VISCONTI ERA UN ARISTOCRATICO (VERO), DECADENTE, COLTO, COMUNISTA COME POTEVA ESSERLO UN FIGLIO DELL’ALTISSIMA BORGHESIA DEL PAESE CHE AVEVA VISTO MUTARE COMPLETAMENTE IL SUO MONDO. UN MONDO AMATO, RILETTO CRITICAMENTE, MA MAI RIFIUTATO, QUANTO PIUTTOSTO TRASFORMATO IN CARNE DEI SUOI FILM PIÙ INTENSI. MAESTRO DEL CINEMA ITALIANO, SCELSE ISCHIA PIÙ E PIÙ VOLTE, PER VIVERCI E DOPO LA MORTE PER RIPOSARE NEL BOSCO DELLA SUA VILLA DI FORIO. LO RICORDIAMO A 40 ANNI DALLA SCOMPARSA.
Luchino Visconti muore a Roma il 16 marzo 1976. Improvvisamente, malgrado la malattia invalidante contro cui combatteva da tempo. Cosa resta del suo mito a quarant’anni dalla morte? Com’è cambiato il nostro modo di guardare il suo cinema, di ripensare le sue regie teatrali, di valutare un’esperienza artistica così audace e provocatoria, densa di influenze, subite ed esercitate, e di percorsi, attraversati e compiuti? Cosa scopriamo, di nuovo, nella sua inquietudine d’artista che allora ci era sfuggito? Sono queste le domande che ogni omaggio alla sua personalità dovrebbe porsi e cercare di risolvere, a parte il solito ribadire quanto fosse bravo, meticoloso, colto, appassionato, puntiglioso, infaticabile, insomma, fatalmente Maestro.
Visconti era stato, insieme a De Sica e Rossellini, uno dei tre “rifondatori” del cinema italiano del dopoguerra, anche se la sua strada presto si allontanò da quella degli altri due. All’attenzione neorealista per la cronaca, sostenuta da uno sguardo fondato sull’immediatezza e la rinuncia, almeno apparente, a qualunque filtro estetico, Visconti contrappose presto la dialettica fra realtà e finzione, o fra arte e vita, spesso al servizio di una disillusione di fondo frutto della sua cultura nutrita di decadentismo e melodramma. Portò sullo schermo un mondo di personaggi letterari rivissuti con grande precisione filologica, struggente nitore, forse strapazzandoli un po’, e sui quali aleggiava, perenne e minacciosa, un’acuta coscienza di morte.
I suoi film, in questi anni sospettati di decorativismo e presto abbandonati alle nicchie mortifere delle retrospettive cinefile tout court, rappresentano in realtà un formidabile affresco storico del nostro paese, un’opera-mosaico in cui sono presenti, vivissimi, apporti culturali, ideologici, estetici e figurativi assai diversi fra loro. Una sintesi non sempre sostenuta dall’intensità dell’ispirazione o dalla solidità drammaturgica, eppure ricchissima di sfumature, virtuosismi, richiami agli esempi più alti di teatro, letteratura, musica e pittura del Novecento.
Certo, fu autore raffinato di affreschi sontuosi e decadenti, impareggiabile nel governare le regole rischiosissime del melò (si pensi all’apoteosi espressiva di “Senso”), aristocratico e comunista, troppo ricco per non destare sospetti, eppure costretto, ad esempio per “La terra trema”, a impegnare i gioielli di famiglia per vincere la folle scommessa del cinematografo. O a misurarsi, lui così apparentemente lontano da preoccupazioni prosaiche, con la cultura di un’epoca legata indissolubilmente al neorealismo e ai conflitti del proprio tempo. Visconti non si lasciò imbrigliare dagli abiti stretti di una definizione: a teatro faceva infuriare giudici e perbenisti, al cinema, nel caposaldo “Rocco e i suoi fratelli”, partiva non tanto dal trampolino socialista della prospettiva di classe o delle problematiche legate all’emigrazione meridionale, quanto da un tessuto di reminiscenze culturali e di riferimenti letterari (dal Mann di “Giuseppe e i suoi fratelli” al Dostoevskij de “L’idiota”, passando per “Arialda” di Testori) chiamati a dare potenza incendiaria e impeto drammaturgico all’epopea milanese dei fratelli Parondi. Nel capolavoro della maturità, “Il Gattopardo”, affrontò di petto uno dei rovelli esistenziali che agitavano da sempre la sua contraddittoria personalità. Attraverso la storia del principe Fabrizio di Salina, già raccontata nel best seller di Tomasi di Lampedusa, Visconti fissò sul grande schermo un mondo giunto al tramonto. In agonia. Gli ultimi istanti di vita di un leone ormai stanco che attendeva pigro l’arrivo del lupi, pronti a sbranarlo per prenderne il posto. Intorno a loro, e malgrado loro, la nascita di un Paese (reduce da ingiustizie e ferite durate centinaia di anni), che forse non sarà che un triste aborto. Le contraddizioni dell’artista sopravvissero all’abbandono dell’impegno, quando l’aristocratico filmaker si dedicherà a opere ancora più personali, nelle quali intrappola i suoi personaggi in ambienti che conosceva bene, pronti anche quelli a essere spazzati via da una borghesia sempre più vorace e mostruosa.
In questo senso, malgrado il furore estetico de “La caduta degli dei”, o di “Ludwig” o di certe sequenze di “Morte a Venezia”, film senili e al tempo stesso vitalissimi, Luchino Visconti si dimostrerà più verista di molti colleghi che del neorealismo erano rimasti fieri portabandiera restandone, però, inchiodati.
Molte delle sue opere saranno mostrate negli omaggi che anche l’isola d’Ischia tributerà al Maestro fino al prossimo 2 novembre, anniversario della nascita. “Visconti a Ischia” raggruppa, ad esempio, una serie di iniziative a cura dei comuni di Ischia, Forio e Lacco Ameno, insieme alla Fondazione Opera Pia Iacono Avellino Conte, l’Ischia Film Festival, il Circolo Georges Sadoul con l’Istituto Italiano Studi Filosofici di Napoli e altre associazioni che ricorderanno l’anniversario della sua morte con proiezioni, mostre, testimonianze, reading teatrali e convegni. All’isola, colta non di rado da inspiegabili amnesie, Visconti fu legato per moltissimo tempo. Sin dalla metà degli anni Quaranta, quando, nella quiete di questi luoghi, scriveva in gran segreto appunti per un documentario sulla Sicilia commissionatogli dal Partito Comunista Italiano.
Il contrasto tra la l’immobilità ieratica di un paesaggio straordinario per bellezza e armonia e la durezza delle condizioni di vita degli ischitani, diventa quasi un prolungamento ideale, sebbene di proporzioni meno titaniche, rispetto al conflitto messo a fuoco nel suo prossimo progetto cinematografico. A Ischia Visconti vincerà la sfida di penetrare il mistero delle cose senza guastarne l’incanto. Almeno per un bel po’. Troverà casa, la Colombaia a Forio, testimonianza estrema di quella aristocratica difficoltà ad aderire alla realtà e a uscire dal proprio mondo che è stata insieme di ostacolo e formidabile stimolo per tutta la sua forsennata attività professionale. Una dimora per dandy impenitenti, ritornata oggi nella disponibilità del Comune dopo anni di stupro inaudito e selvaggio prima, beghe burocratiche e artigli di ogni superego che non molla la presa, poi.
A Ischia, Luchino Visconti troverà anche amici e collaboratori. Pochi ma amatissimi. Testimoni discreti della tentazione e della solitudine, dell’eccesso e dell’esilio. Che della condizione umana non sono poi, come erroneamente si crede, cadute patologiche. L’unica ombra, in tanta luce, è data dalle tracce di questo legame. Che restano, in proporzione, troppo poche. Ma questa è un’altra storia.
Interview_ Gianluca Castagna
Photo_ Archivi Ischiacity, Baiocco e La Colombaia