SOFISTICATO E INSIEME POPOLARE, IL SUO CINEMA E’ UNO DEI PIU’ POTENTI DEGLI ULTIMI ANNI, SOSPESO FRA REALISMO, ALLUCINAZIONE E FANTASTICO.
Per lungo tempo Matteo Garrone ha accarezzato l’idea di portare sullo schermo l’Italia cafonal di questi anni. Subito dopo il successo strepitoso di “Gomorra”, cominciò a girare per feste, occasioni mondane, vernissage ad alto tasso di goliardia kitsch. Luoghi che giustificano spesso l’esistenza di individui altrimenti disoccupati, quindi degni di attenzioni più politiche che spettrali. Carne cruda, abbronzata, desessuata scaraventata nello spotlight di un regista che sa trasformare in visione anche una scodella per cani. Quando il progetto naufragò, Garrone ne imputò in via ufficiale il fallimento all’impossibilità di trasporre cinematograficamente una realtà la cui autorappresentazione era ed è talmente potente e pervasiva da non poter essere guardata (e dunque modificata) da un occhio che non fosse già il proprio. E poi c’era stato Sorrentino, con tanto di mostri alle prese con i loro cancri ne “La Grande Bellezza” da Oscar. Inopportuno seguire le scie altrui.
Al 46enne regista romano, però, è rimasto il divertimento di aggirarsi, con supremo sprezzo del pericolo, nei gironi infuocati del circo mondano. Senza nemmeno l’alibi di un film da presentare. E col teleobiettivo dei paparazzi sempre in agguato per coglierlo in flagrante a poche settimane dal suo ritrovato status di single. A Ischia Global, però, Garrone un film da presentare ce l’aveva. “Il racconto dei racconti”, parabola fiabesca sull’Italia medievale e sul magico come pretesto per indagare con onestà la natura umana.
Su quel potere che acceca l’uomo trascinandolo verso la turpitudine. Ci voleva un regista italiano tra i più talentuosi e visivamente persuasivi per restituire un senso al significato di “meraviglioso”, anche grazie a straordinarie e immaginifiche location italiane che costruiscono un mondo fatato e maledetto, nel quale i labirinti si scavalcano, i principi non salvano nessuno e nella foresta incontri la magia (anche nera), e non certo il senso. Raffinato e popolare, sospeso tra iperrealismo fantastico e poetica del quotidiano, tutto il cinema di Matteo Garrone è uno dei più interessanti e potenti degli ultimi anni. Film che nascono spesso da fatti di cronaca, ma da cui si allontanano alla ricerca di un realismo inteso come spazio magico dove tutto può accadere.
Già alla fine degli anni ’90 Garrone possiede un preciso sguardo sul presente: è uno sguardo pulito e diretto che indugia sulle vicende di emarginati, esclusi e illusi. In “Terra di mezzo” racconta tre storie, dalla prostituzione allo sfruttamento, ambientate nei sobborghi della capitale. Anche “Estate romana”, uno dei suoi film più belli e poetici, non smette di interrogare il territorio, sulle tracce di personaggi vivi e forse scomodi che si agitano dentro lo scheletro di una città, Roma, sventrata per l’imminente Giubileo. Con l’arrivo della casa di produzione Fandango, e disponibilità finanziarie più ampie, Garrone sposta le coordinate del suo cinema verso una direzione più narrativa e controllata, raccontando un triangolo amoroso all’insegna della possessività (“L’imbalsamatore”), un delirio manipolatorio di castigata crudeltà (“Primo amore”) e un incubo quotidiano tra le Vele di Scampia: è “Gomorra”, tour de force giornalistico/romanzesco che ne rivela il talento al mondo intero. Con “Reality” il corto circuito tra l’oggetto della rappresentazione (un uomo che vuole partecipare a un reality show) e il modo della rappresentazione (lo spettatore che sente quasi di “sbirciare” nella quotidianità di quest’uomo e nella sua mente distorta) diventa definitivo. Dreams are my reality. Quando l’immaginario grottesco cede il passo a un surreale ancora più allucinato e trasgressivo.
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Text: Gianluca Castagna | Photo: Andrea Franco Alajmo, Raffaella Barbieri, Dayana Chiocca