Considero Marco Damilano uno dei più brillanti ed informati commentatori politici italiani. Lavora da molti anni al settimanale L’Espresso, per il quale analizza la politica nazionale. L’Espresso, d’altra parte, quale settimanale di informazione politica del nostro Paese, rappresenta il massimo quanto ad autorevolezza, coraggio e capacità di analisi. A questa testata, infatti, si devono alcune delle maggiori inchieste giornalistiche, che per la loro delicatezza e pericolosità costringono molti colleghi di Damilano a vivere scortati. Ecco perché ho desiderato fortemente di intervistarlo e, soprattutto, più che chiedergli (o quanto meno non solo) di vaticinare il futuro di Renzi, Salvini, Berlusconi & Co., ho preferito rivolgergli una serie di domande tecniche su come si organizza un settimanale come L’Espresso e su come si costruisce un profilo professionale come il suo. In tempi di dilagante sciatteria giornalistica le parole di Damilano valgono come una “lectio magistralis”.
Fai un grande uso dell’ironia, nei tuoi interventi e l’ironia è un modo per dissimulare la rabbia, il disappunto, che immagino ci siano, per un’Italia che non funziona. E’ vero, uso l’ironia come cifra stilistica del mio modo di raccontare e credo mi corrisponda anche caratterialmente. E’ così, l’ironia serve spesso a far transitare la rabbia su un altro tipo di comunicazione: ci sono molte cose per cui essere arrabbiati, e io mi indigno facilmente, non riesco ad avere un atteggiamento distaccato, sono partecipe attraverso un percorso di analisi e critica anche rispetto ad una prima reazione istintiva. Poi, quando racconto gli eventi ricorro all’ironia, perché credo che ce ne sia bisogno, nel senso che abbiamo una comunicazione politica e, a volte, un racconto della politica molto urlato, molto indignato e io so, frequentando l’ambiente, che è una indignazione telecomandata, pensata a freddo, che si usa per rappresentare la rabbia o le paure degli italiani, entrambi sentimenti profondi.
Ma fra i due modi di esprimere il dissenso, la rabbia è più immediata rispetto all’ironia.
Sì, l’ironia è più sofisticata, ma non è fredda, distante, scettica, cinica, tutte cose che non mi appartengono. E’ un’alternativa all’urlo, che uso soprattutto quando mi trovo in platee vocianti, in televisione…
E questo tuo atteggiamento fa la differenza fra te e gli altri in TV!
Non devo dirlo io, semplicemente non so comportarmi in modo diverso. Di una cosa, però, sono sicuro: un fattore che costituisce la differenza, insieme all’ironia, è avere memoria degli accadimenti, perché tutta la comunicazione è schiacciata sull’istante e se è certo che oggi 27 giugno 2015, per esempio, non si può sfuggire a eventi come l’attentato in Tunisia o la crisi greca, c’è però sempre un contesto da raccontare, un prima e un dopo, e io vedo sempre lo sconcerto quando a un politico ricordi quello che ha fatto magari sei mesi prima, perché la tendenza è: “scordammoce ‘o passato”.
Il fatto è che i politici seguono il filo dell’opportunità, tu il filo logico!
E’ vero, ma noi abbiamo l’obbligo di costruire il filo logico, laddove loro seguono quello dell’opportunità. Mi viene in mente una frase di Pasolini, che nel suo articolo “Il romanzo delle stragi” (Ndr. Il 14 novembre 1974 Pier Paolo Pasolini, che verrà ucciso meno di un anno dopo, pubblica sul Corriere della Sera un intervento dal titolo “Cos’è questo golpe? Io so”, dedicato alle stragi di matrice neofascista di Milano, Brescia, Bologna avvenute fra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70) diceva: io so chi sono i mandanti delle stragi, chi sono i giovani assassini, ecc., e concludeva “Io so perché sono un intellettuale che cerca di ricostruire un filo logico laddove sembra regnare la follia, l’arbitrio, il mistero”. Credo che se il giornalista vuole esercitare un minimo ancora di funzione critica deve tenere presente questo obiettivo, perché a volte sembra davvero di trovarsi in un posto dove “regna la follia, l’arbitrio, il mistero” e annodare i fili ricrea il senso dei fatti e si riesce a comunicare davvero qualcosa a chi ti legge o ti ascolta.
Tu scrivi per un giornale che è l’unico a fare ancora delle inchieste, “L’Espresso”: come è possibile che sia rimasto solo?
Quest’anno L’Espresso festeggia i 60 anni, ha attraversato tutta la storia del Paese, dal boom economico al ‘68, al terrorismo, agli anni ’80 a Berlusconi, per arrivare all’Italia che stiamo raccontando noi, io sono stato assunto nel 2001, durante la campagna elettorale in cui Berlusconi sembrava stesse aprendo una lunga stagione di potere, ma in realtà, già dai primi mesi si vedeva che quell’esperienza politica aveva delle difficoltà. Quindi, non è un caso che L’Espresso sia unico in quello che fa, nel senso che ha una durata, una forza, un prestigio che il passare degli anni hanno accresciuto. E poi, fare la carta stampata e, quindi, un settimanale è molto complicato in una società che richiede sempre più una comunicazione rapida e legata alle immagini. Ciò ha creato la fine di tante esperienze simili a quelle dell’Espresso o ha determinato la scelta di inseguire una nuova identità che, però, non è sempre facile da raggiungere. Noi, invece, continuiamo a pensare che la fedeltà a un dna originale – che è un’informazione criti- ca, graffiante, corrosiva nei confronti del potere e dei poteri e il mandare gli inviati a scoprire
cose che i lettori ancora non sanno (cosa che non sempre fanno i giornalisti) – sia l’elemento dirimente che fa vivere, pur tra mille difficoltà, la nostra testata.
Per il modo in cui interpreti il tuo lavoro di giornalista, ti riconosci nella definizione di “retroscenarista”?
No, perché odio questo genere di giornalista. Mi spiego meglio: quello del retroscenarista è stato un genere molto importante, e io ho avuto la fortuna di cominciare all’Espresso dividendo la stanza con Guido Quaranta, decano dei giornalisti politici italiani e inventore del genere del retroscena, in un certo senso; ha lavorato sempre nei settimanali, prima Panorama e poi L’Espresso e io da lui, come da Giampaolo Pansa, che ha inventato il “racconto della politica” ho davvero imparato tutto. Quella della fine degli anni ’60 primi ’70, era una politica in cui non esisteva il “dietro le quinte”: Quaranta inserì il suo modo di scrivere della politica in un ambiente abituato a una politica spiegata con un gergo da iniziati. Lui, invece, si travestiva da usciere, da uomo delle pulizie e si intrufolava nelle riunioni dei democristiani
e le raccontava per quello che davvero erano, con il loro linguaggio completamente diverso da quello forbito della politica cui si era abituati a quell’epoca. Si racconta che una volta Aldo Moro avrebbe detto “Siamo sicuri che qua dentro non ci sia Guido Quaranta nascosto da qualche parte?”, e il bello era che lui c’era davvero e lo raccontò… Quelli di Quaranta erano veri retroscena: i politici si riunivano, non volevano far sapere cosa si erano detti, il giornalista riusciva ad essere presente e lo raccontava. Nel corso degli anni questo genere nobile è diventato molto di maniera e ho l’impressione che si sia trasformato in uno strumento del potere, in quanto, salvo grandi eccezioni, di solito i giornalisti vengono indirizzati dagli stessi protagonisti, quindi il retroscena è diventato proprio ciò che la politica vuole che venga scritto. Un retroscena che adesso va molto di moda è “Cosa dice Renzi la sera ai suoi su un determinato evento?”, tuttavia non si tratta di parole carpite di nascosto, ma comunicate dallo stesso Renzi o da chi gli è vicino! Per questo ho reagito con un “no!” alla tua provocazione, quando mi hai definito retroscenarista. Piuttosto mi piace molto la scena. Il pallino di diventare giornalista politico l’ho avuto fin da ragazzino, quando leggevo la “messa in scena” della politica di G. Pansa. Allora, si trattava di una politica molto differente dall’attuale, c’erano i grandi congressi dei partiti, palchi molto affollati, i comitati centrali del PCI, i consigli nazionali della DC. Lui li scrutava con il binocolo, perché non c’erano i maxischermi, lo streaming, l’attuale apparato comunicativo che ci fa illudere di vedere e sapere tutto, quando molto spesso invece non sappiamo nulla. Il binocolo di Pansa e la sua scrittura servivano a demistificare la politica, a mostrarne le rughe, a rivelare le liti fra gente che sul palco aveva proclamato di amarsi alla follia. Quel tipo di racconto mi ha sempre affascinato, perché penso che nel racconto della scena c’è molto di più che in un retroscena addomesticato.
Considero le immagini la parte più importante di un giornale, intese sia come fotografie che come immagini in senso più ampio, realizzate dal vignettista e/o dal foto ritoccatore. Anzi, questi ultimi hanno in mano uno strumento che può rendere in una sola creazione il senso anche molto complesso di un evento, come talvolta neppure la foto è in grado di fare. E’ proprio questo il caso di una recente copertina dell’Espresso, che ho trovato molto drammatica e poetica insieme: mi riferisco al disegno delle stelle della bandiera europea che affondavano/affogavano in un mare blu, come il colore di sfondo della bandiera stessa. Qualche settimana prima avevate messo in copertina una foto di cadaveri di migranti annegati durante il tentativo di raggiungere le coste italiane, una scena sicuramente forte, ma già vista, mentre nell’immagine a cui faccio riferimento si racchiudeva tutta la complessa situazione degli sbarchi e di come la politica italiana ed europea li stanno gestendo, che veniva raccontata più e meglio di come possono fare tante parole scritte.
Quella copertina è nata da una bellissima ri unione della redazione: avevamo, infatti, due temi forti in quel numero, che ha anticipato eventi importanti accaduti successivamente. C’era un’inchiesta di Fabrizio Gatti sui luoghi di origine dei profughi che giungono in Italia, che aveva l’obiettivo di capire se esistono davvero delle possibilità di aiutarli nei loro paesi di provenienza, riaprendo il tema della cooperazione internazionale. E, contemporaneamente, c’era un forum fra Eugenio Scalfari e Romano Prodi, che si è tenuto nella sede dell’Espresso, un piccolo evento per Scalfari che da molti anni scrive commenti e la sua rubrica per la testata, ma era tanto che non realizzava interviste. La scelta è caduta su Prodi, prendendolo a testimone di un’Europa che era partita con grandi prospettive e che invece è naufragata. La discussione in redazione è stata su quale dei due argomenti privilegiare e si è deciso di metterli insieme utilizzando un’unica immagine e, in effetti, come dicevi tu a questo compito può ottemperare solo la creazione di un disegnatore o fotoritoccatore e non una fotografia. Fotoreporter, vignettisti satirici, disegnatori hanno sempre avuto un ruolo molto importante nell’Espresso, che quando aveva il formato lenzuolo, fino al 1974, pubblicava foto gigantesche con una grafica molto innovativa; successivamente, abbiamo ospitato vignette di Altan ma anche Pericoli e Pirella con tavole e personaggi magnifici, le loro vignette in copertina dedicate al presidente della Repubblica Leone sono state più dannose per lui del libro di Camilla Cederna (Ndr. La giornalista Cederna scrisse il pamphlet “Giovanni Leone: La carriera di un Presidente”, sulle presunte irregolarità commesse da Leone
e dai suoi familiari e che lo portò alle dimissioni. Anni dopo, tuttavia, il Presidente fu totalmente riabilitato). Quella delle copertine costruite con disegni e immagini è una tradizione che in Italia è andata affievolendosi, ma ci sono testate internazionali come l’Economist, per esempio, che sull’illustrazione di copertina ci lavora tantissimo, ricordiamo l’immagine di Renzi con il cono gelato che ha provocato quasi una crisi internazionale.
A proposito di valore delle immagini, non è un caso che il tuo ultimo libro si chiami “La Repubblica del selfie”.
Infatti, il rapporto di questa società con le immagini è un tema che mi è molto caro, e sull’Espresso attualmente curo la rubrica “Selfie e contenti” in cui commento in tre righe una foto. Il selfie è un concetto che è adatto a raccontare la figura di Renzi e, più in generale, questa fase della politica, che è passata in un tempo assai rapido dalla rappresentanza (nella prima Repubblica, in cui si votava qualcuno che ci rappresentava fino in fondo) alla rappresen tazione (con Berlusconi il talk show è rappresentazione scenica di una politica urlata, fatta di scelte di campo affermate come definitive) all’autorappresentazione: attraverso il selfie e altri strumenti simili, infatti, si giunge a rappresentarsi da soli. Simbolicamente la repubblica del selfie significa avere un selfie partito, una selfie istituzione, un selfie governo: nel nostro caso tutto ruota attorno al personaggio di Matteo Renzi, alla sua faccia, alla sua parlantina. L’altro concetto importante sotteso alla Repubblica del selfie è quello del comunicare direttamente con l’elettorato, senza passare per un partito, un’associazione di categoria o un media, insomma si eliminano le intermediazioni. Esemplare in questo senso, l’episodio di cui Renzi è stato protagonista quando ha presentato il suo governo. Era in riunione con il presidente Napolitano, l’incontro si prolungava e fra noi giornalisti in attesa l’eccitazione era al massimo, si congetturava che Napolitano gli avesse depennato il nome di qualche ministro e cose del genere, finché è arrivato al nostro cellulare un twit del presidente del Consiglio in cui diceva “Arrivo, arrivo!”, comunicando direttamente con noi – e con tutti i suoi followers di Twitter, in qualunque luogo si trovassero! – che tutto era a posto. Con la sua comunicazione ha saltato ogni gradino intermedio andando direttamente nelle tasche di gente intenta a fare le cose più diverse. Questa mi sembra una cifra importante dell’attuale fase politica, che però ha una ricaduta negativa, forse del tutto non prevista. Riportando, infatti, ogni cosa sul personaggio di Renzi, anche quanto accade di negativo ricade addosso a lui, per esempio nelle ultime settimane ci sono state difficoltà sul fronte della scuola, problemi a gestire la questione degli sbarchi dei migranti, soprattutto riguardo alle posizione nette di Salvini. Su questo tema, Renzi sembra non avere una comunicazione, prima ancora che una soluzione. Non si capisce per il governo cosa rappresentano queste persone che arrivano sulle nostre coste, mentre è ben chiaro cosa rappresentino per Salvini, che lo dice in continuazione, anch’egli via twitter! Insomma, siamo davanti a una galleria di io, io, io in cui quell’io rischia di restare imprigionato.
Questo è il racconto molto lucido del momento in cui viviamo, diciamo “la scena”: ma il giudizio su Renzi qual è?
Va distinto quello sull’uomo di governo da quello sull’uomo di partito. Come uomo di governo ha provato ad affrontare questioni che erano irrisolte da tanti anni: la legge elettorale, la riforma delle istituzioni, il mercato del lavoro, dando messaggi molto netti, a volte privilegiando il concetto “facciamo – comunque – qualcosa” rispetto a ciò che realmente si è fatto. Per esempio, per il jobs act prima disse che l’articolo 18 non era un problema, poi è diventato una questione epocale: si vedrà solo fra qualche tempo se questa riforma avrà aumentato realmente gli assunti o sarà solo servita a regolarizzare temporaneamente chi già lavorava. Ancora, è vero che quella del Senato era un’emergenza assoluta, che era necessario un processo legislativo più veloce e snello, però forse non era nell’interesse primario di tutti gli italiani che i senatori non fossero eletti e non avessero l’indennità. Ugualmente la riforma cosiddetta della Buona Scuola, si è risolta in un problema all’interno degli ordinamenti, fra professori e presidi, mentre è rimasta sullo sfondo la questione dell’istruzione. Renzi sembra cogliere il titolo, ma nello svolgimento si perde (per rimanere nella metafora scolastica), e questo ha annacquato l’efficacia dei suoi interventi. Poi è sorto il secondo problema che aveva molto sottovalutato, cioè il partito: aveva pensato che gli sarebbe venuto dietro una volta che fosse arrivato al governo, invece non è stato così. Il partito ha cominciato a combinargli tanti disastri, il più clamoroso è la questione De Luca, in Campania, che gli è sfuggita di mano e probabilmente gli ha portato via molti voti, anche fuori dalla Campania stessa. Ancora: la questione di Marino ha Roma, che Renzi ha prima sostenuto, poi ha fatto capire di voler cacciare, ma il Sindaco Marino resiste. C’è un potere arrogante che da palazzo Chigi dice “basta Marino, non perché è un ladro ma perché non è capace”, ma questo devono deciderlo gli elettori e non il premier; altro era suggerirgli di fare un passo indietro, come abbiamo fatto anche noi sull’Espresso, attraverso un editoriale del direttore Vicinanza.
Non sarà che però i giornalisti in questo modo si prendono dei poteri che non gli competono?
No, noi siamo al nostro posto, facciamo opinione pubblica. I giornali devono prendere posizione, magari anche prima che le cose avvengano, per esempio con i pezzi di Lirio Abbate abbiamo raccontato “Mafia Capitale” e le attività di Carminati dalle pagine dell’Espresso già nel 2012, prima del magistrato Pignatone.
E a Lirio Abbate questo è costato una scorta, che a Roma è stata anche speronata da un’altra auto, in un chiaro atto di intimidazione.
Infatti. Un cronista coraggioso come Lirio Abbate ha lasciato Palermo dove era già scortato e a Roma si è ritrovato in una situazione molto simile, il che racconta un clima difficile.
Non racconta solo un clima, ma pure un giornalista e una testata!
Sì, la cronaca giudiziaria fatta sui giornali soffre spesso della dipendenza dai fascicoli prodotti dalle inchieste, quindi quando un giornalista riesce a scoprire reti di malaffare così articolate come quella di Roma usando gli strumenti del suo mestiere, costruendo un racconto giornalistico che documenta la mafia nella Capitale, è una grandissima testimonianza.
Torniamo al rapporto fra Renzi e il suo partito.
Renzi aveva sottovalutato il PD, ma il problema non è la minoranza interna, ma il fatto che lui stava cercando di costruire un PD che uscisse dai confini tradizionali della sinistra; per ottenere questo ha litigato con i sindacati sull’articolo 18, con gli insegnanti, con il pubblico impiego (tradizionali bacini di voti per la Sinistra). Possiamo giudicarla bene o male, ma questa era la strategia del cosiddetto PDR e serviva a portare voti nuovi, per esempio di berlusconiani delusi che potevano pensare “Caspita! Questo Renzi
realizza quello che avremmo voluto fare noi e non ci siamo riusciti!”, ma anche di elettori del Movimento 5 stelle, cui ha certamente strizzato l’occhio quando ha insistito sulla decisione di togliere l’indennità ai senatori. Questa tattica ha dato riscontri in termini di consensi alle Europee ma non alle elezioni regionali, dove il Partito di Renzi è come se fosse tornato il vecchio PD, nei suoi confini geografici, ideologici, culturali, ma avendo perso un pezzo di sinistra e, di conseguenza, ha perso in molte realtà, in Liguria, a Venezia, Arezzo, in città della Sicilia. Il risultato più preoccupante è il Veneto, dove i voti si sono dimezzati rispetto alle Europee dello scorso anno, è come se uno spiraglio che per lui si era aperto in una regione tradizionalmente non di sinistra si fosse già chiuso.
Che errori imputi, quindi, a Renzi?
Sicuramente, non sta costruendo una classe dirigente, quindi dove non c’è lui o c’è il vecchio, che non è sua responsabilità, o c’è il vuoto. Racconto un episodio significativo di questo. Durante la campagna elettorale in Veneto si è fatto riprendere in macchina accanto ad Alessandra Moretti con la cintura di sicurezza, e lui alla guida. Lo slogan era “Dobbiamo guidare il
Veneto”, il messaggio era: non vi preoccupate, lei non sa guidare ma lo faccio io; gli elettori, però, non ci hanno creduto, perché lei era il candidato presidente e a lei non hanno voluto affidare la guida del Veneto. Quello spot si è rivelato un messaggio catastrofico: la verità è che non si può chiamare Renzi ogni volta che c’è da spostare una macchina!
Nelle foto, a partire dalla prima pagina, personaggi della politica, del giornalismo e della cultura italiani del passato e attuali: Giampaolo Pansa,Pierpaolo Pasolini, Pietro Ingrao, Enrico Berlinguer e Aldo Moro; Ignazio Marino, Matteo Renzi, Lirio Abbate, Matteo Salvini, Alessandra Moretti.
Interview_Riccardo Sepe Visconti