Text_ Gianluca Castagna
Photo_ Riccardo Sepe Visconti Dayana Chiocca
E’ un artista e un artigiano. Un animatore resiliente che realizza le sue opere in solitudine, lentamente, in totale indipendenza. Senza paura dei silenzi o degli spazi vuoti pieni di senso. I suoi quadri parlano il linguaggio dell’uomo, il suo smarrimento e le sue inquietudini, spingendo chi osserva all’esercizio del dubbio di fronte all’illusione del reale. Nascono da un lavoro minuzioso e difficile, idealmente legato alle sue origini e al luogo in cui è nato, Forio, nel 1943. La terra dove ha deciso di vivere dopo una breve ma intensa parentesi per mare.
Mariolino Capuano lascia parlare i corpi, le storie, le frustrazioni, gli inganni, le incertezze, la mistificazione della verità. Probabilmente perché è lui per primo a dubitare su cosa effettivamente sottenda la realtà mostrata. E su come questa realtà vada raccontata. Magari un po’ da illusi(onisti), per far apparire qualcosa dove non c’è niente, avendo il gioco, o la bugia – che è cosa ben diversa dall’inganno – come unica arma da opporre alla brutalità del mondo e all’artiglio subdolo della demagogia.
Il meglio arriva negli improvvisi squarci di una velocità di pensiero che nemmeno la malattia degli ultimi tempi sembra aver fiaccato. In certi raccordi della memoria, nei mille legami sottili e inafferrabili che rappresentano quella dimensione, complessa e contraddittoria, dell’animo umano che cerca di raccontare da sempre nella sua pittura. Un percorso da autodidatta dove le difficoltà vanno affrontate infischiandosene.
«Ho cominciato da bambino, in modo molto naturale, istintivo. Sedotto dalla policromia delle stoffe, utilizzando prima i pastelli, poi, negli anni, le tecniche che mi si presentavano: l’olio, l’acquerello, la tempera, l’inchiostro di china, i colori acrilici, tutto. Mi son dato da fare per non avere maestri, a debita distanza da ogni influenza esterna. Non volevo disciplinare troppo l’intuito. Fino ai 21 anni ho dipinto molto, poi mi sono imbarcato e ho sostanzialmente smesso per quattro o cinque anni. La mia vita era in mare». Le piaceva? «Moltissimo. Navi da carico di compagnie italiane. Giravo l’Europa, i Caraibi, Panama, Sudamerica fino a Punta Arenas, nella Terra del Fuoco. Lì ho compreso la visione errata che abbiamo noi del Sudamerica, abituati come siamo a politicizzare tutto secondo le convenienze della demagogia. L’amerindio è un fetente, traditore per niente. Le rivoluzioni? Violenza su violenza. A Fidel Castro è riuscita perché più fetente degli altri».
Nel 1965 il ritorno a Forio. La rinuncia al lungo corso, il matrimonio, la paternità, l’inizio del commercio. «Ho fatto il putecaro, vendevo mutande. Non ero tagliato, ma sono stato allevato da una zia che non aveva figli e una bottega da mandare avanti. In pieno centro a Forio, davanti al Bar Internazionale di Maria Senese. Sempre pieno di artisti. Mi incuriosivano e affascinavano, da ragazzino mi eccitava guardarli dipingere senza farmene influenzare, anche se a 15 anni ho partecipato a una collettiva con Aldo Pagliacci e compagni. Conservo ancora il catalogo».
Tutti simpatici? «Aldo Pagliacci era straordinario quando non si ubriacava. Enrico d’Assia molto presuntuoso, mentre Moravia era un gran tirchio, litigava sempre con il salumiere sul prezzo della mortadella o del formaggio. Bargheer, o “don Eduardo” come lo chiamavano i pescatori di Forio, era un simpaticone ma un po’ falso. Tutti al bar di Maria, lei sì una bravissima putecara, la facilità con cui si confrontava con questa gente era qualcosa fuori dal comune».
Degli artisti foriani che ne pensa? «Bolivar visse una parte della sua vita in America, faceva quadri astratti, dopo diventò un grande impressionista. Giravano sempre tanti aneddoti su di lui, io ricordo la sua compagna, Maddalena. Litigavano sempre. Lei cercava di mettere bocca mentre lavorava. Aggiungi un po’ di rosso qui, togli là, lui s’infuriava e la zittiva. Maltese è stato un grosso personaggio di Forio, sia come scultore che come poeta, anche se trovo certe sue composizioni in dialetto troppo napoletanizzate. Gino Coppa mi piace molto, è un grandissimo artista».
Pinocchio è il motivo ricorrente nell’arte di Mariolino Capuano. Bambino e burattino. Moltiplicato in cento, mille esemplari, d’ogni foggia, materiale e colori, tutti custoditi nell’atelier del Maestro, in pieno centro a Forio. Marionette, certo, ma soprattutto torrette d’osservazione sul tessuto connettivo della nostra vita adulta. Dove le ambiguità e le contraddizioni non sono solo dimensioni proficue di dubbio e disincanto, ma tentativi di dare un senso, in fondo risaputo, al mistero che ci riguarda. Pinocchio simbolo della bugia. Al punto tale che l’atto del mentire trova un’immediata corrispondenza morfologica: il naso si allunga.
«Non è il Pinocchio che mi interessa. Io ho sempre raccontato l’uomo. Pinocchio non è quel discolo a cui cresce il naso quando dice una bugia. E’ un essere buono, cattivo, santo e mariuolo. Il legno in cui è intagliato Pinocchio, come sosteneva Benedetto Croce, è l’umanità». Del resto, un’intesa sulla bugia è a fondamento di ogni arte. Eccola, la creatura di Collodi, spuntare/rinascere tra le fauci di uno squalo («si badi, non dalla balena»); Pinocchio posto di fronte a una donna gravida e lontano da ogni ricatto emotivo; incarnatosi nell’uomo vitruviano di Leonardo o nel Don Chisciotte di Cervantes schiacciato dalle immagini di Capa sugli internati dei lager nazisti. Pinocchio circondato da foto, nastri adesivi, ritagli di giornale, la cornice stessa della tela. Elementi sempre discordanti tra loro, riprodotti da Mariolino con tale precisione da sembrare veri.
L’uomo è un animale simbolico che ha un rapporto con la realtà, e con se stesso, sempre mediato da parole, immagini, discorsi e racconti. Un linguaggio ormai troppo complesso per non mentire. Non ce ne saranno forse un po’ troppe, di bugie, in giro? «Macché, la bugia è l’uomo, la trama sottile dell’agire sociale, della vita quotidiana come rappresentazione. Ben diversa dall’inganno, che è subdolo, costruito dalla malafede. Io non mi sono mai pentito di una bugia detta. Di qualche azione sì, delle bugie no». I bugiardi più bravi? «Quando serve, diventiamo tutti bravissimi. I peggiori sono invece quelli che non si scoprono mai, anche se in realtà siamo noi a non volerli scoprire. La bugia ci fa comodo perfino nelle grandi narrazioni. La demagogia, ad esempio, è il primo partito d’Italia».
Madornali bugie sono state rifilate durante tutte le campagne elettorali di questo paese. Richieste in fondo dagli stessi elettori, che al politico domandano di mentire per permettere loro di sognare. «Credo nella sinistra come sentimento. O ce l’hai o non ce l’hai. Questo non vuol dire votare a sinistra. Venivo dalla parrocchia e mi iscrissi alla Fgci. Solo che il prete mi imponeva un dogma, il partito qualche altro insegnamento. Tante chiacchiere, tanta demagogia. Al momento opportuno, ognuno ha fatto i comodi suoi. Rimpiangere il passato? Per carità, bisogna guardare avanti. I politici di ieri erano ancora più fetenti». Quelli di oggi? «Non mi piace nessuno. Forse Berlusconi. Vede, io ho sempre avuto paura dei vergini, dei bigotti. Lui non lo è, né finge di esserlo».
Ancora l’arte («la mia salvezza, ha permesso di esprimere me stesso in un altro modo»). Da una parte approdo giocoso di uno sguardo sul reale che si congeda senza smaltire i propri dubbi; dall’altra, l’illusione per modificare concretamente la realtà, sognarne una nuova che non oscuri totalmente la speranza. Un tempo regina di tutti i dissensi. Ma oggi? «L’artista c’è sempre, il sentimento attraversa il tempo, basterebbe metterlo in evidenza. D’altro canto il conflitto con il mercato è una costante. Io l’ho evitato, non volevo impegni. Nessuna seccatura, né scadenze tra me e i miei dubbi, la noia dell’esecuzione, le continue esitazioni. Dipingo quando voglio e cosa voglio. Il panorama, ad esempio, non mi ha mai interessato». E quel grande quadro in soggiorno con l’altipiano del Machu Picchu? «Mi interessa nella misura in cui racconta qualcos’altro. L’ho realizzato una ventina di anni fa, ripensando a una visita in quel sito archeologico di tanto tempo prima. Mi ci portarono alcuni amici peruviani negli anni Sessanta. Travolto dall’emozione, mi misi a cantare. Poi svenni, effetto dell’altitudine. Lo guardi bene. Non c’è solo un paesaggio, ma Forio antica e una lavagnetta vuota. Il futuro da scrivere». Come? «Ho tante idee, ma mi manca la forza di tornare a dipingere. Reduce da un’operazione sbagliata, finito due volte in coma, sono vivo per miracolo. Vorrei preparare anche una mostra, mi avevano chiesto di esporre a Collodi, nel Parco di Pinocchio, ho detto no: troppo kitch».
Mariolino Capuano non teme il tempo della clessidra («Mi dispiace morire, quello sì, ma soprattutto soffrire») e la cosa di cui va più fiero è il suo ultimo quadro. Qualunque esso sia.
E la sera, prima di andare a dormire? «Non penso. Prendo sonno e basta».