Dal lontano ‘94 cura una rubrica dedicata al vino per Il Mattino, mettendo sotto la lente d’ingrandimento il rilancio che ha visto protagonista la viticoltura campana e meridionale. E dal vino al cibo il passo è stato breve. Oggi, Luciano Pignataro è a tutti gli effetti uno dei più seguiti critici gastronomici italiani e uno dei massimi esperti della realtà della ristorazione nel sud (fino a un po’ di tempo fa sconosciuta, eppure, come dimostrano i riconoscimenti delle guide ufficiali, di ottimo livello), e non solo. Salernitano, attraverso il sito Luciano Pignataro Wineblog racconta con uno stile che lo distingue da tutti gli altri, ristoranti e trattorie, chef e ricette, cucina gourmet e il mondo delle pizze, che di recente lo ha sedotto, vini e dolci, prodotti e persone che compongono questo universo in continua evoluzione, di cui Pignataro riesce a rendere con vividezza dinamicità e storie.
Quali sono gli elementi che concorrono alla formazione di un giudizio su una pietanza?
Il mangiare. Mangiare e viaggiare. Viaggiare e mangiare. Più si viaggia e più si mangia, più si mangia e più si viaggia. L’esperienza. E poi la conoscenza delle tecniche, che viene di conseguenza quando si gira.
Come si diventa critico gastronomico?
La formazione di un critico gastronomico passa attraverso l’esperienza, la “prassi come forma di conoscenza”. Mancano in Italia delle scuole per diventare critico gastronomico ed è un serio problema. Non si deve confondere la comunicazione con la formazione di un critico, sono due temi completamente diversi. La comunicazione deve spingere la promozione di un territorio e delle realtà che sono in esso, mentre il critico è colui che deve conoscere la storia di ciò che è avvenuto prima che iniziasse la sua attività e insieme tutto ciò che c’è di nuovo. Per avere un buon degustatore sono sufficienti due-tre anni, se ci pensi le bottiglie di vino si può procurarsele anche restando fermi in un determinato luogo, non è così per il critico gastronomico. Per diventare uno che ne capisce di ristoranti sono necessari dai 5 ai 10 anni: devi conoscere tutti i migliori ristoranti italiani, e averne visitati tanti in Francia, diversamente è come un cattolico che non sia mai stato a S. Pietro o un musulmano che non va alla Mecca; e poi si devono capire le tendenze più forti, che al momento sono imposte soprattutto nel Nord Europa e in Asia. E’ una formazione complessa, lunga e costosa.
E’ evidente che il critico deve essere anche una persona di cultura, ma questa spesso non va di pari passo con quella degli chef… Si può diventare un grande chef anche se non si ha una grande cultura?
Certo, sì. E’ un mestiere fatto di tanta manualità, e poi dobbiamo capirci su cosa si intende per cultura. Sicuramente, lo chef deve conoscere bene i prodotti del proprio territorio, ma anche quelli che vengono da fuori. Siamo in una fase molto fortunata: la facilità di spostarsi da un luogo all’altro, la tendenza sempre maggiore a muoversi, fa sì che anche i cibi viaggino come mai era successo dalla scoperta dell’America. C’è uno scambio vorticoso di prodotti, materie prime, tecniche e ciò influenza le cucine degli chef più attenti. Quindi, il cuoco deve avere una visione umanistica e non solo tecnica del proprio lavoro, ma non deve necessariamente avere una vasta cultura generale. La pratica ha un ruolo molto importante, è un lavoro di tipo artigianale, in cui la trasmissione del sapere avviene “a bottega”, non esistono studi teorici e manuali che ti fanno diventare un grande cuoco se non hai una vicinanza costante con chi lo sa già fare.
Quindi, è un mestiere che si tramanda?
Soprattutto. I giovani iniziano prestissimo e viaggiano moltissimo; oggi è facile trovare ragazzi di 25 anni con alle spalle già dieci anni di esperienza e che hanno respirato un’aria internazionale. E la cosa bella è che in quest’ambito l’Italia si presenta omogenea, non ci sono differenze fra il Nord e il Centro o il Sud. Le differenze sono piuttosto generazionali: più sono giovani, più sono abituati all’idea di muoversi. Alcuni, poi, commettono l’errore di voler tornare troppo presto a casa: lo considero uno sbaglio, perché il ritorno va fatto quando si è maturi, non mentre si è ancora in formazione.
Quanto deve essere cattivo un critico gastronomico?
Penso che il suo obiettivo sia servire i lettori. Chi viene come me dal giornalismo – cronaca e soprattutto giudiziaria – ha un esercizio a scrivere in modo che il giorno dopo non possa essere smentito, perché le migliori querele si prendono per distrazioni su piccole cose. Il vero critico è quello che racconta senza innamorarsi di uno stile, deve rimanere sempre un passo indietro rispetto a ciò di cui parla, non deve essere lui il protagonista, non deve pensare di avere l’arma in mano, deve rinunciare all’esibizione di potere che sempre ti dà la parola o la scrittura, deve invece pensare a chi il giorno dopo siederà al suo posto con l’idea di provare le sensazioni che lui racconta. Se ciò non accade è stato fatto qualche errore nella scrittura e, a differenza del passato, oggi che grazie ai mezzi che offre la rete ognuno può facilmente dire la propria, gli sbagli vengono subito portati in evidenza. E questo lo considero positivo, perché prima l’autorità ti veniva dalla sede in cui pubblicavi, oggi assai di più dai contenuti.
O dai follower, da quante persone ti seguono?
No, è sempre fondamentale ciò che dici, se sei accurato e puntuale la gente ti segue, e il riscontro c’è quando scelgono il ristorante che hai indicato e i ristoratori lo sanno benissimo.
E questo rende il critico potente!
Il vero potere è quello che non si esibisce, è quello che eserciti ma non rendi manifesto, che non ti obbliga a far vedere i muscoli. Ti viene dall’autorevolezza, dalla capacità di saper descrivere la verità.
Esiste la perfezione assoluta in cucina?
Per me la perfezione è la pizza Margherita, o gli spaghetti al pomodoro, nel senso che la perfezione non è frutto dell’invenzione di un singolo ma della sedimentazione di esperienze cui concorrono diverse generazioni, fino a che qualcuno – il genio – mette insieme i diversi elementi e nascono questi piatti. E la perfezione assoluta è ciò che diventa classico, vale a dire cibi che si continueranno a mangiare a prescindere dall’epoca e dalle condizioni contingenti.
Come valuti l’esasperata tendenza a destrutturare i piatti per poi ricostruirli?
La classifico come una moda, e questa nello specifico sta già tramontando. Adesso la tendenza è piuttosto la ricerca dentro la materia, si punta al prodotto per cercare di estrarvi il maggior sapore possibile, si mira all’essenziale con sempre meno virtuosismi. La cosa essenziale è avere un progetto coerente di cucina e portarlo avanti; i cuochi che cambiano a secondo delle tendenze che hanno orecchiato (dall’uso delle spume non funzionale al piatto alla destrutturazione solo per ragioni estetiche, quando non c’è niente da destrutturare) non diventeranno mai grandi. Siamo in una fase di vuoto etico, di grande confusione per cui ci attrae ciò che stupisce, diventa una scorciatoia per chi non ha contenuti da proporre. “E’ del poeta il fin la meraviglia” diceva Giovan Battista Marino, massimo esponente della poesia barocca: ecco, accade che anche in cucina si lavori solo per stupire, attraverso la tecnica, mentre la cosa fondamentale è il contenuto, costituito dal prodotto e dalla materia. Per esempio, se stando a Ischia scelgo un coniglio della Selecta, invece di procurarmelo con una ricerca fra i produttori locali, o nelle Murge, invece di un agnello allevato sul posto lo acquisto dalla Longino, userò sì grandi prodotti ma che hanno la loro ragion d’essere se mi trovo ad operare in un albergo di Capri, Roma o New York, dove è difficile reperire quelle materie prime, diversamente devo servirmi dei prodotti del posto, sennò quale valore aggiunto do al piatto?! E ancora: tutti adoperano cotture a bassa temperatura, per tempi lunghissimi, e poi magari non sanno sfasciare un animale o eseguire correttamente una cottura a fuoco vivo, e questo non va bene.
Meglio un cuoco molto bravo o uno geniale?
Dipende. Sono figure non sempre compatibili. Talvolta, per una struttura importante è meglio puntare su un buon professionista piuttosto che su uno chef estroso; la struttura che può permetterselo, scegliendo una figura più creativa, può raggiungere obiettivi molto ambiziosi.
La scelta di recensire soprattutto ristoranti del Sud è voluta?
Sì. Fino a dieci anni fa dettavano legge le guide cartacee, sia per il menù che per il vino, e in quasi tutte il Sud non era mappato, perché gli editori, le aziende che supportavano le guide e il mercato delle guide gastronomiche si concentravano al Nord. Quando si è aperto lo spazio dato dal web, l’idea è stata di andare a battere quei territori inesplorati di cui nessuno aveva mai parlato fino a quel momento. Quindi, abbiamo visitato, pizzerie, trattorie, piccoli produttori non solo della Campania, ma di tutto il Meridione, documentando la grande crescita di una regione che è importante dal punto di vista gastronomico. Dico sempre che se non ci fosse Napoli non ci sarebbe cucina italiana: pasta, pizza, pomodoro, limoncello vengono tutti da qui; certo altre regioni danno il parmigiano reggiano, il grana padano… Ma nessuna concentra in sé prodotti e cibi che sono l’emblema dell’Italia, anche all’estero, per cui parlare della cucina napoletana significa parlare di quella italiana. Da 4-5 anni ci occupiamo di tutta l’Italia, la città che più segue il blog è Roma non Napoli, e poi Milano; ci occupiamo un po’ di tutta la gastronomia italiana, che sta vivendo un ottimo periodo ed è interessante ovunque.
Parliamo degli chef che hanno ideato Ischia Safari, la kermesse gastronomica che in settembre ha portato a Ischia per la sua seconda edizione alcuni dei più famosi chef italiani per un doppio appuntamento dedicato alla migliore cucina. Cosa pensi di Pasquale Palamaro, chef del ristorante gourmet stellato Indaco?
Trovo che la sua cucina abbia molte suggestioni moderne e sia in un momento di grande evoluzione. Che si manifesta attraverso un notevole alleggerimento: minor uso di salse, impiego dei grassi giusti, maggiore concentrazione sulla materia. E’ una scelta corretta quella che sta facendo Palamaro, che risponde alle esigenze crescenti di chi si siede alla sua tavola, vale a dire minori calorie e attenzione alla salute, un tema questo di cui si deve tenere sempre più conto.
Il piatto che lo chef Nino Di Costanzo ha presentato alla cena di gala di Ischia Safari ha stupito chi era abituato alle elaborazioni fantasmagoriche che realizzava un tempo: si trattava, infatti, di un risotto al limone abbastanza semplice…
Penso che lui abbia fatto un percorso che lo ha maturato molto da quando ha lasciato il ristorante Mosaico all’hotel Terme Manzi e fino all’apertura del proprio ristorante Danì Maison. Lavorando per Kiton (Ndr. Azienda di abbigliamento maschile di alta gamma), infatti, ha realizzato pranzi per alcune delle persone più importanti della terra, e si è convinto che la semplicità ha la sua forza, e che non è sinonimo di banalità, anzi è qualcosa di molto difficile da raggiungere. Nel caso specifico della portata per la cena di gala dell’Ischia Safari (Ndr. In cui hanno realizzato i loro piatti ben 7 chef tutti stellati), penso che il suo ragionamento sia stato questo: preparare una pietanza abbastanza semplice nella realizzazione, dato che la cucina dovevano adoperarla altri sei cuochi oltre a lui, e poi ha sicuramente pensato a qualcosa che dovesse piacere, e ha puntato sull’acidità, data dal limone. Molti hanno affermato che il carattere acido era eccessivo, io dico che era voluto. Ha scelto un piatto fresco, leggero che stimolando la salivazione, grazie all’agrume, consentisse il passaggio alle portate successive. Se, infatti, dai un primo già appagante, chiuso, grasso, chi sta a tavola ha difficoltà a continuare. Ha fatto una sorta di staffetta, e qui vedi il professionista.
Che giudizio dai di un’iniziativa come Ischia Safari?
Sono manifestazioni poco funzionali per un critico gastronomico, quando cucinano su scala così vasta non puoi farti un’idea delle capacità dei cuochi. Tuttavia, ho scelto di venire perché si tratta di un’iniziativa che dà un segnale interessante, mostra infatti che a Ischia qualcosa si sta muovendo con una connotazione territoriale. E si tratta di un ambito difficile, dove per esempio i produttori di vino non riescono ad accordarsi, per costituire un consorzio, per aderire alle strade del vino… Quindi, vedere due fra i più importanti chef che l’isola esprime in questo momento, Pasquale Palamaro e Nino Di Costanzo, che si uniscono per organizzare una kermesse è significativo, e può essere d’esempio per i più giovani. Anche perché sono tanti gli chef ischitani presenti in realtà blasonate fuori dall’isola, da Andrea Migliaccio ad Emanuele Mazzella, a Libera Iovine. Se gli chef ischitani riescono a fare sistema, l’isola ne guadagnerà in termini di immagine. E ne vale assolutamente la pena, perché ha in sé un patrimonio di biodiversità interessante, con un’anima contadina fortissima e vitale, il che la rende diversa dal vicino contesto napoletano.
Più in generale, cosa pensi della ristorazione a Ischia?
Come in tutti i posti turistici, qui la ristorazione ha sofferto di una certa omologazione e banalizzazione. Si deve considerare, d’altra parte, che in queste isole sono difficili gli approvvigionamenti per chi vuol fare alta ristorazione, la materia prima costa molto, non è di facile reperibilità: per esempio, ha dei costi elevati e non è semplice soddisfare la richiesta di mozzarella fresca e di grande qualità tutti i giorni. Tuttavia, a Ischia in questo settore ci sono sempre state persone che hanno avuto coraggio, penso soprattutto a Libera Iovine, la prima donna a prendere la stella Michelin in Campania, la seconda in Italia. E poi c’è questa nuova generazione di quarantenni… Mi è piaciuto molto che durante la cena di gala lo chef Palamaro abbia ringraziato Nino Di Costanzo di aver scelto di restare nella sua terra, facendo tutto il contrario di quello che comunemente ci si sarebbe aspettati da lui. Chiunque potrebbe pensare, infatti, che a Palamaro dispiaccia di non essere più l’unico chef stellato dell’isola, ma con quelle parole ha mostrato che non è così, che riesce a guardare da una prospettiva più ampia. Proprio aver viaggiato fa capire a questi chef che il mondo è molto piccolo e, al tempo stesso, che gli italiani costituiscono solo lo 0,4% della popolazione mondiale e quindi abbiamo necessità di “fare massa” per mantenere i nostri primati. L’individualismo si può trasformare in un difetto mortale se non si capisce che attraverso la bravura dei singoli deve emergere l’Italia e la sua cultura gastronomica. Per fare un esempio su piccola scala, ma che rende bene ciò che voglio dire, basta guardare alla penisola Sorrentina la cui fortuna, pur nelle rivalità e faide che ci sono, viene dall’essere riusciti a costruirsi l’immagine di un territorio nel quale ci sono molte realtà gastronomiche di elevata qualità, e ciò consente a quell’area di promuoversi turisticamente anche grazie al mangiar bene.