Con lo chef executive ischitano Andrea Migliaccio ho volutamente discusso più di managerialità in cucina che di cibo. Quando si arriva al riconoscimento della doppia stella Michelin, do per scontato che si sappia, se non tutto, molto dei piatti di un pluristellato. Ciò che invece, forse, molti non conoscono è l’organizzazione che permette a quella stessa star dei fornelli di diventare un valore aggiunto nel bilancio dell’azienda per la quale lavora. Alle sue spalle c’è il gruppo turco Dogus che tre anni fa è entrato nella proprietà del Capri Palace – dove il nostro è stellato con i ristoranti L’Olivo e Il Riccio – e in poco tempo lo ha proiettato nel circuito internazionale. Attualmente, infatti, Migliaccio guida come chef executive sei ristoranti di cui ben tre stellati, quelli capresi, appunto, e il neonato Assaje all’interno del lussuoso hotel Aldrovandi di Roma che a pochi mesi dall’apertura è stato subito premiato dalla celebre guida; a questi si aggiungono il Capri di Zermatt in Svizzera e le strutture in Turchia a Bodrum e Maris, e in Croazia a Dubrovnik. Il compito di Andrea Migliaccio è duplice: assicurare un’assoluta riconoscibilità del gusto nel segno dell’eccellenza con ristoranti di altissimo livello collegati a strutture alberghiere e far quadrare i conti in azienda. Gli abbiamo chiesto come ci riesce…
Quanto è importante che il ristorante stellato di un albergo sia in attivo? In altre parole, oggi a un chef executive è richiesto di essere anche un manager, oltre che un cuoco?
Da sempre lo chef si è dovuto dividere tra i due ruoli e in questa fase, forse, ancora di più: i clienti quando scelgono di mangiare in un ristorante gourmet, o comunque di fascia alta, hanno aspettative elevate ed è indispensabile che lo chef riesca ad offrire un grandissimo prodotto e, allo stesso tempo, rientri in parametri produttivi per l’azienda. E ciò è valido nel caso di un ristorante a se stante come di una struttura inserita all’interno di un hotel. Ottenere tutto questo non è semplice, c’è bisogno di eseguire indagini di mercato che coprano diversi ambiti, dal tipo di clientela cui il ristorante si rivolge, alla location, ma si deve tener conto anche della stagionalità e reperibilità dei prodotti. Per noi, poi, che abbiamo più ristoranti in paesi e situazioni diverse, è obiettivo primario affermare un’identità ben chiara. Si tratta di segmenti di mercato differenti, ma lo chef deve essere ben riconoscibile in ognuno di essi, chi si siede a mangiare deve trovarlo nel piatto finito.
Cosa distingue l’ospite di Zermatt da quello di Capri o di Roma?
Sono “nato” al ristorante L’Olivo del Capri Palace, dove abbiamo due stelle Michelin, e lavoro lì da circa 12 anni ormai, dal 2011 sono chef executive del Capri Palace. I clienti di Capri, Roma e Zermatt sono nella sostanza gli stessi, cioè persone con capacità economica elevata che trascorrono a secondo della stagione le vacanze nell’isola durante il periodo estivo e in montagna d’inverno; a Roma l’albergo lavora tutto l’anno, sempre con lo stesso segmento di ospiti, ma spesso si fermano da noi per affari più che per vacanza. A Zermatt, dove abbiamo iniziato la collaborazione nel 2009/2010, siamo riusciti a fidelizzare i clienti, per cui accade che scelgano di trascorrere un periodo di vacanza in ambedue le strutture. Dopo aver conosciuto il nostro prodotto e la nostra professionalità, ci scelgono ancora: i “repeat guest” sono un motivo di orgoglio, lo trovo addirittura più stimolante che avere ogni volta nuovi ospiti.
Le persone ritornano perché scelgono la catena alberghiera o seguono lo chef?
Molto spesso cercano proprio il food, seguono lo chef; se la qualità della ristorazione non è all’altezza, per quanto il servizio sia buono è difficile che tornino. E’ l’insieme del soggiorno che si è in grado di offrire che fa tornare un ospite, a cominciare dalla prenotazione, dall’accoglienza. Si tratta di persone esigenti, che viaggiano molto in tutto il mondo, se non si è competitivi, finiranno per preferire gli altri.
Quanti ristoranti sono sotto la tua direzione?
Al momento sei.
Come riesci a fare in modo che il livello di qualità sia costante in tutte le strutture?
In ciascun ristorante metto dei collaboratori scelti accuratamente, ragazzi con cui lavoro da 5-6 anni, che si sono formati al ristorante di Capri, che è una sorta di scuola. Li sto facendo crescere piano piano, con le giuste attenzioni e dando loro il giusto spazio. La cosa fondamentale è che tutto funzioni nel migliore dei modi, mi preme che i nostri ospiti sentano la presenza mia, dello chef, anche se in quel momento sono lontano. Per riuscirci si deve fare un grandissimo lavoro, stando dietro a tante cose, dalle più banali alle più complesse, è un continuo training, per correggere le più piccole imperfezioni di ciascun collaboratore.
Nella tua brigata prevalgono gli italiani o gli più stranieri?
Per la maggior parte sono italiani; nelle tre strutture all’estero – in Turchia, a Maris e a Bodrum e in Croazia l’Hotel Villa Dubrovnik – i responsabili sono italiani ma c’è anche personale locale che sta crescendo. Gli italiani sono figure necessarie, perché conoscono bene me, la mia identità, sanno cosa voglio, e soprattutto conoscono i prodotti italiani che stiamo cercando di esportare, cosa non semplice da fare, ma la partenza è stata positiva.
Vorrei capire come funziona la collaborazione tra uno chef e la proprietà per la quale svolge un lavoro così strategico. Lo chef chiude un contratto che contempla uno stipendio e degli incentivi, ma non diventa socio? O uno chef che è anche un manager partecipa alle quote delle società per cui lavora?
Attualmente, non ho quote nella società; sicuramente metto tutto me stesso in quello che faccio, per l’amore che ho verso il mio lavoro e per la professionalità che sento di dover dare. Ci potrebbero essere diverse soluzioni, dipende dagli obiettivi da raggiungere, dal tipo di azienda con la quale si lavora e soprattutto cosa quest’ultima vede in te. Quella che indichi non è un’opzione che escludo, è un ragionamento che al momento giusto affronterò anche io con la mia proprietà, ma adesso non lo considero di primaria importanza.
Uno chef può arrivare a posizioni di rilievo senza avere un forte gruppo imprenditoriale alle spalle?
Abbiamo tanti esempi in Campania, e anche ad Ischia, di ristoranti che lavorano bene e ottengono di conseguenza notevoli riconoscimenti anche se non sono parte di una grande azienda. Penso a Gennaro Esposito, alla Torre del Saracino, lo stesso Nino Di Costanzo che adesso ha un suo ristorante ha ricevuto le due stelle Michelin. Ho scelto questi colleghi, perché hanno ricevuto il medesimo riconoscimento che ho io all’Olivo – entrambi infatti sono bistellati – ma non si appoggiano a imprenditori importanti. D’altra, parte, ci sono realtà che pur essendo supportate da proprietà forti non riescono a raggiungere questi traguardi: contano moltissimo lo spirito di iniziativa, i sacrifici che si fanno, la capacità di mettersi in gioco, al di là della proprietà.
È veramente così importante ricevere la stella Michelin? E’ un po’ come l’Oscar per un attore?
La guida Michelin è riconosciuta a livello internazionale, le persone che sono abituate ad un certo tipo di servizio, di qualità e di ambiente, quando viaggiano la consultano molto e ricevere le stelle per il ristorante significa un riconoscimento che va all’intera struttura, dove lavorano in tanti, perché se la qualità del cibo unita alla bravura dello chef è essenziale, dietro c’è il grande lavoro di molti.
Hai mai sognato un ristorante tutto tuo?
Chi fa un lavoro così, soprattutto a un livello così alto, nel proprio cuore ha sempre questo desiderio. Io l’ho sognato in passato; quando sono arrivato a conoscere la struttura dove lavoro oggi, mi sono innamorato della filosofia che la guida e da quel momento ho agito come se i ristoranti fossero miei. Io sono fatto così, non mi occupo solamente dei piatti, cerco di interessarmi a tutto, all’organizzazione e allestimento della sala, e poi i fiori, le luci, la musica, come si muovono i camerieri sui ranghi.
Ti è mai accaduto di essere copiato, di ritrovare nella cucina dei tuoi colleghi idee che sono tue?
Sì, è successo, ad esempio nell’impostazione del menù. Quando nel 2011 sono diventato responsabile del ristorante L’Olivo, ho pensato la carta in maniera diversa: invece di seguire la classica suddivisione (che fino ad allora anche noi avevamo) in antipasti, primi, secondi e dessert, ho dato a chi mangia la possibilità di scegliere in base all’ingrediente principale – uova, verdure e zuppe, pasta e risotti, pesci e carni. Quando sono partito con questa idea erano davvero in pochi a farlo, adesso più chef utilizzano la suddivisione per temi e non per portate. Ciò vuol dire che l’abbiamo pensata bene e gli ospiti lo gradiscono. Oggigiorno non si mangiano più tante portate, nei nostri ristoranti abbiamo sempre uno o più menù degustazione, con porzioni piccole e 5-7-9 piatti diversi. Così possiamo soddisfare distinte esigenze, di chi viene ad assaggiare la mia cucina e preferisce avere un minimo di 5-6 pietanze, come di chi sceglie il ristorante più volte in una settimana o durante il periodo di permanenza, e ad ogni visita preferisce mangiare un piatto o due distribuendo la degustazione su più sere.
Nella tua cucina cosa c’è di ischitano?
Di ischitano c’è sicuramente tanto, ad iniziare dal coniglio da fossa, che ci rappresenta, ne adopero la carne nei ravioli con genovese di coniglio, che accompagno con crema di fagioli di Controne (Cilento) al tartufo nero, friarielli al peperoncino e cipollotto all’aceto di Barolo. E poi mi piacciono le materie prime tipiche della Campania, il provolone, il caciocavallo podolico, la mozzarella, il pescato, che inserisco anche nei menù dei ristoranti che seguo fuori dalla regione.