Text_ Gianluca Castagna Photo_ Lucia De Luise
Lucia De Luise appartiene a quei fotografi che attribuiscono alla vista, e più precisamente al suo esercizio, un valore etico e al tempo stesso la funzione di una porta magica attraverso la quale ci si incammina verso la conoscenza, lo stupore, l’incantamento. Non poteva, dunque, nemmeno volendo, tenersi lontana da Napoli come formidabile palestra per gli occhi. Città-mondo che impone di andare sempre oltre la comune capacità fisiologica della vista, pur soffocata da milioni di immagini, pose e moduli espressivi. Napoli attira l’attenzione come una sorta di provocazione. Ti costringe a impugnare la macchina fotografica, perché rinunciare alla sua realtà, come alla sua mitologia, significherebbe infliggersi una frustrazione neurofisiologica. Un’incessante sollecitazione a guardare (e pensare) per ogni fotografo. Lucia De Luise è arrivata alla fotografia grazie alla pratica, tutta amatoriale, di suo padre Antonio, osservatore attento delle mille facce del suo paese di origine, Lacco Ameno. Un archivio casalingo di immagini in cui le storie, i volti, i tipi, gli ambienti costruiscono un quadro d’insieme che sposa la centralità delle emozioni al valore del ricordo di un’intera comunità oramai inghiottita nelle spire del tempo. L’abituale trafila nelle redazioni giornalistiche affina il gusto, il reportage irrobustisce il mestiere, gli scatti a teatro (inesausta passione) separano l’essenziale dal superfluo. Un apprendistato allo sguardo che impone di ingegnarsi di fronte al limite apparente dell’obiettivo fisso, con una netta predilezione per quel bianco e nero che sembra assicurare semplicità, immediatezza, verità e concentrazione. Più del colore, sempre lì a complicare la vita e la realtà. Nelle immagini napoletane lavorano emozioni, sentimenti, certezze, smarrimenti. Resistenze messe in gioco con un coraggio (anche di sfidare lo stereotipo) e una consapevolezza narrativa che esprimono nella sua giovane autrice una discrezione stilistica e una maturità espressiva incoraggianti. A dispetto di tutte le trappole disseminate in quel formidabile e insidioso “teatro naturale” che è la capitale partenopea.
«Ogni volta è come se vedessi una città diversa», spiega la fotografa, «non sento il peso di un immaginario preesistente o di convenzioni rappresentative che la riguardano. Al contrario, ne sono stimolata. Dalla gente, dai simboli, dalle contraddizioni, da tutto il contesto espressivo. Mi sento molto più libera, me stessa, le persone si lasciano fotografare con una disponibilità disarmante. Non è sempre così, malgrado la mia discrezione. Ho paura di dare fastidio, perché la macchina fotografica è uno strumento ingombrante, che intimidisce. Ecco, io cerco sempre di pormi alla giusta distanza. Far sentire meno la presenza del proprio sguardo, aiuta».
La complessità fuori scala di una metropoli bigger than life è resa largamente disponibile dalla realtà catturata negli scatti di Lucia. Il ventre molle dei vicoli chiusi e le salvifiche aperture alla luce, il gioco e il dramma, la solitudine e la compagnia, il sacro e il profano, la malinconia di uno sguardo e la gestualità che accompagna da sempre ogni discorso dei napoletani.
Poco vivibile, forse. Con mille ferite, certo. Eppure una delle poche città al mondo dove si comprende veramente cosa significa vivere. Nonostante il degrado, un esempio di città. Dove “esempio” non vuol dire modello ma ciò che, stando accanto, mostra quotidianamente quanto altrimenti resterebbe non percepito.
Scenario catartico, torrido e lunare, nel quale Lucia De Luise si specchia e (forse?) si riconosce.
Un mondo che comprende tutto quel che sappiamo: il cahier de doleance; gli scogli, il mare e i bagni; l’organico e la pietra; Pulcinella e i gatti randagi; gli scugnizzi prestati al rituale religioso; gli umori, fertili e polemici, della strada; il formicolio dei mercati del pesce, dove i venditori trattano con abilità e durezza i propri affari, magari imprecando o lanciando sguardi misti di diffidenza e curiosità. Insomma, tutta la lotta (dagli esiti alterni) del genius loci contro il moloch dell’unanimismo retorico.
Un racconto discreto, quello di Lucia, con tracce minime di post produzione digitale per non tradire l’essenza del reale. Il ritratto di una città che è ancora tutta immersa dentro il suo spazio, nel quale non si pretende di vedere tutto, se lo spirito di appartenenza e gli echi intermittenti delle emozioni sanno farsi ascoltare – anche quando ben sepolti sotto i calcinacci della propria storia.