LO CHEF CHE CON IDEE DI RAFFINATO RISPETTO PER LA TRADIZIONE HA LANCIATO NAPOLI NELL’UNIVERSO DELLE STELLE MICHELIN, PERMETTENDO ALLA CITTÀ DI ESSERE COMPETITIVA CON LE PIÙ MODERNE FILOSOFIE DELLA RISTORAZIONE INTERNAZIONALE.
Il percorso che conduce un napoletano verace a diventare un grande chef parte da lontano, dalle sue origini, dalle sue abitudini…
Il cibo è cultura, nel senso di saper stare a tavola, essere conviviali, da bambino sono stato educato a rimanere seduto finché tutti non avessero terminato il pasto, solo allora potevo alzarmi. Inoltre, a tavola papà non voleva che giocassimo, ridessimo, ed eravamo 5 figli, quindi non era semplice tenerci buoni. Lo considerava un momento serio, durante il quale desiderava che si parlasse, di quello che avevamo fatto nella giornata, anche di quello che era nel piatto, lui era critico riguardo al cibo. Ancora oggi giudica la pasta e patate che mamma fa da 50 anni, ha da dire sul pomodoro, sulla pasta, sul sale, sulla cotica che mette dentro, e così via. Poiché mio padre è stato un macellaio, in molti piatti a casa mia entra la carne, così nella pasta e patate, o nella verza e riso in cui mettiamo le code di maiale. Il mio nonno materno, poi (io studiavo dalle suore alla Sanità, nella zona delle catacombe), era un habitué delle cantine della zona: il lunedì mi aspettava all’uscita dalla scuola e andavamo nell’osteria di due vecchietti a mangiare pasta e fagioli ‘azzeccata’, baccalà in cassuola, anguilla fritta, frittura di alici o di ‘fravaglielli’, piatti oggi quasi scomparsi e che hanno segnato il mio percorso da cuoco, naturalmente dando una nuova lettura degli ingredienti, per esempio l’anguilla ce l’ho in carta, preparata con patate, alghe e zenzero e affumicata nel risotto.
Dal tuo racconto è evidente che i napoletani, anche quelli delle zone popolari, hanno delle radici solide in fatto di gusto: questo li aiuta a capire e riconoscere il buon cibo?
Direi di sì, nel 75% delle case napoletane si mangia bene e anzi sono del parere che se fai una buona spesa non c’è miglior ristorante di casa tua. Detto ciò la mia cucina ha avuto un riscontro positivo anche da parte di persone che immaginano gli stellati come ristoranti in cui ti presentano creme e cremine, arie, porzioni ridottissime, atomi di piatti, perché cerco sempre di interpretare nel modo più originale le ricette con cui sono cresciuto, che fanno parte dei ricordi miei come di tanti altri. Mi rifaccio ancora a mio nonno: con lui mangiavo le alici in tortiera: arrivava a tavola questo piatto dal forte odore di aceto e origano e lui le gustava con tutte le spine. Per Palazzo Petrucci ho creato uno spaghetto con alici in tortiera che la gente apprezza perché è riconoscibile, non lo sente distante. Le polpette al ragù le propongo nell’aperitivo, ho rivisitato il baccalà in cassuola; sto creando un nuovo antipasto che richiami fortemente il sartù, ma in chiave nipponica (preparo dei veli di pomodoro S. Marzano, sopra metto del riso cotto alla giapponese e al centro i fegatini, piselli, formaggio e lo servo a forma di rolls con un brodo di pecorino). In tal modo, do la sensazione del sartù in un piatto più leggero di quello classico, che consente di mangiare altro dopo.
Capisco che il tuo vissuto orienta il modo in cui intendi la professione di cuoco.
Sono convinto che la cucina sia come la musica, fa riemergere situazioni vissute che ci sono rimaste dentro. Per esempio, uno dei ricordi che accomuna tutti i napoletani, del popolo e altolocati, è la rotonda Diaz, dove si va a mangiare i taralli accompagnati da una birra (stesso discorso è per il bror ‘e purp a via Foria o la limonata al chiosco di Mergellina): allora ho creato un tarallo morbido con cuore di birra. L’impasto del tarallo l’ho reso meno grasso, più liquido, al centro il cuore ghiacciato di birra. Abbatto il tarallo e al momento di servire lo faccio passare congelato direttamente in forno, così a tavola arriva fumante mentre la birra all’interno resta fredda. E mi hanno detto “Lino, mi dai la sensazione di essere a Mergellina a mangiare tarallo e birra, tutto in un sol boccone”. Lo stesso vale per due miei piatti storici (risalgono al 1997), la pastiera rivisitata e la metamorfosi di pizza margherita, che di solito faccio per S. Gennaro il 19 settembre: tutti gli ingredienti sono liquidi e stratificati in una coppa, sopra palline di pasta della pizza, come gli struffoli, insomma invece del sangue, da me si ‘scioglie’ la pizza. Questi piatti sono molto figli dell’intuito e la gente si rende conto che faccio una cucina che è vicina a loro, che riesci a spiegarti da solo, senza bisogno che debba farlo un altro, basta guardarla nel piatto. Tutto deve essere riconoscibile, e deve avere un forte riscontro di napoletanità.
Intanto, però, il tuo percorso si è arricchito, con Palazzo Petrucci sei diventato senza alcun dubbio lo chef più in vista della Città e il tuo ruolo ti mette in rapporto con una clientela che ha aspettative molto elevate. Tutto ciò ha cambiato il modo in cui vivi e organizzi il lavoro?
In verità non è cambiato nulla. Certo ho una maggiore maturità, data dagli anni, ho preso consapevolezza piena che non sono necessari gli effetti speciali per colpire. Sono una persona modesta ma so di essere diventato quello che tu definisci un punto di riferimento a Napoli, i nostri ospiti mi danno fiducia decidendo anche di spendere per mangiare da noi cifre che non sono abbordabili per tutti, e questa fiducia devo ricambiarla mettendo grande attenzione a ogni dettaglio e, tuttavia, resto dell’idea che non devo strabiliare con l’aspetto dei miei piatti ma con i loro sapori.
Napoli, che di fatto ha perso tutti i suoi maggiori presidi industriali, si sta convertendo in città turistica con un processo ampio che muove in maniera positiva l’economia della città, e il cibo in questa trasformazione gioca un ruolo determinante perché la ristorazione è una delle leve principali del suo successo come destinazione di vacanze. Di conseguenza, gli chef assumono un ruolo che definisco politico, nel senso che sono insieme protagonisti e parte attiva del rilancio turistico-economico della città, che sta creando migliaia di posti di lavoro. Anche nel quartiere in cui sei nato, la Sanità, sta accadendo questo, puntando su Arte e Cultura ma anche sul cibo. Quindi, Lino Scarallo, uno dei pochissimi chef stellati a Napoli in una posizione centrale come quella di Palazzo Petrucci, ha una responsabilità enorme. Come la vivi?
Sento una responsabilità soprattutto sociale, ti faccio un esempio per spiegarmi: un ragazzo di Cercola, Gennaro Iorio, iniziando come garzone è diventato chef de cave nella straordinaria cantina (350mila bottiglie, 6500 etichette) dell’Hotel de Paris a Montecarlo. Ebbene, insieme, grazie al progetto di un’associazione napoletana, siano andati nelle scuole di Barra, Cercola, Ponticelli a raccontare la nostra storia: per dare un’immagine forte a questi ragazzi, far capire che, benché siano zone complesse che non garantiscono ancora i giusti servizi e in cui la scuola non sempre è competitiva, anche venendo da lì è possibile avere successo. Quanto al lavoro che facciamo qui, noi siamo sempre stati una squadra: è vero che c’è bisogno di personalità-guida, ma è necessario anche un gruppo costituito dalle giuste figure professionali.
Si unisce alla conversazione il commercialista e imprenditore Edoardo Trotta, appassionato di enogastronomia e proprietario di Palazzo Petrucci.
Come è nato il rapporto fra lo chef Scarallo ed Edoardo Trotta, cui si deve la nascita del primo stellato della città di Napoli?
Scarallo Lui mi ha cercato… Ci siamo piaciuti subito e da 13 anni siamo una coppia ‘di fatto’! Entrambi avevamo sogni e ambizioni, ma talvolta lui esagerava, mentre io preferisco la costruzione graduale, non volevo essere solo una moda, cosa che accade spesso in questa città. Edoardo mi parlava da subito di astice blu, di fois gras e io gli spiegai che sono molto legato alla nostra tradizione; contemporaneamente, però, ho lavorato per individuare un percorso che ci portasse a certi risultati, quindi anche ad avere in carta questi prodotti, come accade oggi. Abbiamo aperto il 7 marzo 2007, l’8 marzo avevamo già un tavolo prenotato a pranzo e la sera 25-30 persone. Un riscontro immediato, insomma! Un mese dopo venne a visitarci Antonio Fiore (che firmava la fortunata rubrica Il Critico Maccheronico sul Corriere del Mezzogiorno) e la recensione uscì il sabato successivo: fu un ‘macello’, non sapevamo dove mettere la gente.
Trotta Abbiamo sempre lavorato molto per capire gli errori e correggerli. Dopo un anno dall’apertura è arrivata la stella nel novembre 2008 (per il 2009) che ci ha dato tanta visibilità, 10 anni fa c’era il deserto a Napoli e la guida Michelin ha visto questo faro che si accendeva e lo ha premiato. Siamo stati per 9 anni al centro storico, a piazza S. Domenico Maggiore: abbiamo aggiunto la pizzeria, ideata in modo coerente rispetto al progetto del ristorante Palazzo Petrucci e le due realtà si sostenevano a vicenda. Finché una mattina leggiamo sul Mattino: “De Laurentiis acquista ristorante stellato a piazza S. Domenico Maggiore”! Il presidente del Calcio Napoli aveva comprato l’immobile all’asta e ci ritrovammo un’ingiunzione di sfratto; non intendeva, infatti, trovare un accordo con noi e voleva che uscissimo il 20 novembre quando la pianificazione del ristorante per le feste natalizie era già pronta. Non dormivamo la notte, si rischiava di buttare anni di lavoro. Allora, pensai di inviare una lettera al Mattino intitolandola: “Presidente solo tu ci puoi salvare da questo Tribunale”. Mandammo la lettera al giornale, alla Filmauro e De Laurentiis ci concesse la proroga al 10 gennaio.
S. Così riuscimmo a salvare il lavoro per Natale e intanto cominciammo a cercare la nuova sede. Nulla andava bene, finché un pomeriggio Edoardo mi portò qui in motorino e mi disse di affacciarmi: era già buio e non si vedeva niente, allora questo posto si dedicava solo ai matrimoni. Io non ero convinto, avevo paura di sbagliare la location, pensai pure di dividerci perché non mi vedevo a Posillipo. Lui invece era deciso, e peraltro nel frattempo De Laurentiis ci comunicò che voleva trattare, ma Edoardo aveva già stipulato il contratto per la nuova sede e i lavori di ristrutturazione iniziarono il 25 novembre. Dal 10 (quando andammo via dal centro) al 20 gennaio, ci fu la start up con il trasferimento effettivo della struttura e il 20 gennaio l’inaugurazione. Si bloccò Posillipo, eravamo pieni, 50 colleghi chef mi aiutarono portando ciascuno 800 porzioni: vennero 1500 persone! E da quel giorno tutte le sere abbiamo fatto il sold out. Dalla nostra abbiamo una bellezza naturale e architettonica spettacolare ma – attenzione – non basta il panorama, per crescere si deve investire, continuamente!
Interview_ Riccardo Sepe Visconti Photo_ Riccardo Sepe Visconti e Archivio Palazzo Petrucci
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