text_Silvia Buchner
L’essenza. Del movimento, della potenza, della bellezza. L’equilibrio dello spazio in cui le figure vengono colte:
Jean-Marie Manzoni insegue questi obiettivi scattando migliaia e migliaia di foto e scegliendone solo cinque o sei in un anno di lavoro. Gentile, affascinante il suo italiano parlato con accento francese, ha scelto tanti anni fa Ischia come uno dei fulcri di una vita da cittadino del mondo. Figlio di genitori italiani emigrati in Svizzera, a dieci anni la madre lo mandò a vivere da solo presso una famiglia di Forio, per curare con il sole e il mare la gracilità del suo fisico. E’ a quell’antico periodo che risale il legame con l’isola (per quanto sia stato un trauma passare dalla Svizzera a un paesino del Sud Italia dei primi anni ’50), che lo ha spinto, tanti anni dopo, a costruire a Forio la sua bella casa. Lì conobbe Gino Coppa, pittore e fotografo foriano, dieci anni più di lui, che esercitava con il piccolo Jean-Marie il suo francese e, soprattutto, insieme facevano fotografie. E fotografo professionista Manzoni lo è diventato, costruendo la sua vita professionale in ambiti che sono agli antipodi: prima fotoreporter per una testata giornalistica ginevrina, poi autore di immagini in still life per grandi aziende svizzere produttrici di orologi di lusso. Fare il reporter è un lavoro in cui sei sempre sul filo del rasoio. “Devi tornare indietro con una foto degna di essere pubblicata, sei in competizione con altri grandi fotografi e questo è molto stressante: ho ritratto John Lennon, scattato il ’68 francese, i funerali di De Gaulle, la guerra dei sei giorni, i giochi olimpici. Una foto di reportage, al di là del fatto che deve costituire una documentazione, contiene una sua dose di ambiguità, perché ha sempre un taglio che esprime il pensiero, i sentimenti (spesso la tesi che si vuole dimostrare), con cui il fotografo giunge davanti al suo soggetto”. Ed è per questo, forse, che ad un certo punto ha preferito dedicarsi solo a splendidi oggetti come gli orologi. Ma quando può fare ciò che davvero gli piace Manzoni riprende a essere un reporter, senza però la tensione di dover portare in redazione un’immagine a tutti i costi, e sceglie di vivere altre tensioni. I protagonisti della sua instancabile ricerca dell’essenza del movimento, della forza, della bellezza sono infatti gli animali selvaggi, leoni, bisonti, orche, meduse e tanti, tanti uccelli. Insieme alla moglie Maggie, che collabora con lui – bellissima l’intesa che hanno e che si percepisce con chiarezza incontrandoli – va a cercarli nel loro mondo, in Africa, in California, in Alaska, dove d’estate da qualche anno si dedica in particolare alle aquile dalla testa bianca e agli orsi grizzli. Ritrarre gli animali significa imparare le loro abitudini, attenderli per ore presso un fiume o lungo una pista per poi avere pochi secondi a disposizione per scattare, per cogliere l’essenza. Jean-Marie Manzoni fotografa a mano libera, con impostazione totalmente manuale, calcolando la distanza a cui si muoverà il soggetto prescelto, e nel caso del volo degli uccelli – particolarmente veloce
– ciò richiede grandissima esperienza. Nel suo laboratorio, poi, seleziona e lavora le immagini con Photoshop, virando le foto in bianco e nero e intervenendo sui parametri digitali dello scatto, per avere esattamente l’intensità e la profondità dei neri desiderate e, più in generale, il giusto contrasto che consenta di leggere solo i dettagli sui quali l’artista vuole focalizzare l’attenzione di chi guarda. Ma puntualizza, “devo ottenere già dallo scatto ciò che considero essenziale”: il movimento allo stato puro, la forma, che deve essere asimmetrica, oppure un momento statico, che abbia un perno su cui si fonda la sua espressività. Quindi un’ala aperta, un corvo in picchiata, un becco o degli artigli lanciati a catturare la preda, la maschera di un barbagianni che scruta la notte riemergono dalla sua elaborazione di artista talvolta come puri segni nello spazio, talaltra come quadri, ritratti dell’eleganza – nel piumaggio di un cormorano che sembra in posa anche se non lo è, o in un leone il cui mantello si fonde e confonde con l’erba della savana. Tutta questa energia intrappolata nelle foto Manzoni la sedimenta, la rielabora, la rivive per tirare fuori le sue opere nella casa di Forio, che ha ideato e costruito personalmente, tagliando da sé il tufo che riveste i viali del giardino, realizzandola come paradigma di un mondo, questa volta non esotico ma vicino, familiare, quello del sud – fatto di intonaci bianchi, tetti a volta, piante aromatiche e una veranda coperta da un glicine sontuoso – che lui uomo del Nord ama.