Editare un giornale, sia esso un magazine patinato, un settimanale d’attualità o un quotidiano d’informazione, vuol dire mettere in piedi un’impresa economica, ovvero far quadrare i conti del bilancio della propria azienda attraverso il lavoro svolto. Molti, troppi non ci riescono e per andare avanti ricorrono ad aiuti esterni (erogazioni dello Stato, contributi privati, anticipazioni dei soci) o semplicemente vivono perennemente e pericolosamente sull’orlo del baratro. Da noi le cose funzionano diversamente poiché in questo dodicesimo anno di attività possiamo dire di avere i conti assolutamente in ordine, e ciò avviene per 4 motivi, eccoli: facciamo un buon prodotto, siamo molto attenti alla distribuzione, abbiamo notevole cura degli inserzionisti; soprattutto, crediamo di aver capito come pochi qual è il modo giusto ed efficace di fare comunicazione, che si tratti di informazione, cronaca, racconto, politica, o altro. Queste cose non le scrivo perché le penso, ma perché le vivo: osservo intorno a me la realtà di testate assai blasonate (quotidiani, periodici, nazionali e locali) e mi rendo conto che la maggior parte di esse sono “cotte e stracotte”, roba pensata con mentalità novecentesca, ancorata a schemi superati e soprattutto a gusti, tendenze e necessità di nessuna attualità. Ecco perché tutti, ma proprio tutti soffrono. Non starò qui a fare una lezione di economia del giornalismo (non ne ho alcun interesse), ma desidero usare questa premessa per provare a spiegare che il faticoso successo raggiunto in 12 anni dalla mia rivista Ischiacity è alla base di un format imprenditoriale che può avere effetti benefici in qualsiasi campo lo si applichi. Quando si crea un bene o un servizio occorre chiedersi (davvero) a chi è rivolto, com’è confezionato, come può essere venduto e soprattutto che grado di soddisfazione può generare in chi lo riceve. Troppi giornali e troppe riviste continuano ad esistere “a prescindere”… Vengono stampati irresponsabilmente, senza che editori e direttori si pongano la domanda: “Ma a cosa serve”? Molte testate, sbagliando, continuano tra l’altro a competere con il web, non comprendendo che la grande sfida della notizia non viaggia assolutamente più sul pc ma esclusivamente sugli smartphone. È un segnale dei nostri tempi e soprattutto è la naturale evoluzione della dimensione digitale. Il problema (grosso) è che la maggior parte degli editori e degli stessi direttori di testate è formata da persone che hanno dai 50 anni a salire e, dunque, sono tutte native dell’era analogica (per capirci, da piccoli in casa avevano il telefono su cui i numeri si componevano con una rotella ed il cui segnale viaggiava attraverso i fili elettrici di reti assai complesse). Questa gente non riesce a convertire appieno la propria mentalità (desueta) a vantaggio di una visione aggiornata e moderna: non comprendono che oggi informare vuol dire per prima cosa descrivere con immagini. Pagano bravi giornalisti (quando ce li hanno!…) ma non si impegnano a formare bravi fotografi. Per intenderci farò un esempio: anni fa, durante un incontro bilaterale Francia/Germania, i rispettivi capi dell’esecutivo Sárközy e Merkel riferendosi al nostro primo ministro Berlusconi, piuttosto che commentare a parole, si limitarono a scambiare una celeberrima, reciproca, occhiata di rassegnato divertimento! Chi riuscì ad immortalare quell’attimo (di vivida politica internazionale), con un solo scatto raccontò al mondo intero assai più di fiumi di parole (dette o scritte) spese per descrivere l’imbarazzante livello di credibilità nel quale agli occhi dei partners internazionali era precipitata l’Italia. Quella foto molto esplicita divenne mondiale, virale, mortalmente affossante. Essa fu uno dei più forti documenti giornalistici mai realizzati e diffusi alla velocità del bosone di Higgs! Questa è comunicazione. Il mio esempio serve anche a far comprendere quanto sia determinante che le immagini, oltre ad essere veicolate velocemente, si occupino di descrivere con precisione la realtà che sta davanti all’obiettivo. Riportando questo esempio al nostro contesto, desidero sottolineare l’importanza (direi fondamentale) di esprimersi attraverso le immagini, quindi, solo dopo aver catturato l’attenzione del lettore, si può pensare di aggiungere del testo alla narrazione visiva. Nell’era del twitter (testi brevi, multipli, immediati) funziona così, quantomeno sulla grande massa che è quella che costituisce la “ciccia” di questo ragionamento.Ecco perché ISCHIACITY PRIMA DI TUTTO È IMMAGINI. Ecco perché per raccontare il museo di Capodimonte, i Giardini della Mortella, il cibo che viene servito a tavola, o gli abiti dei nostri sponsor, così come tutte le persone (belle e interessanti) che intervistiamo, lo facciamo con immagini molto curate. Siamo immediati e di facile “lettura”, ma anche presenti ovunque e questo ci permette di raccontare le nostre storie a milioni di persone ogni anno. Non basta, infatti, essere ovunque se non si copre la presenza con un prodotto di alta qualità. Essere distribuiti dappertutto per un prodotto editorialmente modesto (e lo sono la maggior parte dei cartacei che vedo in giro) equivale ad accelerare la propria disfatta aziendale: la gente ci giudica impietosamente, i lettori non ci perdonano di approfittare della loro attenzione e del loro (poco) tempo disponibile se in cambio non offriamo qualcosa di davvero valido. Questo, a parer mio, vuol dire fare impresa editoriale. E questo spirito potrebbe essere trasferito in qualsiasi altro campo lavorativo: vendere beni o servizi confezionandoli in modo che risultino validi, interessanti, all’altezza delle aspettative di chi ne fa uso.
Oggi è fondamentale esprimersi attraverso le immagini: solo dopo aver catturato l’attenzione del lettore, si può pensare di aggiungere del testo alla narrazione visiva.
Text_ Riccardo Sepe Visconti