Text_ Silvano Arcamone
La sera, a Bologna, può capitare che dopo aver fatto un aperitivo sotto i portici finisci in un vicolo dove davanti al portone del Laboratorio di San Filippo Neri c’è un assembramento di bolognesi, architetti e studenti in attesa di un evento che parla di città invisibili. Intrigato, mi accodo. L’evento rievoca quel capolavoro che Italo Calvino scrisse nel 1972 per raccontarci tutto ciò che quotidianamente ci circonda, ma noi non vediamo, illusi da forme che non sono altro che proiezioni del vivere quotidiano. L’architetto Mario Cucinella è il Kublai Khan della serata e attraverso immagini fatte di foto, disegni e quadri ci conduce in un viaggio attraverso i luoghi meno scontati del nostro paese. Ci racconta la sua città ideale, che in fondo è la Città fatta di riti, mestieri, sacrifici, povertà, intuizioni, creatività, paure, speranze, insomma è un luogo fatto di uomini, dove le forme e il costruito si piegano al sentire della collettività e quindi dell’uomo.
Poi succede che quando s’inizia a parlare del sogno infranto di Gibellina, colpita dal terremoto del 1968, e ricostruita secondo un’idea di città ideale fatta per cittadini e non per gli agricoltori che vivevano quei luoghi, il pensiero torna alla tua terra. Quella terra che ha tremato poco più di un anno fa ed ha distrutto cosa? Ha distrutto cose invisibili. Ha distrutto la città invisibile che, viva e pulsante, si muoveva tra il Maio, la Rita e il Fango. Quella città fatta di mestieri, di affetti, di rituali, di consuetudini, di storie (vere e inventate), di incontri, di appartenenze, di ricordi e di racconti. Mentre la città di pietra è stata ferita, lesionata, la città invisibile è stata irrimediabilmente distrutta, polverizzata, come colpita da una bomba nucleare. Nulla più esiste di quella città invisibile, ormai solo silenzio regna in quei luoghi. È l’anno zero di una terra che più di un secolo fa è stata costretta a reagire e a ricostruirsi secondo quelle che allora erano le migliori tecnologie dell’epoca.
Oggi gli abitanti della mia terra sono chiamati nuovamente a reagire, a ripartire, a reinventarsi, a trasformare una disgrazia in un’occasione di rinascita, a “trovare nella crisi un valore”, a trovare il coraggio di crederci in quell’idea di città invisibile, ormai persa, da ricostruire più bella, sicura e funzionale di prima. È vero, non è semplice credere in una sfida così difficile in un momento in cui anche l’ordinario è un’impresa, in un paese che muore di chiacchiere, insulti, denunce, incompetenza e burocrazia. Purtroppo l’Italia di fronte ad eventi drammatici come il terremoto presenta due facce, l’una bellissima e qualificante che ci conferisce orgoglio e pregio, l’altra triste e a volte odiosa che ci deprime sempre più, squalificandoci agli occhi di tutti. Siamo i più bravi nella fase dell’emergenza, grazie a una protezione civile organizzata e alla solidarietà di un popolo che ha sempre una mano tesa verso chi soffre, ma passata la fase dell’emergenza viene fuori la parte peggiore di noi. Quando dovrebbe iniziare la fase della ricostruzione diventiamo i peggiori. Imbrigliati e frastornati da leggi, ordinanze, codici, regolamenti pieghiamo il benessere dell’uomo al rispetto di norme che sono diventati Totem invalicabili a cui la comunità deve soggiacere. Diventiamo lenti, sconclusionati, indecisi, incapaci di avere una visione e di dare risposte certe alle popolazioni e ai territori colpiti. Ad Ischia purtroppo stiamo assistendo alla stessa pantomima, è passato un anno e mezzo e non c’è nessuna visione su come riportare la vita in quei territori martoriati dal sisma. Ci si limita a buoni propositi e a norme contraddittorie e inconcludenti che dovrebbero semplificare la ricostruzione edilizia, ma nel concreto aumentano la confusione e le incertezze. L’ultimo esempio è l’Ordinanza n. 2 del Commissario alla Ricostruzione che è completamente avulsa dalle problematiche e dalle specificità del territorio, oltre a presentare palesi contraddizioni con il D. L. 109/2018, che regola la ricostruzione post sisma ad Ischia.
La ricostruzione non può limitarsi alla minestrina mal riscaldata dei singoli interventi edilizi, senza una visione complessiva che ridia vita a quei territori. L’assenza di un piano e di un programma per la ricostruzione che contempli processi di sviluppo e valorizzazione del territorio nel rispetto delle proprie peculiarità e dei propri valori, oltre che di ricostruzione delle abitazioni, condanna quelle aree, già depresse prima del terremoto, a un futuro avvolto da grigiore. Questo è il momento in cui bisogna alzare la testa e chiedere di più per noi stessi come fanno altrove, chiedere contributi e azioni speciali per rilanciare l’intero territorio e non limitarsi al comma astruso e inconcludente al quale puntualmente tutte le ricostruzioni rimangono impiccate, facendo dell’Italia la peggiore nazione in tema di ricostruzioni post sisma. I numerosi fallimenti delle recenti ricostruzioni post sisma ci dicono con chiarezza che bisogna cambiare passo, cambiare metodo, acquisire una visione nuova della programmazione territoriale dove le norme e le regole rispondano alle esigenze della comunità, della qualità della vita e dell’ambiente, senza porsi aprioristicamente come moloch indiscutibili a cui un’intera comunità deve sottostare nel nome di principi che non si comprendono.
In Italia, e ad Ischia, bisogna passare dal regno della burocrazia al paese (oggi invisibile) della programmazione e della progettazione, dove tecnici e manager studino e comprendano le criticità di un territorio al fine di elaborare un progetto a scala urbana che dia soluzioni percorribili e dove i temi dell’economia, dell’ambiente, del paesaggio, delle tradizioni, della cultura e della mobilità trovino il giusto equilibrio nel rispetto di quell’uomo e di quella natura che per secoli hanno saggiamente convissuto in quei territori.
“Le città sono un insieme di tante cose” scriveva Italo Calvino in quel libro bellissimo e geniale, un insieme “di memoria, di desideri, di segni, di linguaggi. Le città sono luoghi di scambio e non soltanto scambio di merci. Sono scambi di parole e ricordi”. È così, il Maio era proprio quelle parole e quei ricordi che fatalmente la sera prima del terremoto ci scambiammo a tarda notte in piazza Maio tra amici del posto, seduti ai tavoli della storica pizzeria Catarì. La Comunità colpita dal terremoto potrà dire di avercela fatta solo quando ritorneremo a raccontarci storie picaresche e avventurose a piazza Maio, in una fresca e piacevole notte d’estate.