ISCHIACITY ENTRA NEL MUSEO DI CAPODIMONTE, FRA I PRIMI AL MONDO PER LA RICCHEZZA E L’UNICITÀ DELLE SUE COLLEZIONI D’ARTE. DA ALCUNI MESI LO GUIDA SYLVAIN BELLENGER, IL NUOVO DIRETTORE VOLUTO DAL MINISTRO FRANCESCHINI, CHE LO HA MESSO SOTTO I RIFLETTORI GRAZIE ALLE FORTI INIZIATIVE DI RILANCIO CHE STA PRENDENDO.
Palazzo Reale e Museo, residenza sfarzosa fra le cui mura hanno abitato potentissimi sovrani e vetrina di opere d’arte assolute. Lo volle così il suo ideatore e primo proprietario, Carlo di Borbone, primogenito di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese. Dal 1735 re di Napoli, Carlo ricevette in dono dalla sua abile madre – discendente dai prestigiosi casati dei Medici e Farnese, proprietari di raccolte d’arte e palazzi principeschi a Roma – la collezione di capolavori iniziata nel ‘500 da Alessandro Farnese, divenuto poi papa Paolo III, e proseguita dai suoi discendenti. L’iniziatore della raccolta ospitata a Capodimonte, infatti, fu uno dei più grandi mecenati del Rinascimento, colui che portò a Roma Michelangelo, volle gli scavi delle terme di Caracalla, e si fece ritrarre da Tiziano sia in vesti di cardinale che di papa. Ebbene, quando Carlo divenne re fece portare a Napoli le migliaia di pitture, sculture, disegni, libri, bronzi, arredi, cammei, monete, medaglie, antichità che costituivano la collezione. Il loro valore era tale che le città di Parma e Piacenza, dove per ragioni dinastiche era intanto giunta una parte delle opere, protestarono vivacemente. Ma invano. E per custodire degnamente i quadri di Raffaello, Sebastiano del Piombo, Tiziano, El Greco, e ancora Parmigianino, Correggio, Bruegel il Vecchio, il re creò il palazzo reale-museo di Capodimonte. Oggi il Museo si sviluppa su tre piani e una buona parte delle sale che percorriamo furono destinate fin dalla loro concezione a spazio espositivo: il primo ospita, oltre all’Appartamento storico, la ricca collezione farnesiana appunto; al secondo è collocata la galleria Napoletana, ed infine, al terzo è esposta la collezione di opere dell’Ottocento e di arte contemporanea. Infatti, accanto a tanti altri primati, Capodimonte ha quello di essere un museo storico che ha al suo interno anche un’esposizione di arte dei nostri tempi. Ma a questo allestimento si è giunti dopo un percorso alquanto travagliato: i tempi di realizzazione della mastodontica costruzione, infatti, furono lunghi, perché Carlo contemporaneamente intraprese una notevole attività edilizia, dall’albergo dei Poveri alla reggia di Caserta cui vanno aggiunte la fabbrica di porcellane (collocata anch’essa a Capodimonte), e quella di arazzi, la stamperia reale, la fabbrica di armi. Gli architetti a Capodimonte immaginarono una struttura possente, vasta, per la quale si scelse una località fino a quel momento frequentata unicamente per le battute di caccia: solo nel 1758, dopo vent’anni di lavori e poco prima di lasciare Napoli (per essere incoronato re di Spagna), Carlo di Borbone potè vedere allestite le prime 12 sale destinate a pinacoteca, medagliere, biblioteca, ecc. – e solo un secolo dopo circa la costruzione fu completata. Il Museo di Capodimonte ebbe anche – a partire dal 1785 – un regolamento che disciplinava gli orari di accesso (che però rimase subordinato all’assenso della Segreteria di Stato) e i permessi per chi voleva copiare le opere esposte, e i visitatori illustri furono tanti, da Winckelmann a Canova, dal marchese de Sade a Goethe. I Borbone tenevano alla loro raccolta, al punto che impiantarono un laboratorio di restauro nel Museo e quando furono costretti all’esilio in Sicilia fra il 1798 e il 1799 (scacciati dalla Repubblica napoletana) portarono con sé alcune delle opere come la Danae e i ritratti di Paolo III di Tiziano. In quel momento, sembra che le opere a Capodimonte fossero 1783 (ma il nucleo originario farnesiano ne contava 329, quindi rapidamente i sovrani ne avevano incrementato il numero), ma naturalmente le sale furono saccheggiate, dai repubblicani come dai soldati francesi. Per colmare le lacune, Ferdinando IV appena si reinsediò sul trono promosse una ricca “campagna di acquisti” ed entrarono nella collezione opere celebri già alla loro epoca come “Atalanta e Ippomene” di Guido Reni. Il successivo decennio di esilio borbonico a seguito della conquista napoleonica del regno di Napoli ebbe conseguenze anche positive per Capodimonte. Diversamente dai discendenti di Carlo, infatti, Gioacchino Murat decise di risiedere nella Reggia-Museo e per questo accelerò la costruzione delle parti incompiute e arricchì di arredi lussuosi l’appartamento reale. Che oggi è visitabile: percorrendolo si può avere un’idea dello sfarzo di cui i sovrani si circondavano, dai mobili, alle apparecchiature per la tavola, agli oggetti decorativi, ai pavimenti (alcuni provengono da ville imperiali romane di Capri). Contemporaneamente, gli espropri a danno dei conventi del Regno e la soppressione degli ordini monastici in epoca napoleonica fecero confluire nella collezione tantissime opere che artisti meridionali, ma anche provenienti da tutt’Italia e dall’estero, dipinsero per le chiese napoletane fra il ‘200 e il ‘700. Insieme a quelle giunte grazie a commissioni, legati, donazioni, acquisizioni – anche successivi all’unità d’Italia, come quella dell’Annunciazione del Masaccio – costituiscono la galleria Napoletana. Ma lì ci sono anche due capolavori provenienti dalla medesima chiesa del centro storico di Napoli, S. Domenico Maggiore, da dove sono stati spostati per ragioni di sicurezza, si tratta de La flagellazione di Cristo di Caravaggio e di una Annunciazione di Tiziano. Percorrere le sale di Capodimonte significa, infatti, poter conoscere da vicino opere viste mille volte sui libri d’arte: da una sala all’altra si incontrano Antea (una bellissima fanciulla che indossa un sontuoso abito) di Parmigianino, la Madonna della gatta di Giulio Romano, e ancora la Parabola dei ciechi ed il Misantropo di Pieter Brueghel (provenienti dal profondo Nord dell’Europa attraversato dalla temperie della riforma protestante), la Crocifissione di Masaccio, opera di snodo fra il Medioevo che si chiudeva e il Rinascimento che iniziava ad affermarsi, Madonne di Botticelli e Perugino, i ‘modernissimi’ ritratti eseguiti da Andrea Mantegna e Rosso Fiorentino, il San Girolamo nello studio di Colantonio, commissionato probabilmente dal re Alfonso d’Aragona (colui che ha dato il suo aspetto attuale al castello Aragonese di Ischia). Quest’opera proviene dalla chiesa di S. Lorenzo Maggiore, così come un capolavoro assoluto del Medioevo oggi a Capodimonte, “San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò”. Re Roberto chiamò a Napoli – fra i tanti artisti che vi operarono durante il suo regno – anche il grande maestro senese Simone Martini, espressamente per realizzare una pala d’altare che celebrasse il suo potere. Nel quadro si vede Roberto stesso che viene incoronato re dal fratello Ludovico da Tolosa, che aveva rinunciato al regno in suo favore per indossare la tonaca francescana e intanto era divenuto santo, conferendo così al suo potere un’investitura religiosa fondamentale in quei tempi. Un capitolo a sé il Barocco, rappresentato, oltre che dal Caravaggio di cui si è detto, da opere di Annibale Carracci, de Ribera, Giovanni Lanfranco, Battistello Caracciolo, Artemisia Gentileschi, in buona parte realizzate per contesti religiosi di Napoli e del Regno, a testimonianza del ruolo di primissimo piano che esso ricopriva. Altrettanto ricca la raccolta di autori settecenteschi: Luca Giordano, Mattia Preti, Francesco Solimena, Vaccaro, sono solo alcuni di una lunga serie di interpreti che costituiscono altrettanti capisaldi della cultura figurativa europea della loro epoca.
Voluti da nobili, papi, mecenati e ricchi committenti, in primo luogo sovrani, dietro ciascuno di questi quadri c’è una storia e talvolta la storia. Concepiti per essere esposti nei saloni di palazzi nobiliari e nelle chiese, dove erano offerti alla devozione di migliaia di fedeli quando la religione era fondante nella vita delle persone, pongono agli studiosi domande le cui risposte consentono di ricostruire una trama, spesso complessa, fatta di committenze, mode, gusti, obiettivi che era sempre sottesa alla realizzazione di un’opera d’arte. Perché quel determinato soggetto, a quale luogo era destinato, chi ha pagato per realizzarlo, attraverso quali mani è passato? E ancora, non si può fare a meno di considerare i viaggi, quelli compiuti dagli artisti che si spostavano chiamati da munifici mecenati per lavorare a Napoli, provenendo da città lontane, ma anche i passaggi, di Stato in Stato, di mano in mano, delle opere, oggetti del desiderio, contesi per secoli (al punto che l’idea di “una ricollocazione di pezzi d’arte nei loro luoghi d’origine” per incentivare il turismo, lanciata un po’ di tempo fa dal ministro della cultura Dario Franceschini, che ha ipotizzato un ritorno a Parma di una parte delle opere della collezione farnese e borbonica, in particolare quelle conservate nei depositi, ha scatenato molte polemiche), bottino di guerra (l’Antea del Parmigianino e altre opere di Capodimonte, nascoste a Cassino durante la seconda guerra Mondiale, furono trafugate dai tedeschi e nascoste in una cava in Austria, dove furono ritrovate dopo la guerra e rese all’Italia). Ed è proprio questo inestimabile patrimonio di storia, cultura, arte e bellezza che è stato chiamato a gestire e valorizzare – con una scelta politicamente coraggiosa e finalmente all’altezza dei tempi – il direttore Sylvain Bellenger.
Text_ Silvia Buchner
Photo_ Ischiacity