cantine muschiate utilizzate per conservare fichi, carne di porco, patate o appendere ‘piennoli’; eppoi notti gelide a calar le reti, piccoli legni a solcare le tenebre del golfo pescoso ma anche violento, ‘cucchiarelle’ di legno a rigirare il ragù e… cocci di umile terracotta a cullare il coniglio. Profumatissimo. Questa è Ischia. O meglio questa fu Ischia. Ed io vorrei che un tale passato ridiventi presente, attraverso la memoria, il rispetto, la cultura. Una cultura che alcuni ristoratori, con semplicità o con artifizio, hanno legato al proprio locale, vediamo quali.
Iniziamo da La Vigna di Alberto, a Fiajano, dove il navigatissimo Ciccio (Francesco) Di Scala d’estate vi accoglie sotto un piacevolissimo e (assai) evocativo – ai limiti del teatrale – pergolato e d’inverno vi ospita nell’antica bottaia del nonno Alberto. Ciccio ha grande consuetudine con la cucina e non starò a raccontarvi tutta la sua (lunga) storia; vi basti sapere che sa come “arruffianarsi” (nel senso migliore del termine!) gli ospiti. La sua cucina è basica, semplicissima, economica e molto saziante. Vi offrirà antipasti come mozzarella di bufala con extravergine e peperoncino, scapece di zucchine, zucca arrostita, bruschette; pasta e patate con la provola, risotti al radicchio o con gamberetti, o con provola e salmone, e ancora ‘purpetielli’ affogati, salsicce e friarielli. In genere, gli ospiti si alzano dalle sue tavole satolli, contenti e nient’affatto grassati nella tasca. Una sola avvertenza: se amate bere qualcosa di speciale… portatevi la bottiglia da casa. Ciccio non si offenderà e voi sarete sicuri di non bere l’aceto che prova (unica pecca!) ad ‘ammollarvi’!
Non troppo lontano dalla Vigna di Alberto, sempre nel comune di Barano d’Ischia immerso nel fresco bosco del Cretajo c’è Il Focolare, una sorta di ristorante fazenda voluto fortissimamente da Riccardo e Loretta D’Ambra e condiviso con passione dai loro – ben! – 8 figliuoli. In ciò, i miei due vecchi amici sono stati assai bravi: hanno avuto la capacità – caratteristica di derivazione tipicamente contadina che ammiro molto in alcune vecchie famiglie isolane – di tenere unita la famiglia intorno a valori condivisi (in questo caso il mangiare di tradizione). Devo dirlo, certe volte Riccardo ci va giù pesante e deborda (sempre con compiaciuta, crudele consapevolezza) nei suoi racconti delle tradizioni passate… ma – diomio – quanta scuola nelle sue parole, ed in quelle di Silvia, la primogenita (laureata in agraria), che insieme a Luciana, Mariateresa, Laura, Antonella e Cristiana controlla il buon andamento nella grande sala o nella ancora più grande terrazza. Agostino, uno dei due figli maschi, è lo chef e vi preparerà delle semplici ma deliziose entreés a base di spaghetti fritti, grissini fatti in casa, hamburger di ceci, frittelline, vegetali, rigorosamente della loro terra, conservati sott’olio, salumi e caciottine, assaggi di parmigiana di melanzane. Come primo piatto sedanini di pasta fresca conditi con una salsa alle erbe selvatiche o una lasagna farcita con salsicce e friarielli (zucca o carciofi, a secondo della stagione); immancabili, poi, i pezzi di chianina succosa e saporita che arriva a tavola su una rovente pietra ollare, accompagnata da patate tagliate a mano e cucinate come facevano i nonni, o il coccio di autentico coniglio da fossa all’ischitana. E per finire una appagante crema catalana o sformatini alla frutta. Ma se i D’Ambra sono stati tra i primi a specializzarsi in tagli di carni pregiate sono – sicuramente! – anche i primi a difendere in tutto e per tutto i valori dello Slow Food, spendendosi in ogni modo per diffonderne la filosofia e l’immenso valore. A loro si deve la battaglia per la valorizzazione del coniglio da fossa, il recupero del fagiolo zampognaro e altre piccole (o grandi dipende dalla prospettiva!) imprese che hanno fatto di Ischia un luogo dove la tradizione è autenticamente protetta.
Dal Focolare ci spostiamo sull’altro versante dell’isola, precisamente a Serrara Fontana, dove inerpicandosi all’altezza della località Pantano, poco prima dei Frassitelli si trova la piacevolissima terrazza del Bracconiere: una taverna-ristorante assai rinomata e immutabile nella sua tradizione, il coniglio innanzitutto, ma forse, prima ancora di questo… la caccia! Già, perché i proprietari di questo accogliente (e squisito) ristorante sono i fratelli Di Meglio, Franca ai fornelli e Michele e lui è un cacciatore che segue a tal punto la sua passione da chiudere nel periodo autunno-inverno pur di avere il tempo per dedicarsi al grande Amore. Da loro troverete piatti tanto gradevoli quanto semplici: la pasta e patate servita nella pagnotta (cafona) svuotata, le pappardelle al coniglio (profumato al basilico) o al ragù di cinghiale, o ancora condite con una salsa a base di fave, varie frittatine e verdure di stagione cotte nei modi più disparati come antipasti, naturalmente un vasto assortimento di carni alla brace e l’imperdibile coniglio cotto nella pignatta di creta. Per concludere, una proibitiva serie di dolci fatti in casa. Insomma, se siete a dieta, non è il posto per voi… Quindi direi di provare a far visita alla bella e freschissima terrazza della cantina Pietratorcia sulla strada fra Forio e Panza, dove Vito Verde e la moglie Rossana Foglia vi accolgono con un bel libro tra le mani ed una buona bottiglia di vino lavorato nella cantina (dalla quale prende il nome l’omonima casa vinicola fondata insieme a Franco Iacono). Fino all’anno scorso la cucina era animata da Libera Iovine – la seconda donna a prendere una stella Michelin in Italia! Adesso la chef s’è spostata a Roma, ma la sua eredità è tutta nelle mani di questi garbatissimi cantinieri: da loro il coniglio si cuoce con la cipolla e non con l’aglio, ed è possibile intraprendere percorsi di carne o di pesce, elemento sempre presente l’orto e che comprendevano (almeno fin quando c’è stata Libera), zuppa di pesce su crostoni di pane, freschissimi crudi di pesce accompagnati con frutta, parmigiana di carciofi, anche bianca con l’aggiunta di piselli, gnocchi con cozze e fagiolini, vermicelli Gerardo di Nola con pescato, noci e bottarga, pescato sfilettato in guazzetto e profumato al limone, tortino al cioccolato e caffè… Restando nei confini di Forio, in via Bocca, percorrendo una strada in ripida salita si giunge al famoso Peppina di Renato, un bel casolare trasformato in ristorante con una magnifica veduta a volo d’uccello, in particolare sulla baia di Citara, anche qui tavole montate su antiche pedaliere di cucitrici meccaniche e divanetti ricavati da spalliere di letti nuziali. Vi travolgeranno con un trionfo di assaggini figli della cucina napoletana: mozzarelline ripiene, bruschette con svariate coperture (fagioli, salsiccia, funghi…), formaggi, frittate, pizzette, fiorilli imbottiti; primi consistenti, dalla zuppa di fagioli alle tagliatelle ai porcini ai ravioli farciti; e dopo la ricca brace il caffè lo servono in una vecchia ‘caccavella’ che avrebbe fatto felice Eduardo De Filippo.
Percorrendo la strada di collegamento a mezza costa tra Forio e Lacco Ameno – la Borbonica – si incontrano due ristoranti assai diversi tra loro, entrambi meritevoli di un’affamata visita. Il primo è il Vecchio Capannaccio, un fresco e piacevole pergolato fuori e un’accogliente e calda sala interna. Spettacolare, per chi ama i dettagli (di non poco conto) è il pavimento antico in cotto. Conservato con coscienza a dispetto del tempo che passa. Giancarmine Verde e Carlo Mattera sanno il fatto loro. Non è un caso che il locale sia frequentatissimo, amato (molto) dai residenti e visitato in gran numero dagli ospiti stranieri. Gli hanno dato un’impostazione precisa, puntando sui sapori di terra: ricchi taglieri con affettati, ricottine, parmigiana di melanzana, verdure di stagione; segue una vasta scelta di primi come gli gnocchi con porcini, taleggio e polpa di coniglio o i paccheri con scamorza, melanzane e salsiccia, sulla brace a vista cuociono a puntino differenti tagli di carne, e per un secondo alternativo c’è anche una ricca carta di scamorze. Lavorano bene, però, anche il pesce, quello umile del pescato locale e un superbo baccalà. Più avanti, in direzione di Lacco Ameno, invece vi aspetta, in una grande cantina di tufo, A’ Cucin ro’ core, che in primavera ed estate offre anche una fresca corte esterna ombreggiata da alberi di limoni. Un tempo (con un altro nome) era un locale molto spartano, sempre ottimo ma organizzato con semplicità trappista; oggi Rosaria Sortini, che ne è la chef master, coadiuvata in sala dal compagno Gianluca, maître, lo ha portato a vette decisamente alte della più autentica, attenta e delicatissima tradizione partenopea, con i suoi sformatini di verze o la parmigiana di melanzane con il baccalà, ingrediente molto amato dalla chef che lo usa anche nella farcia dei ravioli di sottilissima pasta fresca, gli ziti spezzati con la genovese. Il pesce è presente con cotture tradizionali (al sale, all’acqua pazza, al forno), ma anche con tartare e crudi. Altra trattoria d’atmosfera (e un po’ teatrale) è Casa Colonica, diretta da Jack (Gioacchino) Monti, che si trova nella cinta muraria del ducato di Paolo Fulceri Camerini (la zona è conosciuta dal popolo come Parco Termale del Negombo, in località San Montano). Camerini resta l’ultimo feudatario di uno spicchio di mondo (bellissimo) che – volutamente – ha distaccato da tutto il resto dell’isola. In questo modo il Duca s’è assicurato la perfetta organizzazione e manutenzione del luogo. Non starò a parlare dell’interessantissimo parco termale perché è di cibo che ci dobbiamo occupare: vi dirò che Jack, come molti ristoratori con il senso dell’arte e una certa capacità di affabulare, gestisce l’accoglienza un po’ come se fosse una sorta di commedia dell’arte in cui, tra un sauté di cozze ed un ‘cuppetiello’ di frittura di ‘aluzze fresche-fresche’ (alici), tra un ‘fiorillo’ e una scodella di ‘pasta e patane’ (magari servita nella ‘caccavella’), tra un totano ‘mbuttunato’ (farcito) ed una parmigiana di zucchine, vi fa ‘arrecreare’ (rigenerare nel gusto e… nel divertimento). L’ambiente è quello citato nel nome: sembra di trovarsi nel tinello o nel giardino di una casa colonica.
Non troppo distante dalla baia del Negombo e restando sempre nel comune di Lacco Ameno, lungo il corso Angelo Rizzoli c’è La Cantina del Mare. Si tratta di una graziosa, calda locanda: alle pareti scaffali con file di bottiglie di vino, sui tavoli le tovaglie quadrettate e nei coloratissimi piatti di creta dipinti a mano, Pierpaolo Iovinelli serve pietanze cucinate personalmente, lavorate sulla spesa del giorno: pesci innanzitutto, polpo, frutti di mare che lo chef cucina con navigata esperienza abbinandoli a crostoni di pane cafone o utilizzando il sugo di cottura quale condimento di paste fresche. Squisite le linguine ai frutti di mare o con ‘polpetielli’ affogati; Pierpaolo, poi, ama cucinare il coniglio secondo la tradizione che lo vuole soffritto con l’aglio vestito (non spellato), sfumato al vino e accostato a qualche bel pomodorino di ‘piennulo’. Il posto è frequentato da persone che prediligono il cibo conviviale e soprattutto da donne ipnotizzate dalla seduttività del padrone di casa… quest’ultimo assolutamente consapevole che a tavola nascono i Grandi Amori!
Chi cerca una situazione più cool, ma al tempo stesso caratteristica, può andare nel pittoresco e romanticissimo borgo di Sant’Angelo, da colui che di Jack per molti anni è stato il maestro ed il mentore: Carlo Iacono detto il Pirata (qualcuno sospetta che l’appellativo si riferisca al conto che, infine, vi toccherà pagare). Alla Taverna del pirata, affacciata sul piccolo porto, ci si siede ai tavoli di legno massiccio e si assaporano caciotte macerate in un letto di cipolle e affogate nell’olio extravergine, si mangia pasta condita con frutti di mare, gamberi, astici, mazzancolle e pesci pregiati, seduti nelle poltrone di vimini ad ascoltare la musica del mitico Fred Bongusto che un tempo a Sant’Angelo ci abitava. Di tutt’altro genere, e dall’altro versante dell’isola, precisamente ad Ischia Porto, presso la Rive Droite, c’è Un Attimo divino, il ristorantino di Raimondo Triolo, siciliano doc come la sua cucina armonizzata sui sentori di pistacchi, mandorle, noce moscata, chiodo di garofano e rimandi alle contaminazioni del nord Africa. La scelta delle portate non è ampia, ma tutto è freschissimo e cucinato al momento. S’inizia con semplicissimi pezzetti di pane cafone (di Boccia, una panetteria mitica di Ischia Ponte) inzuppati in raffinato olio extravergine siciliano con un nulla di origano, poi Raimondo prepara carpacci di pesce crudo accompagnato da gamberi marinati nel limone, e serviti in compagnia di monumentali bruschette ricoperte da pomodorini ciliegino, profumate, fresche, gustosissime. Quindi pezzogne al forno avvolte in sottili veli di patate, o pesci cucinati al forno o in padella, completati da bisque o brodi di pesce molto addensati, preparati con infinita pazienza in ore ed ore di sobbollimenti in grandi pentole dove avviene la riduzione. Se poi siete fortunati, e Raimondo ha in cucina della ricotta di pecora, allora potete sperare in un autentico cannolo (anche sbriciolato) alla siciliana o in una golosa (io ci vado pazzo) fetta di torta alla ricotta e pistacchi, infine da non perdere il semifreddo al torroncino. Questo di Raimondo è un locale atipico, perché in parte è un’enoteca (alle cui pareti troverete una scelta assai ampia di etichette pregiate e non) e in parte è un bistrot di intrattenimento, dove l’anfitrione ama invitare musicisti e artisti che accompagnano con garbo le serate dei suoi ospiti. Infine, per chi vuole la cucina da vecchia (ed autentica) locanda del mare, vale la pena di far visita – ad Ischia Ponte – allo storico Da Ciccio, a tutti noto come “Ciccio di Bubessa” – il soprannome, il vecchio Francesco lo deve al modo in cui nel passato di marinaio preparava la zuppa di pesce, secondo quanto aveva appreso nel suo peregrinare tra i porti francesi. La zuppa, che da quelle parti sanno fare egregiamente, si chiama “bouillabaisse” ed in dialetto ischitano è diventato “bubessa”! Uno dei figli di Ciccio Buono, Guido sta ai fornelli, l’altro Carletto serve in sala: vi prepareranno frittelline di alghe, alici marinate, insalata di polpo, impepata di cozze, linguine ai frutti di mare (con ‘impruscinata’ di rughetta), eppoi pezzogna all’acqua pazza, pesce spada ai ferri, tranci di pesce bandiera con pomodorini, insomma quello che appena pochi metri più avanti, la mattina i pescatori vendono al vostro locandiere. Si tratta di un ristorantino assai umile ma gustoso e legatissimo alle tradizioni: se è la schietta semplicità che cercate è il posto giusto per essere felici.