Interview_ Cecilia D’Ambrosio Photo_ Riccardo Sepe Visconti Dayana Chiocca Scatti di gusto
E’ lui mister Scatti di Gusto, il creatore e animatore di uno dei blog più seguiti da chi vuole aggiornarsi sulle aperture di nuovi locali, su cosa cambia nel pianeta-pizza come sulle ultime novità in fatto di panini e dolci, sui prodotti e sulle preparazioni, ma anche su ricette e news che hanno come protagonisti stellati, promesse della ristorazione, tendenze culinarie, dando spazio “all’alto e al basso in cucina”. Giornalista, esperto di ristorazione e consulente di molte aziende che operano nel settore, appassionato di tutto ciò che è cibo, ma pure di architettura e design (naturalmente anche applicato al food), di cui si è occupato all’interno di riviste specializzate italiane e straniere (Plaisir de la Maison, Ottagono, Ville&Casali, Archifood), Vincenzo Pagano nel 2009 ha scelto il web per raccontare i tantissimi aspetti dello sterminato mondo del mangiare, e nasce appunto Scatti di Gusto. Tante immagini (quasi sempre sue e dei suoi collaboratori) e testi efficaci nella loro concisa immediatezza accanto ad articoli che approfondiscono temi specifici. Pagano, infatti, è un grande conoscitore del mondo della pizza, anche nei suoi aspetti più tecnici; con l’hashtag #canotto ha lanciato nei social la querelle fra pizze classiche e pizze “a canotto”, appunto, riferendosi alla diversa modalità di realizzare il cornicione, un tempo la parte più negletta, spesso lasciata nel piatto, oggi assurto a simbolo delle nuove tendenze di uno dei cibi più amati, fatte di cornicioni gonfi e alveolati, lievitazioni superlunghe, bighe, prefermenti, farciture studiate nel dettaglio e ottima digeribilità. Con lui abbiamo parlato del recentissimo riconoscimento dell’Unesco all’arte dei pizzaioli napoletani, di come cambia il ruolo dello chef all’epoca dei food blogger, dei futuri trend della ristorazione, della tecnologia in cucina e di tanto altro…
Ti occupi di food in ogni suo aspetto e riesci spesso a cogliere le nuove tendenze in anticipo, per non dire che talvolta contribuisci a generarle: dal tuo osservatorio quale fenomeno credi che caratterizzerà la ristorazione nel 2018?
Sarà l’anno mondiale del cibo italiano nel mondo raccontato in tutte le possibili declinazioni, dalla pizza agli stellati, due estremi che potremmo individuare come “il basso e l’alto” della cucina, intendendolo in senso positivo perché le eccellenze ci sono in qualsiasi ambito della ristorazione. La tendenza del 2018 potrebbe quindi essere quella della geolocalizzazione cioè portare un focus forte sui distretti del food, lavorando sull’individuazione dei luoghi di provenienza di cibi, materie prime, specialità e naturalmente rientra a pieno titolo in questa categoria l’arte dei pizzaioli napoletani, da poco riconosciuta come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco.
A sentire il ministro della Cultura e del Turismo Dario Franceschini si direbbe che il successo turistico dell’Italia faccia leva in particolare sui due settori dell’arte e del cibo, e infatti alla vigilia della proclamazione da parte dell’Unesco dell’arte dei pizzaioli come “bene immateriale dell’umanità” Franceschini era a Capodimonte con il direttore Sylvain Bellenger e quattro star della pizza, Enzo Coccia, Gino Sorbillo, Ciro Oliva e Antonio Starita per festeggiare il recupero di un forno storico all’interno della Reggia. Concordi con le posizioni espresse dal ministro?
Sicuramente questo modo di proporre l’Italia è quello che premia di più: poter abbinare in ogni luogo cultura del territorio, fatta di storia e monumenti, al cibo è vincente, le mete turistiche vanno vendute non solo per attrattori come il mare, la montagna o l’arte, ma associandole sempre alle peculiarità che le contraddistinguono e la ristorazione è sicuramente ai primi posti. Non a caso i nuovi direttori dei grandi complessi museali campani hanno guardato con interesse alla gastronomia, per esempio alla reggia di Caserta e a Paestum è stato stabilito un forte aggancio con la mozzarella, prodotto tipico in ambedue queste zone. E’ un modo per rendere vivo un qualcosa che vivo è già ma non ha un consumo contemporaneo, il claim potrebbe essere “ti faccio mangiare un pezzo di storia”.
L’universo cibo, e in particolare i cuochi, sembra che ormai non possano prescindere da una forte presenza sui social. Ma poi “dietro il social, niente…” o nel campo della ristorazione quella della rete è una facciata che nasconde dei contenuti reali?
I social sono sicuramente uno strumento potente: io parto sempre dal presupposto che dietro il fumo c’è l’arrosto ed è chiaro che quando questo arrosto esiste, l’immagine può crescere rapidamente, perché c’è la bontà del prodotto, di un’idea. Diversamente, può anche funzionare per un po’, ma avrà vita breve.
Secondo te, è indispensabile che lo chef sia anche imprenditore?
Sì, certo, ma non è un ragionamento valido solo oggi. Se non hai un’idea aziendale per il tuo ristorante, difficilmente vai avanti, si tratta comunque di un soggetto che sta sul mercato e che deve farsi apprezzare per una serie di componenti, un menù che abbia un rapporto qualità prezzo fuori mercato ti condanna. Essere imprenditore è connaturato all’attività stessa della ristorazione, a prescindere naturalmente dal fatto che si abbia un solo locale o tanti.
Food blogger ed influencer autorevoli come te hanno il potere di accendere i riflettori su ristoranti, chef e pizzerie sconosciuti ai più, dando una svolta importante alla loro attività. In questi casi il vostro ruolo di raccontatori del mondo del cibo e dei suoi protagonisti si trasforma in un ruolo di impresario, creando lavoro più ancora che commentandolo.
Questo è un fenomeno che l’era del web 2.0 ha reso più evidente, ma la categoria cui appartengo, quella dei giornalisti, lo ha sempre fatto servendosi però di un unico mezzo, la testata per cui scriveva. Adesso gli strumenti a disposizione sono aumentati, e peraltro c’è una grande quantità di notizie che arrivano direttamente, non mediate attraverso i giornalisti, messe in circolazione per esempio dai pizzaioli stessi attraverso le loro pagine fb e i social. Si crea così un numero di contatti, di reti, sempre più vasto e ricco, che accresce esponenzialmente la loro visibilità. Tutti noi che facciamo parte di questo sistema creiamo un flusso di interesse verso un certo ambito, ma questo più che i giornalisti, i pizzaioli, i cuochi, gli influencer, lo fa l’interesse stesso che si ha per questo argomento, prima mediato in una maniera molto più univoca, mentre adesso sicuramente grazie alla rete, è più articolato, aperto.
Cosa pensi degli chef che si servono di attrezzi e tecnologie come l’abbattitore, il sottovuoto per realizzare i loro piatti? Non si rischia di appiattire il gusto e rendere i sapori più “immaginati” che (davvero) assaporati?
Sfatiamo un mito negativo: chi dice questo non si è mai davvero seduto al tavolo di un ristorante di alta cucina. L’uso delle tecniche è comunque sempre finalizzato alla soddisfazione di chi mangerà. Cucinare è trasformare, e valutare i piatti dalle tecniche adoperate per realizzarli è come guardare un quadro e invece di cogliere l’effetto generale esaminare il singolo colore. Non è il ragionamento giusto. Cuocere un ingrediente in modo perfetto seguendo un metodo tradizionale e creare un piatto sempre con quell’ingrediente servendosi di tecniche evolute ha due valori diversi, non confrontabili. In verità, non parlerei neppure di nuove tecniche, si tratta di metodi acquisiti al patrimonio della cucina già da un certo tempo. E poi ricordiamo che l’uso di queste attrezzature serve a garantire sicurezza a chi mangia, anche un ristorante molto tradizionale se vuole mettere in menù le alici marinate deve avere un abbattitore! E’ vero che ci sono procedimenti un po’ penalizzanti per il sapore, per esempio è cosa differente una mozzarella da latte crudo da una fatta con latte pastorizzato. Si possono preparare entrambe in modo sicuro, seguendo processi diversi, per cui chi usa il latte crudo deve sottoporsi a determinati controlli. Tuttavia, oggi quasi nessuno produce mozzarella da latte crudo, perché ci sono esigenze di averla molto presto al mattino sui banchi della distribuzione, cosa che non sarebbe possibile con il completo rispetto della metodica tradizionale. Sono compromessi inevitabili…
C’è uno chef che ti ha colpito più degli altri?
Sono tanti quelli bravi, c’è molto più studio degli ingredienti che – insieme all’applicazione di tecniche, appunto, e alla voglia di riscoprire piatti del passato – danno risultati interessanti. Qui al sud ti posso citare Lino Scarallo, stellato a palazzo Petrucci a Napoli, che propone delle variazioni sulla pasta con i ricci e le verdure molto interessanti. C’è anche affinamento da parte di cuochi molto affermati, Gennaro Esposito per esempio ha un piatto storico che fa da 20 anni, la minestra di pasta con piccoli pesci, ma ogni volta che lo mangio è sempre un gradino superiore alla precedente. Ti potrei dire di pizzaioli che hanno migliorato le loro capacità di impastare, farcire, cuocere…
Veniamo alla pizza allora, un settore in cui sei particolarmente esperto. Credi davvero, come sostiene Enzo Coccia, che la pizza sia scienza? Che l’artigianalità da sola non basta, che non è più sufficiente essere “figlio d’arte” per un pizzaiolo contemporaneo?
Questo tipo di affermazioni va calato in un momento storico: ciò che dice Coccia è un fatto assodato per il pasticciere, che è quasi un chimico, nel senso che deve essere molto attento a dosi, procedimenti, temperature per ottenere un risultato valido; i pizzaioli, invece, sono sempre stati legati all’idea del “così faceva mio nonno”. Oggi però quelli che crescono lo stanno facendo proprio perché si applicano nel senso che dice Coccia. I passaggi fondamentali per preparare una pizza sono tre, impasto, farcitura e cottura: abbiamo avuto una prima fase in cui i giovani pizzaioli si sono molto dedicati alle ragioni dell’impasto, gli ingredienti sono acqua, farina, sale e lievito, ma hanno imparato a sceglierli bene, a controllare le temperature, tutte cose che prima erano seguite in modo più approssimativo; poi sono passati a curare le farciture in termini di bilanciamento dei sapori, mettendo sul disco di pasta meno prodotti ma pensati. Adesso tocca alle cotture, Enzo Coccia, per esempio, è da sempre un pizzaiolo molto attento al forno. E’ importante inquadrare ogni singolo passaggio del procedimento; la scienza, il processo di industrializzazione consentono poi di rendere le diverse fasi ripetibili, riproducendo quella preparazione con le medesime caratteristiche e la serialità è essenziale, è il valore aggiunto alla costruzione di qualsiasi piatto. Si tratta infatti di artigianato, sia nel caso della cucina che della pizzeria, ma deve assumere caratteri di replicabilità, e se si riesce a riprodurre in modo eccellente ogni volta, avrò sempre piatti buoni, sempre pizze buone.
Dopo il riconoscimento dell’Unesco, cambierà qualcosa nel mondo della pizza?
Finora si è difesa a spada tratta la tradizione legata a un solo tipo di pizza, quella napoletana STG (Specialità Tradizionale Garantita) preparata con un procedimento codificato. Ma se si fa un esame dei pizzaioli e delle pizze più conosciuti, vedremo che praticamente nessuno o quasi rientra in questo canone. Per esempio, le lunghe lievitazioni (24-36 h) che si stanno adoperando molto sono contrarie all’idea della pizza napoletana STG, e basta non rispettare anche una sola delle regole, per uscire dal canone!
Ed il risultato è migliore o peggiore?
E’ diversa, secondo me migliore, perché è frutto di esperienze accumulate in questi anni con lo studio delle tre fasi di cui si è detto. Una pizza margherita di 20 anni fa probabilmente non era come una margherita di adesso, i criteri di digeribilità della pizza sono completamente cambiati. C’è un pezzo molto divertente di Eduardo De Crescenzo dove si dice che la pizza mangiata a pranzo serve ad arrivare sazi fino a cena, nel senso che si mette sullo stomaco e per molte ore, con pochi soldi, non hai fame. Oggi il prezzo è rimasto molto accessibile, ma per il resto la logica è cambiata, tanti dicono che la pizza è così buona che se ne possono mangiare due, mentre prima era semmai il contrario. Insomma, la decisione dell’Unesco ha soprattutto acceso un riflettore su tutto questo, adesso sta ai pizzaioli di cogliere il momento positivo.
Lungo le arterie principali della città spuntano ogni giorno nuovi cartelloni 6×3 che promuovono pizzaioli e pizzerie: sembra che in tema di mangiare non si parli d’altro che di pizza…
E’ vero. Tuttavia, attenzione a non valutare un fenomeno, in questo caso il boom della pizza, solo in base a ciò che accade qui da noi, io sintetizzo questo concetto usando l’espressione “stando all’interno della tangenziale”. Noi partiamo dal presupposto che Napoli sia la capitale della pizza, che siamo i più forti, ma se ti domando “chi è il più grande pizzaiolo del mondo”, mi dovrai dire il nome di quello che ne vende di più e chi è? E’ la grande catena americana Pizza Hut. Ecco, il fatto che adesso l’arte dei nostri pizzaioli sia per l’Unesco “bene immateriale dell’umanità” serve a poter dire: le grandi catene sono prime in termini di quantità, ma in termini di qualità del prodotto il discorso è un altro, serve a poter mettere un dubbio in testa a milioni di consumatori, invitando a guardare alla pizza napoletana con maggiore interesse, comprendendo che è fatta con una logica diversa da quella con cui produce una catena.
Ma anche fuori da Napoli la notizia ha avuto risonanza?
E’ ovvio che su una testata non meridionale lo spazio dato a questa notizia sarà diverso, ma è normale, perché i prodotti della ristorazione vanno consumati sul posto, dove si producono appunto – diversamente per esempio dal vino che posso spedire anche dall’altra parte del mondo. Per cibi come la pizza e prodotti come la mozzarella è un’idea sbagliata, contraria anche a riconoscimenti come quello Unesco, contraria all’idea di cui dicevamo all’inizio di voler far camminare insieme specialità gastronomiche e cultura di un luogo. Quindi, se vuoi mangiare la mozzarella buona, la pizza napoletana buona devi venire qui: intendiamoci per ciò che riguarda la pizza, ci sono in Italia e all’estero tanti che la fanno molto bene, ma capire come e dove è nata, in altre parole “vivere la pizza” è possibile solo a Napoli.
Secondo te quanto una catena di pizzerie forte come Rossopomodoro ha potuto incidere sulla decisione presa dall’Unesco?
L’Unesco è composto da tanti Stati membri che votano e rifugge da logiche commerciali, quindi direi che in modo diretto non può incidere; tuttavia realtà come Rossopomodoro, i mulini Caputo e altri soggetti che hanno partecipato alla campagna di raccolta di firme hanno fatto sì che ci fosse un forte movimento popolare in favore della candidatura, e questo pesa su chi deve decidere, influendo su componenti della commissione che appartengono a paesi che magari non sanno neppure cosa sia la pizza. L’Unesco non inventa niente, riconosce situazioni obiettivamente interessanti per tutto il mondo acquisendole al suo patrimonio, materiale ed immateriale. Anche il modo in cui il dossier curato dall’associazione pizzaioli e presentato alla commissione è stato composto, o come si è mosso il rappresentante del ministero dell’Agricoltura sono fattori che contano. Due milioni di firme sono tanti, vuol dire che la pizza è conosciuta, piuttosto chi all’inizio ci ha creduto meno sono stati gli stessi pizzaioli.
Questo successo rafforzerà l’immagine di Napoli?
E’ ovvio che l’istituzione di governo, il Comune, dovrebbe prendere qualche iniziativa, io istituirei un “delegato alla pizza” che abbia la capacità di essere ambasciatore anche all’estero della pizza come patrimonio immateriale, magari in appoggio all’assessorato alle attività produttive. Inoltre, il pizzaiolo di origine o di scuola napoletana che sta all’estero può diventare a sua volta un buon ambasciatore per la città, se pensiamo a quante pizzerie napoletane ci sono nel mondo, potremmo avere tantissimi ambasciatori…
Fra i mutamenti cui stiamo assistendo nel mondo della pizza, c’è anche la diffusione dei forni elettrici. Cosa ne pensi?
Io sono convinto che un cibo è valido quando è buono, detto questo se parliamo di tradizione la pizza napoletana è legata al forno a legna, tuttavia se vogliamo pensare ad un lascito per il futuro di una tradizione che si rinnovi, si rafforzi e continui, dobbiamo tener conto anche dei cambiamenti normativi. Ricordiamo che la nostra pizza continua a essere cotta nel forno a legna per una deroga dell’UE, altrimenti non sarebbe legale farlo. L’Unesco tutela le capacità artigianali dei pizzaioli, e partendo da questo assunto mi domando se queste capacità sono necessarie anche nel caso in cui il pizzaiolo adopera il forno elettrico, e la risposta è sì, perché se non sono bravo brucio la pizza in entrambi i forni, quindi la necessità di avere degli operatori con delle competenze specifiche resta intatta, anche nel caso in cui si scelga il forno elettrico. Certo la roccaforte della tradizione sta a Napoli e richiede il forno a legna o niente; ma pensa per esempio al caso di pizzaioli preparati che in una qualsiasi città come Parigi o New York non possono dotarsi di forno tradizionale per le normative locali: ciò significherebbe non poter aprire delle pizzerie. In termini di opportunità non è un ragionamento valido, quindi è meglio prevedere professionisti in grado di applicare le loro specifiche competenze che sono bene immateriale dell’umanità anche in un forno elettrico!
Che differenza c’è nel sapore delle pizze cotte con i due diversi forni e quali costi hanno quelli elettrici?
Sono state fatte anche prove al buio e in sostanza il sapore è uguale; il forno a legna ha maggiore impatto ambientale, quello elettrico non ha emissione di fuliggine, quindi per esempio in un centro storico sicuramente è meglio installarne uno di questo tipo che non danneggia monumenti ed edifici di pregio, inoltre se l’elettricità si ricava da fonti pulite l’impatto è pari a zero. Sono 3-4 le aziende che li fabbricano adatti per la pizza napoletana e costano 12-14mila euro.
È reale la tua competizione con Luciano Pignataro, critico gastronomico napoletano e ideatore anche lui di un blog di cucina, o è una favola che un po’ vi siete inventati per giocare insieme?
Quando si parla di temi specifici, su un territorio limitato, crei interesse e se ci sono tanti soggetti che lo fanno, diventa un moto circolare. Se i soggetti sono meno, o addirittura solo due, e hanno idee differenti rispetto a uno chef, a un piatto, a una pizzeria, la cosa diventa più evidente. Quando ci sono più fonti di informazione il discorso è più piano, senza acuti, quando è polarizzato si fa notare maggiormente. Siamo entrambi giornalisti, io sono stato lavorativamente parlando anche lontano da Napoli e mi sono occupato di settori diversi dal cibo, Pignataro, invece, ha sempre vissuto molto il territorio, la regione e questo ci può portare ad avere visioni distinte, talvolta contrastanti. L’importante è che se ne parli, direbbe qualcuno…
Sapresti vivere senza pizza?
Preferisco non pensare a un’eventualità del genere!