Text_ Silvia Buchner Photo_ Dayana Chiocca
Immaginate un lago attraversato dalla brezza e circondato da colline terrazzate a falanghina e piedirosso su cui gioca il sole, un rudere antico che sembra uscito dalla tavolozza di un paesaggista dell’800 e un bell’appezzamento di terreno, metteteci la passione di un giovane uomo, contadino per scelta con la consapevolezza dei tempi di oggi, tanto più forte perché ci troviamo in un luogo dove il fascino struggente convive con problemi figli di una crescita senza controllo. Da questo incontro nasce il Giardino dell’Orco, orto-frutteto interattivo sulle sponde del lago di Averno (uno dei suoi nomi in antico era Orco), e visitandolo, ascoltando le idee, gli obiettivi, le convinzioni di chi lo ha fondato si sente tutto l’attaccamento (contagioso) che tanti abitanti dei Campi Flegrei hanno per la loro terra. Ne amano la storia illustre (il mito colloca sulle rive dell’Averno l’ingresso dell’Ade, che varcò l’eroe Enea per scendere agli Inferi, mentre a due passi da qui, a Cuma i Greci stabilirono, provenendo da Ischia, una delle più potenti colonie della Magna Grecia), amano ciò che questa terra produce da sempre (solo per fare un paio di esempi, proprio di quest’area sarebbe originaria la mela annurca, ricordata già da Plinio il Vecchio nel suo trattato di storia naturale e a qualche chilometro da qui, a Monte di Procida si coltivano ancora le cicerchie, legume antico dal sapore a metà fra piselli e lenticchie). Ernesto Colutta – la sua famiglia gestisce uno dei due più conosciuti stabilimenti termali nella zona, Le Stufe di Nerone – da quattro anni dedica le sue energie a questo piccolo paradiso, che non è un semplice podere in cui produrre ottimi vegetali. La missione del Giardino dell’Orco è soddisfare “il bisogno di Natura” che ciascuno ha, facendo di questa realtà un luogo aperto a chi ha compreso che vivere in modo sostenibile l’ambiente rende più piacevole l’esistenza, e può costituire una ricchezza che, se opportunamente valorizzata e ben raccontata, può contribuire in modo sostanziale ad aumentare l’attrattività di un territorio come questo che sta lavorando su più fronti per proporsi come meta turistica. Per condividere questa visione della terra e, al tempo stesso, comunicarla agli altri, farla diventare “virale”, il Giardino dell’Orco si apre a realtà vicine, associazioni, artisti, contadini, artigiani, che vi organizzano corsi, laboratori, giornate tematiche. Questa costante, intelligente interazione consente al Giardino di offrire una rete di servizi dedicati a persone di ogni età, che si tratti di bambini o dei loro genitori, di scuole o di appassionati di coltivazioni o piuttosto di chi vuole trascorrere qualche ora nel verde organizzando un picnic. In questo modo, un luogo bellissimo diventa anche estremamente vivo e vissuto dalla gente, che se ne sentirà anche un po’ parte. E le attività sono tante e molto diverse: una ventina di ortisti ha preso in affitto un pezzo di terreno e vi coltivano il proprio campicello – “ognuno usa i suoi metodi, ma le discussioni con gli altri sono accese!” spiega Ernesto; ma con regolarità è possibile anche fare la spesa al Giardino, comprando prodotti sicuramente di stagione, secondo la disponibilità della terra. Periodicamente si tengono corsi, curati da esperti, dedicati a temi attinenti, dall’agricoltura biodinamica alla cucina naturale, alla realizzazione dell’orto sinergico, ma ci sono anche incontri con contadini professionisti. La fattoria didattica accoglie i più piccoli con giochi, esperienze pratiche, attività manuali, visita all’orto e all’ospedale delle galline (vi sono ospitate galline ovaiole di batteria sottratte alla morte cui vengono destinate dopo aver terminato il loro compito di produrre uova, e che qui hanno ripreso a camminare, beccare, produrre uova!), e c’è anche l’angolo delle arnie con le api: in questo modo, scuole e gruppi hanno a disposizione il contesto ideale per avvicinare i bambini al mondo della natura e degli animali, ma anche a temi che hanno assunto ormai un’importanza dichiarata come il riciclo dei rifiuti, il rapporto fra tecnologia e ambiente, il consumo consapevole. Ancora, per una piccola cifra (che comprende anche la fornitura di stoviglie e posate in materiale riciclabile e di carbonella per la brace), è possibile organizzare negli spazi attrezzati il proprio picnic. Ma i prati e i rustici tavoli all’ombra del profumatissimo aranceto sono un invito a sceglierli anche per un momento più importante, organizzando per esempio un matrimonio in campagna piuttosto che nella sala di un albergo o di un ristorante, ed è possibile realizzare un menù a km 0. L’attenzione a quanto mettiamo nel piatto, la convinzione che il cibo è anche cultura, che conoscerlo meglio ci apre a gusti che neanche immaginiamo, ha portato Ernesto a fondare insieme ad un gruppo di amici – l’archeologo Alfredo Carannante e i ristoratori Ruggero e Maria Peluso e Nicola Buono – l’associazione Crononauta. In cui mettono le loro professionalità al servizio di un’idea nuova di territorio: riproducono esperienze di cucina storica, recuperano sapori e prodotti ormai desueti e metodi di cottura del passato, riscoprono la sapienza dei contadini che sapevano perfettamente individuare ottimi vegetali da mangiare anche fra le erbe spontanee, per far scoprire i millenni di storia che permeano ogni angolo dei Campi Flegrei da un punto di vista inedito. Conoscere il giardino dell’Orco e non farsi prendere dalla sua armonia è impossibile, ma la cosa più bella, più bella ancora del luogo stesso è capire che dietro ci sono delle persone speciali e un progetto che riesce a guardare oltre i confini del Giardino stesso, in uno scambio che rende tutti più forti e che ha ancora tante potenzialità da esprimere, tante reti da costruire.
VITA DA OPERAIE
Un enorme grappolo penzola da un ramo, a guardarlo bene la sua superficie è compatta e allo stesso tempo animata… Perché non si tratta di un frutto, in realtà stiamo assistendo a una sciamatura. Il Giardino dell’Orco, infatti, ospita anche un apiario, cioè uno spazio con una serie di arnie, e in primavera è possibile assistere a questo che è uno dei momenti più importanti nella vita di una famiglia di api. A noi lo ha raccontato Rosario Sica, siciliano, da 5 anni a Pozzuoli, erborista e apicoltore. “Grazie alla sciamatura le api si riproducono: da una famiglia di insetti (che non sono assolutamente in grado di vivere da soli), infatti, se ne costituiscono due. La vecchia regina lascia l’alveare con metà delle operaie, mentre quelle che restano ne allevano una nuova che si fermerà nell’alveare di origine; diversamente, se non avvenisse la sciamatura, le due regine finirebbero per uccidersi fra loro. Il ‘grappolo’ è formato da migliaia e migliaia di api che hanno scelto come loro sede provvisoria appunto il ramo di un albero. Gli insetti stanno uno sopra l’altro, al centro invisibile la regina, cui in questo modo si garantisce la protezione e il calore necessari alla sua sopravvivenza, uno sciame che resti senza regina, infatti, è destinato a morire. Le operaie vengono indotte dai feromoni, sostanze odorose emesse dalla regina, a rimanere riunite intorno a lei.”. Le api esploratrici sono intanto alla ricerca di una nuova sede: “Se le lasciassimo fare sceglierebbero una cavità naturale, un foro in un muro, un buco in un tronco, ma in questo caso sono abbastanza sicuro di recuperare la sciamatura – continua Rosario – con una speciale arnia che ho allestito: scrollando il ramo farò in modo che ci finiscano dentro, dopo averla inumidita con un po’ di acqua e zucchero per attirarle: l’essenziale è che ci entri la regina, perché tutte le altre immancabilmente la seguiranno”.