Interview_ Riccardo Sepe Visconti Photo_ Ischiacity
Sono un editore e conosco bene la regola secondo cui ognuno in casa (editrice) sua fa quello che vuole: si decide di nominare o rimuovere un direttore secondo opportunità, ma è pur vero che resta odiosa la pratica del “silenzio”, proprio se si verifica all’interno del massimo settimanale italiano di cultura ed informazione (squisitamente politica) in relazione alla sostituzione del direttore. Leggo L’Espresso da sempre (diciamo una quarantina d’anni circa). Ne ho seguite le fasi di vita accesissime e coraggiose (che si sono succedute con costanza) e l’accoglimento delle tante, tantissime voci autorevoli che in tutti questi anni si sono sobbarcate la responsabilità di analizzare, approfondire, spesso criticare e – tutte le volte che si è reso necessario – denunciare l’abito mentale del popolo italiano (declinato su ogni fronte: etico, ideologico, giuridico, politico, religioso, culturale, economico, sindacale, scientifico, sportivo, giudiziario, o semplicemente radicato nel gusto, espresso nella ciclicità del vivere quotidiano).
Personalmente, ho avuto modo di condividere con un senso di ragionata e profonda approvazione la maggior parte degli editoriali di Luigi Vicinanza. Da giornalista, come da lettore, ho apprezzato molto il forza di talune scelte giornalistiche e la severità necessaria e puntualissima con la quale sono state razionalizzate le risorse della testata senza intaccare minimamente (anzi!!) il senso di “gravità” degli interventi di questo settimanale. Ultimo, per fortuna autorevole, superstite – nel panorama italiano – della tradizione del giornalismo di indagine e di racconto, fatto stando sempre in prima fila. Ecco perché mi amareggia che l’avvicendamento di un direttore così importante, serio e strategico, sia avvenuto senza darne spiegazione ai lettori, costringendo per una volta la testata L’Espresso a non raccontare (ed approfondire) una vicenda di notevole rilievo nello scenario della politica e del giornalismo italiano (e non solo). Propongo ai lettori questa mia intervista (forse l’ultima disponibile in tutto il panorama nazionale) al direttore Vicinanza, rilasciata a pochi giorni dalla decisione di sostituirlo alla guida de L’Espresso.
L’Espresso è rimasto l’unica testata a fare giornalismo di un certo tipo, ha un modo di intendere questa professione che ho ritrovato nel film “Spotlight”. E poi siete attivi su circuiti internazionali, organizzandovi con altre testate e associazioni, alcuni vostri giornalisti, come Lirio Abbate e Giovanni Tizian, vivono sotto scorta a causa delle inchieste che hanno firmato. Cosa significa dirigere un settimanale così?
E’ il mestiere che fanno, sono eroi loro malgrado, nel senso che certo non vorrebbero vivere così, sotto scorta…Quanto a me, sento sulle spalle il peso di una storia imponente e del valore dei direttori che mi hanno preceduto. Naturalmente, si deve avere la capacità di innovare questa tradizione illustre per difenderla, innovarla nel linguaggio, nel rapporto con i lettori, avendo grande cura per il prodotto cartaceo, ma anche per l’uso di altre piattaforme informative e dei social.
L’uso dell’immagine è fondamentale, può raccontare con maggiore efficacia delle parole e le copertine dell’Espresso sono sempre molto interessanti e pregnanti dal punto di vista della comunicazione. Puoi raccontare come nascono?
Sono d’accordo, alcune copertine, quando hanno un’immagine netta valgono più di un editoriale. Daniele Zendroni è il responsabile del settore grafico, poco più che trentenne, molto bravo, partecipa a tutte le riunioni in cui si elabora il numero della settimana. Da queste discussioni collegiali trae i primi spunti per le ipotesi di copertina. Affiniamo poi l’idea e il messaggio che vogliamo dare e la relativa grafica. Noi usciamo venerdì e chiudiamo il numero mercoledì: da quel giorno già cominciamo a pensare al numero che uscirà il successivo venerdì, da lì a 9 giorni. La copertina, quindi, ha un processo di lavorazione lungo, ma capita anche che a pochi giorni dall’uscita del giornale dobbiamo buttare tutto per ricominciare, fa parte di questo lavoro.
Siete una testata generosa: quando è morto Umberto Eco gli avete dedicato uno spazio inusuale, nella sostanza metà del giornale.
Certo, Umberto Eco è l’Espresso! Tanto che abbiamo titolato Il nostro Eco.
Ma dal punto di vista editoriale si tratta di una scelta coraggiosa, che può disorientare i lettori: come hanno reagito?
Molto bene, ne abbiamo anche ricavato un e-book, scaricabile via internet, perché i contributi raccolti meritano di essere conservati.
Da quando Eco non c’è più, mi pare, però, che le ultime pagine dell’Espresso – in cui si alternavano la sua rubrica, La Bustina di Minerva e quella firmata da Eugenio Scalfari, Vetro Soffiato – abbiano perso il loro equilibrio…
Sostituire Eco è impresa impossibile, ci abbiamo ragionato a lungo, anche insieme ad Eugenio Scalfari, dato che quello spazio era “in condominio” fra loro due. E abbiamo convenuto che bisognava sparigliare, per cui abbiamo scelto una figura come Bernardo Valli, un giornalista dalla profondità culturale tale da non invidiare quella di Eco.
Da lettore fedelissimo ho notato che la tua direzione ha coinciso con una serie di cambiamenti e una razionalizzazione del giornale, che lo hanno reso più veloce, asciutto…
Quello dell’informazione è un mondo costituito da un flusso continuo, ininterrotto di notizie, l’informazione ci insegue anche quando non la vogliamo (gli schermi presenti ovunque, le notifiche sul cellulare, ecc.). In questo quadro, il ruolo del settimanale è di essere un’ancora o meglio una boa alla quale attaccarsi, per avere un momento di approfondimento e riflessione.
Guardandovi intorno, con questa vostra costante ricerca di qualità e di un approccio originale ai fatti, non vi sentite isolati, anche rispetto a quotidiani come La Repubblica?
Il fatto che non ci sia concorrenza ci costringe a misurarci con noi stessi, e ad essere severi con noi stessi: per questo teniamo tanto a innovare di continuo. Ma non sono del tutto d’accordo, La Repubblica e Il Corriere della Sera continuano a essere i due grandi quotidiani italiani.
Ho la sensazione che un tempo in Italia ci fossero vere scuole di giornalismo, personaggi eccezionali che ora stento a ritrovare. Sì, ci sono ancora giornalisti che sono delle colonne, alcune testate che si pongono come palestre, ma non vedo più grandi figure come nel passato.
Usciamo da un ventennio politico complicato, in cui ci si era divisi fra berlusconiani e antiberlusconiani, con alcuni che giocavano alla terza forza o, addirittura, al cerchiobottismo. Ed era più facile per tutti noi raccontarlo. Oggi siamo in una fase che riguarda l’Italia, ma tutto l’Occidente, di “terra incognita”. Il lunedì successivo alle ultime elezioni politiche in Spagna, due autorevoli quotidiani italiani (La Stampa e Il Messaggero) hanno scritto rispettivamente: “La Brexit ha influito sul voto spagnolo” e “La Brexit non ha influito sul voto in Spagna”! Chi dei due ha sbagliato? O forse entrambi raccontavano spezzoni di verità, senza però riuscire, almeno nel titolo, a raccontare la complessità della situazione che stiamo vivendo. Forse così si spiega l’inadeguatezza che sembra talvolta venire fuori dal lavoro di noi giornalisti.
Torniamo così alla funzione dell’Espresso, alla responsabilità di cui si carica questa testata, che rimane isolata nel panorama giornalistico italiano. Il vostro lavoro è uno scavo continuo…
Dovresti vedere le nostre riunioni di redazione, sono molto belle, vivaci, tese, perché ho il privilegio di guidare un gruppo di giornalisti dalla raffinata cultura e forte passione civile.
E questo emerge nelle pagine del giornale. Anzi da quando sei diventato direttore, ho avuto l’impressione che ci siano stati degli spostamenti di ruoli…
La quantità di informazione a disposizione del lettore è tanta, per cui ho deciso di ridurre il numero di pagine per puntare sulla qualità.
Facciamo una valutazione sulla politica europea: L’Unione, a maggior ragione dopo la Brexit, appare sempre più debole…
L’inconsistenza e inadeguatezza delle classi dirigenti europee è imbarazzante. Sottolineo questo, perché i populismi (lo dico al plurale perché il populismo, di paese in paese, e in base ai personaggi che lo esprimono, si declina in modo differente) non sono la causa dell’instabilità politica degli Stati occidentali e dell’Europa, ma sono l’effetto dell’inadeguatezza delle culture politiche del ‘900, cioè la cultura socialdemocratica e socialista da un lato, e quella popolar-conservatrice, dall’altro. Entrambe, di fronte alla trasformazione delle società postindustriali o digitali, di fronte alla globalizzazione, non hanno dato risposte innovative e si è pensato che le uniche divinità cui si doveva obbedire fossero la finanza internazionale e i mercati globali. I cittadini, quando votano, lo fanno contro queste divinità esoteriche, che sentono distanti dai loro problemi e chi vota, vota contro. In Francia, dove la Lepin ha sfiorato il 28% dei consensi, in Grecia con Tsipras, in Ungheria con Orbán che innalza i muri, in Austria con Hofer (dove nonostante il proverbiale rigore austrotedesco la Corte Costituzionale ha dovuto addirittura annullare le Presidenziali), per non parlare della legalità britannica che non ha impedito di ipotizzare di ripetere il referendum, semplicemente perché l’esito non è piaciuto… I populismi sono conseguenza di proposte politiche incapaci di affrontare queste grandi tematiche.
E la risposta, gli anticorpi al populismo dove sono?
Se lo sapessi mi candiderei per sostituire Junker!!! Anche lui, oggi presidente della Commissione Europea, della “famiglia” politica dei Popolari, è stato premier del Lussemburgo per 18 anni, e in questo lungo periodo ha trasformato uno dei sei Paesi fondatori dell’Europa nel buco nero dell’evasione fiscale! Che autorevolezza può avere un personaggio del genere… E’ un’anatra zoppa voluta dalla Germania: questa è l’inadeguatezza delle classi dirigenti. La Spagna è in un’impasse che dura da mesi. Il presidente francese Hollande è socialista, e probabilmente il suo partito alle prossime elezioni non arriverà neppure al ballottaggio. Certo, la Francia è lo Stato che, sul fronte della riforma del lavoro sta più indietro in questo momento: sono ancora in vigore le 35 ore che sono considerate ormai un grande privilegio e il sindacato CGT è una CGIL al quadrato: inevitabile che si innescasse uno scontro serio. Paradossalmente, la Merkel, che sembra la più forte, in realtà interpreta anche lei una ventata populista, perché sta arginando i populismi interni imponendo un’Europa tedesca invece di fare la Germania europea. La sua politica del rigore piace molto ai tedeschi, e l’idea che l’Europa debba sottostare alle regole imposte da loro, ne solletica l’orgoglio nazionale che è sempre molto vivo, e lei riesce ad incanalarlo in un alveo democratico. Nel momento in cui la Merkel sparisse dalla scena e dovessero prevalere altri populismi, sarebbe molto preoccupante. L’Europa lo scorso anno è stata impegnata solo a spezzare le reni alla piccola Grecia, per un debito di 70-80 miliardi di euro, ma le guerre a due ore di aereo da noi, i conseguenti flussi migratori, la disperazione dell’Africa Subsahariana, il terrorismo, la disgregazione delle periferie, fenomeno che riguarda tutta l’Europa, ebbene su tutto ciò non riesce a esprimere un pensiero. Naturale che poi al momento di votare lo si fa contro l’Europa. La grande idea europea si sta disgregando a colpi di voto democratico.
Veniamo all’Italia. Al premier Renzi accadrà come a Cameron? Il referendum gli si rivolterà contro? E nel caso l’esito fosse negativo, rischiamo una crisi strutturale? Renzi si è mosso negli ultimi tempi commissariando più che rottamando, come aveva promesso e adesso è in grande difficoltà, con un fuoco amico che lo attacca di continuo.
Renzi ha conquistato legittimamente la segreteria del PD, con buona pace delle cosiddette minoranze del partito, uso volutamente il plurale perché in questo momento non hanno un leader che le guidi, né identità o linea politica, se non un malanimo verso il premier. Il quale è andato a Palazzo Chigi con un peccato originale, la manovra con cui ha fatto fuori Enrico Letta, quando in precedenza aveva sempre detto che il Governo si conquista con le elezioni. A sua volta, lui ha rappresentato la risposta ai populismi montanti anche nel nostro Paese – dei 5 Stelle e della Lega. Quello di Renzi l’ho definito populismo riformista: quando si è insediato due anni fa, aveva due obiettivi, rimettere in moto l’economia e arginare appunto i populismi ”sfondando” al centro. Il risultato delle Europee 2014 con l’irripetibile 40,8% gli ha dato l’illusione di aver raggiunto questo obiettivo. In realtà, non si è fatta nel partito una seria analisi di quel voto, frutto del sostegno di un ben preciso “blocco sociale”, quello costituito da chi ha ricevuto gli 80 euro. Io non sono stato d’accordo con chi ha parlato di demagogia, perché 80 euro al mese per chi ne guadagna 1200 sono una cifra importante, solo chi non percepisce le reali difficoltà della gente può usare la formula riduttiva della “mancia elettorale”. E in effetti, il punto di riferimento di Renzi sono stati i ceti più deboli, e poi il mondo della scuola, per il quale aveva annunciato la riforma e le assunzioni. Il PD che ha preceduto Renzi aveva smarrito la sua identificazione con un blocco sociale, era una formazione di tipo radicaleggiante che non sapeva più a chi parlava. Le mosse successive del premier, però, sono state confuse: è passato il criterio “le riforme si fanno, comunque sia”, senza badare al contenuto, è divenuto importante poter dire: “io questa riforma l’ho fatta”. Primo inciampo, la Buona Scuola: la riforma è stata gestita malissimo e ha rotto quel legame dei cui dicevamo. Altre avvisaglie sono venute dalla sconfitta alle elezioni regionali del maggio 2015, ma la vera perdita della verginità per Renzi – uomo nuovo, che non le manda a dire, rottamatore – si è avuta con la vicenda delle quattro banche, quando lui è stato omissivo, ipocrita; il tutto aggravato dal comportamento familistico del ministro più importante del suo Governo, Maria Elena Boschi. Anche se non ci sono responsabilità penali, il codice etico in politica conta, e la vicenda di Banca Etruria è stata devastante per entrambi loro, e l’ha pagata alle Amministrative della scorsa primavera.
Oltre agli errori del Pd, però, c’è anche l’attività al momento molto efficace, del Movimento 5 Stelle…
Sì, hanno raccolto consensi in modo omogeneo, pescando in tutti i campi. E’ evidente che mentre un simpatizzante del M5s non voterà mai un candidato leghista o di centrodestra, un elettore di destra potrebbe dare il voto ai 5 Stelle…
E siamo arrivati al referendum, che sta dietro l’angolo…
E che Renzi ha provato a trasformare in un plebiscito sulla sua persona, convinto di farcela, mentre gli ultimi risultati elettorali dicono il contrario.
Quindi, il rischio è il ritorno al populismo, magari non nella sua formula più nobile, recentemente difesa da Dario Fo, proprio nelle pagine dell’Espresso?
Il populismo è raccontare delle bugie a ripetizione facendole passare per verità, rendere banali cose complesse. Tuttavia, gente come Salvini fa impennare l’audience televisivo, ma non riempie le urne: i risultati elettorali della Lega, infatti, sono decisamente deludenti. Esiste ancora un forte elettorato di centrodestra, le comunali lo dimostrano: quello che manca loro è il leader e anche la contesa fra Berlusconi e Salvini li danneggia entrambi, quello che è accaduto a Roma lo dice chiaramente.
Mentre a sinistra?
L’elettorato di sinistra c’è, e il leader in questa fase – piaccia o non piaccia – è Renzi.
Parliamo di Napoli, dato che sei anche napoletano. Valeria Valente si è dimostrata una candidata totalmente inconsistente e la città è stata da subito riconsegnata nelle mani di De Magistris, che si scontra di continuo con il Governo.
Il caso di Napoli ci porta a fare un ragionamento sul PD. Renzi è stato innovatore a Palazzo Chigi, ma non è riuscito a rinnovare il partito nei territori e nelle città: quando il PD si riduce in una città come Napoli al 20% circa dei consensi, significa che ormai da tempo non parla più a nessuno. E non perché Napoli sia un’anomalia: piuttosto nella sua eccezionalità anticipa certi processi nazionali. La prima vittoria di De Magistris ha anticipato ciò che è accaduto a Roma e Torino con l’elezione delle due candidate Cinque Stelle Raggi e Appendino, vale a dire il prevalere del candidato terzo, fuori dagli schemi tradizionali centro destra/centro sinistra.