Thursday, November 21, 2024

Interview_ Riccardo Sepe Visconti  Photo_ICity Agency e Archivio Fondazione San Gennaro

Nel risorgimento del Rione Sanità, uno dei più difficili di Napoli, nel cuore della Città ma in realtà molto isolato dal resto del centro storico, impressiona la capacità di visione e, successivamente, di pianificazione del lavoro, che emerge dalle parole dei suoi protagonisti, in primo luogo il parroco di S. Maria della Sanità, don Antonio Loffredo. E’ lui che, da quasi 20 anni, muovendosi in ambiti all’apparenza molto diversi fra loro, persegue un unico obiettivo, cambiare vite che apparivano già decise: evasione scolastica fortissima, disoccupazione certa e la tentazione quotidiana di varcare la soglia, arruolandosi nella malavita. Lo strumento scelto da padre Loffredo è il lavoro, ma come creare lavoro in un luogo come la Sanità, che porta i segni di una bellezza antica, decaduta, soprattutto dimenticata? Puntando proprio su quella bellezza. Quella dei luoghi, delle catacombe, delle chiese e dei palazzi barocchi, delle strade e dei murales: tutto questo è diventato volano di occupazione, di stipendi guadagnati nella legalità. Una cosa eccezionale in un quartiere dove si continua a sparare e a spacciare e dove, però, contemporaneamente crescono giovani uomini e donne che hanno altre aspirazioni, perché c’è chi gli ha fatto vedere che si possono avere diverse aspirazioni. Il racconto di tutto questo lo trovate nell’intervista a don Antonio e nelle tante, straordinarie realtà nate alla Sanità, dall’orchestra Sanitansamble alla palestra per la boxe, al teatro al doposcuola della casa dei Cristallini, al gruppo di donne del quartiere che ha fondato un catering alla cooperativa specializzata in lavori di illuminazione e manutenzione alla cooperativa La Paranza, che gestisce il più evidente fra i tanti successi figli di una lungimiranza rara, le Catacombe di S. Gennaro e S. Gaudioso, passate da 8mila a 130mila visitatori con circa 50 dipendenti fra diretti e indiretti.

Come è nata l’idea che l’ha condotta a progettare il risorgimento del quartiere Sanità?

Quando arrivo alla Sanità nel 2001 trovo già una profezia, l’intuizione del mio predecessore di vedere me al suo posto e quella di capire che il passato può guarire il futuro. Ai pochi ragazzi che erano intorno a lui padre Giuseppe (Ndr. Don Giuseppe Rassello) ha sempre insegnato che il passato poteva essere una solida base per il futuro. Ecco, ho lavorato su questa sua grande illuminazione.

Mi racconti il rapporto che ha con il parroco che l’ha preceduto, padre Rassello. Fu travolto da una gravissima accusa di pedofilia per la quale venne processato e condannato; e, tuttavia, il popolo del Rione è ancora molto legato a lui e lo considera vittima di una macchinazione.

Quella di padre Giuseppe è una memoria che io ed il quartiere difendiamo a oltranza. Ciò che gli è accaduto è complesso, si ascrive ad un preciso momento storico (Ndr. I fatti si svolgono agli inizi degli anni ‘90), a dei problemi che ha avuto con persone del quartiere ed è di difficile analisi. Ma nulla toglie a ciò che lui fece e io vivo della sua eredità. Quando fui destinato al quartiere Sanità, dissi subito che ero in un luogo dove un martire aveva già seminato, lì c’era il suo sangue ed ero pronto a raccogliere i frutti ed i fiori che sarebbero germogliati. Ero cosciente che ciò che andavo a fare era facilitato dal grande dolore di Peppe e che i suoi semi avrebbero dato frutti. Sono arrivato al Rione per grazia di Dio, ricevendo maggior credito dal Padreterno per affrontare la situazione perché lui aveva pagato duramente prima di me.

Dietro la scelta di mandare proprio lei alla Sanità ci fu da parte dei suoi superiori un disegno preciso, una strategia?

Bruno Forte, teologo, oggi arcivescovo a Chieti, quando iniziò la vicenda di Peppe si schierò dalla sua parte e mi spinse molto a prenderne l’eredità. Ma la verità è che stavo per lasciare la mia precedente parrocchia e per la nuova destinazione si era pensato ad una realtà piccola, dove potessi fare meno danni possibile…! Poi tutto cambiò in una giornata: la mattina fui nominato in una chiesa tranquilla, il pomeriggio il cardinale Giordano mi chiama atterrito perché il parroco della Sanità (non padre Giuseppe, un altro) aveva lasciato l’abito per amore di una donna. Sull’onda di questa emergenza andai alla Sanità: insomma non sono stato spinto da una logica di pianificazione… Piuttosto direttamente dallo Spirito Santo!

Quali furono i primi passi che fece come parroco?

C’era una Via pastorale chiara da percorrere tracciata dal mio predecessore, ho trovato i suoi scritti in cui ne parlava. Mi sentivo molto responsabilizzato da questa consegna di dare piedi ad un pensiero. Per prima cosa ho dovuto conoscere benissimo tutto il passato in ogni dettaglio, capire cosa c’era in questo quartiere di tanto importante. Poi ho dovuto far innamorare chi ci abitava di questo patrimonio e di questo sogno, in modo che in loro nascesse il medesimo bisogno che per me è stato facile recepire da chi lo aveva già capito. Stare alla Sanità, coglierne le potenzialità e vedere l’estrema condizione di necessità in cui si trovava, ti porta a dire inevitabilmente “Diamoci da fare”. Il punto è che l’analisi la sappiamo fare tutti, e quando le cose non vanno siamo sempre sdegnati, ma si voleva anche il secondo figlio della speranza: il coraggio di cambiare. E i ragazzi del quartiere hanno dimostrato di essere d’accordo.

Parliamo del ruolo che hanno giocato i giovani della Sanità e come ha lavorato con loro nei primi anni.

Quando ho capito che dovevo agire attraverso un lievito, mi sono concentrato su questi che all’epoca erano degli adolescenti e in una condizione particolare di cui si deve sempre tener conto: loro capiscono subito ciò che riguarda la vita pratica, quindi per coinvolgerli non si può parlare teoricamente di cosa si può o non si può fare, si deve agire. Questa è la Napoli che Ermanno Rea definisce “al quadrato”, è fatta di gente passionale, che comunica con il corpo, vuole essere più commossa che convinta, ha bisogno di strumenti diversi per crescere. Qui si cresce sulla via della folgorazione, quella che conduce direttamente nella pelle, nella carne – solo dopo viene la testa. Ecco, questo è il limite che li porta ad avere difficoltà con la scuola, comprendono tutto ma devono essere immersi nella situazione. E la pratica l’abbiamo fatta viaggiando. Per far capire ai ragazzi cosa vuol dire “fare turismo”, cosa è possibile realizzare, li ho portati a Barcellona, Berlino, Parigi, in Israele, a vedere il mondo. In modo che toccassero con mano come il loro mondo sarebbe potuto cambiare. Così è scattato quel meccanismo che gli ha fatto dire: “Noi possiamo avere di più” e la chiave per avere di più era impadronirsi del passato.

Al principio del libro “Noi del rione Sanità” (ed. Mondadori) in cui racconta la storia del percorso compiuto nel quartiere, lei pone una sorta di lettera postuma a suo padre: è stato il modo per fare un bilancio del rapporto che ha avuto con lui?

Quelle pagine sono una risposta a quanti mi affibbiano l’etichetta di imprenditore assegnando a questa parola un senso negativo. Volevo far capire che avere la dote di saper trasformare le cose in beni e servizi non è un disvalore in sé. Purtroppo negli ultimi anni la figura dell’imprenditore è presa di mira come qualcosa di deleterio, ma si deve distinguere fra imprenditore e prenditore. Con quelle pagine su mio padre, che era un imprenditore, ho voluto dire che forse ho in me geneticamente quelle doti. La sfida con mio padre – con il quale ebbi davvero molte difficoltà, poiché era assolutamente contrario alla mia decisione di diventare prete – c’è sicuramente. Gli ho dato una grande delusione e quelle parole sono un omaggio a lui, volevo dirgli che alla fin fine non ero andato lontano da ciò che aveva desiderato per me. Nella mia vita c’è l’economia circolare come c’è stata nella sua – solo con modalità diverse.

Definisce la gente della Sanità laboriosa, e forse oggi questa laboriosità si indirizza verso un obiettivo diverso da quello di un tempo. Siete riusciti, infatti, ad avviare un circuito turistico in un quartiere dove si continua a sparare, in un luogo che aveva (e in parte ha tuttora) una pessima reputazione: questa opera di costruzione realizzata andando controcorrente ha una profondità ben diversa da quella che sta dietro alla creazione di una normale località turistica. Fin dal primo momento l’obiettivo è stato quello di rendere la Sanità un luogo turisticamente di successo?

Per noi era chiaro un concetto che deve precedere l’idea di fare turismo, cioè la necessità di avere una comunità che accoglie, come prete non ho fatto altro che stimolare la crescita del quartiere e del capitale umano. L’attenzione a mettere in rapporto le parrocchie e il terzo settore con i negozianti è frutto della preoccupazione di far crescere tutto il territorio insieme, altrimenti si generano situazioni di disparità e anche il turismo nascerà in maniera non sana. Sapevo che il turismo avrebbe guarito certe piaghe, ma la missione non era soltanto far venire visitatori da fuori, era soprattutto far crescere il popolo che li avrebbe ricevuti. Perciò, la grande fatica del nostro progetto non è data unicamente dalla realizzazione del sito delle Catacombe e dalle attività che vi svolgiamo, c’è il lavoro per la musica, il teatro, i restauri, lo studio di registrazione, la danza…

Sono idee nate tutte insieme?

Nella sostanza sì, rientravano tutte sotto il comune denominatore della bellezza. Certo, la razionalità mi portava a dire che era una via troppo audace… Alla fine è stato magnifico capire che era la strada privilegiata. Aprire le case di accoglienza per i bambini, creare i doposcuola dove potessero trascorrere bene del tempo è stata la ragione primaria del mio agire, perché se non si opera per cambiare le persone è inutile far “subire” loro il turismo, per quanto sia ricchezza è una ricchezza calata dall’alto e non prodotta dalle persone stesse. E io che conoscevo bene l’impermeabilità del territorio su cui andavamo ad operare (ci hanno messo due anni ad esaminare ed accettare me che sono un parroco!), sapevo che se non si fosse lavorato in primo luogo con la gente sarebbe stato difficile rendere la Sanità un luogo adatto ad ospitare chi viene a visitarci da fuori. La cultura di introversione che si era sviluppata nel quartiere a causa del suo isolamento fisico (Ndr. Causato dalla realizzazione del ponte, costruito nell’800 dopo l’edificazione della reggia di Capodimonte, per collegare più agevolmente il centro della Città con la dimora reale e che ha di fatto scavalcato la zona della Sanità isolandola dal resto del centro storico) andava vinta, i ragazzi della Sanità avevano il ghetto in primo luogo nella testa più ancora che nella fisicità del quartiere e lo riproducevano nei rapporti. Il turismo è un mezzo, non il fine ultimo, che in realtà è rompere il ghetto. Quindi era sì importante aprire il quartiere, ma contemporaneamente andavano aperte le teste della gente. E questo si fa educandole attraverso la cultura, la musica, la danza, il cinema, avendo come strumento la bellezza che queste arti portano con sé.

Mi sono convinto che S. Gennaro abbia un ruolo fondamentale in tutto questo, sia una sorta di nume tutelare: il fatto che quelle siano le Catacombe in cui S. Gennaro riposò le rende diverse da tutte le altre, il Santo è un “brand” conosciuto in tutto il mondo e che attira moltissimo. Condivide questa lettura?

S. Gennaro è un genius loci di questo territorio; rileggendo le vicende che negli ultimi 2000 anni hanno avuto come protagonista l’area in cui ci fu la sua tomba, viene fuori che essa è sempre stata generativa. Prima si cavava il tufo, poi ci hanno sepolto i morti; è seguito un periodo di oblio che è coinciso proprio con il furto delle spoglie di S. Gennaro nel IX sec. d.C. – mentre fino a quel momento tutta la città si recava lì per venerare il suo Santo, creando un meccanismo di scambio, di rapporti che è linfa. Che riprende a scorrere quando alla Sanità nascono i monasteri, mentre in quelle grotte, un tempo la gente lavorava le olive, la pelle, facevano i ‘tronari’ (fonderie di metalli), insomma ricavavano frutti dalla ‘città di sotto’ – che è enorme. E oggi i ragazzi della cooperativa La Paranza da quella tomba sono partiti e la tomba dà delle risposte al rione Sanità: insomma, dopo gli ultimi due secoli di chiusura che hanno reso il quartiere quello che è adesso, abbiamo la medesima azione di ripartenza, di rigenerazione, come se S. Gennaro ogni volta che si va giù ci riporta su. E’ come se ogni volta S. Gennaro dica “Mo vec’io (Me la vedo io)”! In duemila anni, infatti, ci sono stati tanti alti e bassi e sempre si è avuta la forza di riprendersi. Si pensi al periodo splendido del ‘600, quando da qui passavano i nobili per raggiungere bellissimi palazzi e meravigliose chiese: era un momento di apertura del quartiere che, anzi, veniva ‘aggredito’ dalla città che vi si recava per i miracoli della Madonna. E muoveva persone, creando cultura, relazioni e crescita. Le nostre sono le uniche catacombe che, pur essendo in origine fuori Città, adesso sono completamente nella Città, non hai la stessa sensazione se, per esempio, visiti S. Callisto, a Roma, dove le catacombe sono in campagna: lì sopra c’è un giardino, da noi c’è la vita. Abbiamo una stratificazione ininterrotta dall’epoca greca fino al tempo contemporaneo: non siamo Pompei o Ninive!

Insieme ai ragazzi e alla comunità del rione avete preso un posto che era “fottuto” e lo avete trasformato in una realtà interessantissima, ne avete svelato la bellezza. Ma secondo me la cosa più importante non è neppure questa, quanto il fatto che siate riusciti a metterlo a reddito, a far funzionare una realtà che era molto fragile, ferita. In tal modo, lei ha creato un modello potente, che fa paura, perché dà un segnale politico. E’ inevitabile, allora, assistendo alla querelle apertasi negli ultimi mesi, perché il Vaticano vuole nuovamente avocare a sé la gestione del sito delle Catacombe di S. Gennaro, pensare che ci siano state delle pressioni, che si voglia fermare questa crescita (Ndr. Alcuni mesi fa, in sede di rinnovo della convenzione fra la Diocesi di Napoli e la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, diretta dal cardinal Ravasi, per l’affidamento della gestione delle Catacombe di S. Gennaro e S. Gaudioso, oggetto del recupero da parte della cooperativa La Paranza, quest’ultima ha ricevuto dal Vaticano la richiesta di versare il 50% degli introiti, cresciuti moltissimo grazie alla nuova gestione – e con cui fra l’altro vengono pagati gli stipendi dei ragazzi che lavorano al progetto Catacombe. Tutto questo ha generato apprensione fra chi opera da anni alla Sanità e tensione con i vertici ecclesiastici romani, e con Ravasi in particolare).

Vedo le cose in modo più semplice. La nostra azione è ostacolata proprio da chi aveva la responsabilità di gestire la struttura e che – attenzione! – da noi non è stato combattuto, nel senso che non abbiamo detto loro “non siete stati capaci!”. Abbiamo lavorato in silenzio, proprio perché sapevano di poter dare fastidio, e quindi siamo stati attenti a non offendere chi ci ha preceduti. Siamo convinti che il territorio debba curare i suoi beni e la sussidiarietà sia un principio fondamentale, che consente di chiedere all’Ente superiore di intervenire quando le cose vanno male: alla Sanità si è creato il paradosso per cui l’Ente superiore che non si è mai interessato delle Catacombe lo fa ora che le cose vanno bene!

Da tempo sono convinto che dietro la riforma dei Beni Culturali promossa dall’ex ministro Dario Franceschini ci fosse un preciso disegno che mirava a potenziare l’appeal dell’Italia dal punto di vista turistico. Non avendo, infatti, a disposizione ingenti risorse da investire nella realizzazione di porti, aeroporti, stazioni ferroviarie, collegamenti, ecc., infrastrutture indispensabili per contribuire a rendere un territorio competitivo come meta di vacanze, egli ha scelto di puntare sulla risorsa costituita dal nostro patrimonio di bellezza. Ma conferendogli una nuova spinta, maggiore dinamicità e managerialità attraverso la riforma del settore che gestisce l’enorme patrimonio di monumenti, storia, cultura, dell’Italia. In questo modo, ha reso quest’ultima più attraente per milioni di turisti, fornendo una spinta propulsiva al settore dell’ospitalità e all’economia ad esso collegata. Cosa pensa di tutto questo?

All’inizio del cammino con i ragazzi ci dicevamo: alla Sanità mancano le infrastrutture, è inutile parlare di turismo, fermiamoci e aspettiamo che si creino le condizioni. Altri dicevano, invece: le condizioni non si creano se non si comincia a muoversi. Se pensa che quando sono partite le prime iniziative alle catacombe Napoli era sommersa dall’immondizia! Tuttavia abbiamo pensato: facciamo venire comunque la gente, la loro stessa presenza costringerà il Comune ad aprire gli occhi, a dare certi servizi. E’ possibile che la sua lettura della riforma Franceschini sia giusta, che il Ministro abbia ragionato come abbiamo fatto noi, agendo sulla leva del turismo anche se le infrastrutture non erano efficienti. Nell’idea che chi è deputato a dare servizi ed infrastrutture si sarebbe poi dovuto attivare. Per noi ha funzionato così: da quando sono aumentati i visitatori alla Sanità, il Municipio ha gestito meglio la spazzatura.

E’ possibile secondo lei riprodurre in un ambito più ampio della Sanità stessa il sistema che si sta costruendo nel Rione?

La cosa più importante, ciò che sta a monte di tutto quanto abbiamo messo in piedi alla Sanità consiste nell’aver trattato le catacombe come un bene comune, e i beni comuni sono di per sé rigenerativi del territorio. Fondamentale è individuare il bene, pensi al lavoro che nel Casertano si sta compiendo con la cooperativa Le terre di don Peppe Diana: sta nascendo un nuovo modo di fare agricoltura, reimpossessandosi di spazi oltraggiati. Il modello è il medesimo: lì la risorsa, il bene comune, è la campagna e poi i giovani. Questo incontro va fatto ogni volta, per noi l’obiettivo è sempre stato quello di legare il bene Catacombe e tutte le altre realtà monumentali del quartiere alla comunità, e al contempo far crescere la comunità per non creare delle storture.

In ciò che si è realizzato alla Sanità hanno avuto un ruolo determinante anche le sue capacità personali, il suo carisma…

Sicuramente, ma avere le mani libere sul piano giuridico è stato essenziale. Il mio ruolo di parroco mi ha permesso di prendere decisioni come se fossi un privato, pur avendo uno scopo di natura pubblica. Come parroco ho uno status particolare che mi viene dal perseguire fini di pubblico vantaggio essendo giuridicamente un ente privato: ciò mi dà una libertà di movimento che a un dirigente pubblico, a un assessore, manca, lui, infatti, è obbligato a passare per un bando di concorso, ha altri criteri di reclutamento. Il mio è la discrezionalità del parroco, e ciò mi ha consentito di individuare personalmente i miei ragazzi e, per esempio, per la cooperativa che realizza i lavori di manutenzione ho selezionato anche chi aveva problemi con la giustizia, e questo a un amministratore non è consentito. Il punto di forza del progetto Catacombe di S. Gennaro è che ho potuto far crescere dei soggetti per poi affidare loro direttamente la gestione di quanto creato, responsabilizzandoli al massimo – e anche questo un pubblico amministratore non può farlo. Ancora, la Corte dei Conti chiede ai Comuni di rendicontare i guadagni, io non ho questo problema: quando decido di destinare la casa canonica a spazio per l’orchestra dei bambini, invece di affittarla e ricavarne denaro da dare ai poveri, ho compiuto una scelta fra generatività e rendita e ho valutato che la generatività dei 90 giovani che suonano è superiore a qualsiasi cifra che potevo trarre dall’affitto di quel bene. Ma questa è una visione, un ragionamento in prospettiva. Per riuscire a realizzare qualcosa di simile con i beni in possesso dei laici, si deve iniziare a riflettere su come fare per non perdere i crismi della legalità e, al tempo stesso, dare spazio in primo luogo alle persone. Per tutte queste ragioni, la nostra è una condizione particolare, che non è facile trasformare in modello.

Qual è il prossimo step del progetto Sanità?

Consolidare quello che c’è per prepararci al passaggio di consegne, perché io dovrò andare via, adesso devono essere i ragazzi a prendere in mano le diverse situazioni per gestirle direttamente. Penso che siamo solo all’inizio rispetto a ciò che potenzialmente è realizzabile e per questo ci siamo dotati di uno strumento straordinario, la fondazione di comunità, che nelle piccole realtà può avere una grande forza. E’ il territorio che infrastruttura tutti i soggetti: se non ragionano insieme per lo stesso ambito persone che hanno culture differenti, i problemi non si risolvono. Avere una piattaforma nella quale sono presenti il pizzaiolo, il farmacista, il parroco e il terzo settore che si occupa dei bambini fotografa la concretezza e l’operatività del territorio. Ecco, tutto ciò va incentivato.

ICITY54

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