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Da quando ha lasciato nel 2018 la direzione del Mattino per coerenza con le sue idee sulla maggioranza giallo verde, la vita di Alessandro Barbano si è indirizzata verso nuovi orizzonti, quelli di scrittore prolifico e di successo, nonché di manager della fondazione Campania dei Festival. E contemporaneamente possiamo ben dire che sia letteralmente esploso un ‘caso Barbano’, i talk show politici, infatti, fanno a gara per averlo in trasmissione come autorevole commentatore. E senza alcun ombra di dubbio la prima persona che ha intuito la potenzialità di Barbano è Enzo D’Elia che con la sua agenzia di promozione letteraria sa valorizzare figure e profili professionali nel mondo della scrittura. Grande successo anche per l’ultima fatica di Barbano, Le dieci bugie, come l’autore definisce quelle convinzioni (del tipo: se gli anziani non vanno in pensione i giovani non avranno lavoro; il merito promuove l’egoismo, eliminare il finanziamento ai partiti risana la politica, il nuovo è sempre meglio del vecchio, ecc.) che sono alla base del populismo, fenomeno con cui l’Italia, l’Europa, e non solo loro, devono confrontarsi, perché è ormai all’interno delle istituzioni. In queste pagine la sua presentazione del libro durante un incontro pubblico a Napoli.
Questo libro l’ho fatto per il mio paese, perché viviamo un momento particolarmente difficile. Non voglio porre etichette come ‘democrazia illiberale’, ma certamente ci sono alcuni segnali preoccupanti, il primo è la riduzione della democrazia al solo momento del voto. Sì, è vero, la sovranità si esercita per conto del popolo, ma nei limiti e nelle forme previsti dalla Costituzione, con quei contrappesi liberali che fondano la complessità della democrazia, in cui potere e sapere si integrano. Quando, invece, il voto viene evocato come elemento di forza per azzerare la dialettica di questi contrappesi, dicendo “Sessanta milioni di italiani me lo chiedono” è preoccupante. O quando si afferma “Il governatore della Banca d’Italia non è d’accordo? Si candidi” oppure “Il magistrato non è d’accordo? Si candidi”, “Il direttore dell’INPS non è d’accordo? Si candidi”… Insomma, esprimere un’opinione diversa deve per forza comportare di doversi candidare oppure, come fanno i 5 Stelle, essere messi fuori gioco. Ebbene, questa riduzione della democrazia all’idea che la sovranità si esercita solo nel voto è per me un elemento di particolare inquietudine. Perché la legittimazione del voto è quella che ha portato i sovranismi della prima metà del ‘900 al potere: così è stato per Mussolini e Hitler. Attenzione non sto evocando paralleli! Ma questo passaggio della riduzione della sovranità e della democrazia al voto comporta sicuramente una riduzione della complessità della democrazia.
Il secondo segnale che voglio approfondire è la debolezza dell’opposizione, il suo arroccamento dentro i recinti delle vecchie appartenenze nominalistiche e delle forme della seconda Repubblica. La sua incapacità di evolvere, che individuo come un elemento che caratterizza questa stagione. Il terzo elemento è la debolezza dei poteri di garanzia. Quando si parla di poteri di garanzia si pensa alla Corte Costituzionale e, più di tutti, al Presidente della Repubblica. Ma in una democrazia mediale i poteri di garanzia siamo anche noi, la stampa. E quando 6-7 volte in una settimana i due leader dei partiti alleati di governo partecipano ai talk televisivi, dove c’è qualcuno che gli alza la palla per finte interviste senza contraddittorio nelle quali raccontano la loro democrazia, è evidente che noi non siamo più mediatori di alcunché. Siamo ridotti a essere come i conduttori di silicio in un processo tecnologico. Quando durante la crisi della nave militare Diciotti (la scorsa estate, al centro di una forte disputa per il ritardato sbarco dei migranti che aveva a bordo), alle 20.30, il ministro dell’Interno dopo una giornata di polemiche anche a livello internazionale, prende il suo smartphone e registra in posizione selfie un video di 19 minuti senza contraddittorio in cui racconta la sua verità, e il video diventa la prima notizia di tutti i siti di informazione, quello che ho detto appare evidente. E costituisce un problema.
Ma cosa sta accadendo in Italia? C’è un racconto della democrazia che coincide con un esito possibile, cioè l’idea che, anche se siamo in un’epoca proporzionalista, c’è una destra sovranista, molto forte, che ha l’obiettivo di prosciugare quel che resta della cultura liberale e moderata, e poi c’è la sinistra che punta al riassemblaggio fra quel che resterebbe dei 5 Stelle e quel che il PD ha la tentazione di tornare ad essere, cioè una vecchia socialdemocrazia. Quindi uno schema bipolare. Ma non è tanto questo che mi allarma, quanto il bipolarismo per estremi, cioè il racconto per estremi della democrazia. Perché significa che il populismo ha contagiato anche le forme della democrazia rappresentativa, perché se il PD negli ultimi 10 anni ha avuto tentazioni e atteggiamenti populisti per timore di farsi scavalcare dai 5 Stelle, e se i liberali superstiti oggi hanno la preoccupazione di intestarsi le battaglie di Salvini, evidentemente c’è una polarizzazione e alla democrazia degli estremi subentra una democrazia secondo la quale al cittadino è dato scegliere fra la riduzione della legittima difesa (che comporta il venir meno della proporzione fra offesa e difesa e l’appaltare alla mano privata la difesa dell’ordine pubblico), e il giustizialismo dell’altra parte, per cui la prescrizione viene interrotta dopo il primo grado di giudizio sine die, come persecuzione di Stato. Una democrazia dove si sceglie fra la modifica della legittima difesa della Lega e la modifica della prescrizione proposta dai 5 Stelle è una democrazia da cui quelli come me devono solo andar via. Ecco, ho scritto questo libro perché penso sia possibile un racconto diverso della democrazia e se riusciamo a farlo apriamo degli spazi che consentano a questa contrapposizione di estremi di essere sfumata, di venir meno per essere sostituita da una dialettica in cui finalmente i saperi illuminano quei grigi, quelle zone d’ombra e quella complessità che costituiscono la democrazia. Quelle differenze che aiutano a capire che fra un centrodestra liberale e una destra sovranista c’è un oceano, che fra un riformismo di sinistra e il radicalismo ideologico di chi vuole sovvertire le basi della democrazia liberale c’è un altro oceano. E’ per tutto questo che ho scritto il libro. Per cercare di riaprire uno spazio alla pedagogia della complessità. E riguarda tutti noi, riguarda per esempio la discussione ridicola sulla tav, con la questione costi-benefici. Ricordo che qualche anno fa in un convegno intervenne l’allora amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Moretti e sollecitato sul fatto che il governo Letta aveva stanziato 100 milioni di euro per la progettazione della nuova rete ferroviaria Salerno-Reggio Calabria, con beata spudoratezza disse che la ferrovia non si sarebbe mai fatta perché “non serve a niente”. E quando gli obiettai che c’erano oltre 7 milioni di italiani che avrebbero avuto giovamento da una rete ferroviaria decente, oltre ai turisti, rispose “i volumi di traffico ci dicono il contrario, dovranno usare un altro mezzo”. Ecco, quando si appalta la maestà della politica alla tecnocrazia accade questo, vale solo l’analisi costi-benefici, che ci porta nel tunnel di una cecità dove i diritti veri e la visione della democrazia si perdono. Purtroppo questa stagione è figlia di questi errori. E il mio libro vuole far capire che se vogliamo sfidare il populismo davvero, senza diventare populisti a nostra volta, dobbiamo riconoscere la linea di continuità che esiste fra i vizi e gli errori delle culture che lo hanno preceduto.
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