31/2011
Photo: Oliver Cervera
Text: Gianni Belestrieri
Il jazz non conosce la distinzione, propria invece della musica classica, tra compositore e interprete. E ciò non tanto perché il jazzista è autore di quello che suona, eventualità, questa, che a dire il vero si verifica non molto di frequente, ma soprattutto in quanto ogni sua interpretazione è sempre un processo di reinvenzione e ricreazione, col quale si appropria, sottoponendolo a radicale metamorfosi, di quello che altri hanno scritto. Per questo motivo accade che alcuni di quelli che vengono considerati capolavori immortali della musica jazz come, per fare solo due esempi, peraltro tra i più clamorosi, My favourite things e My funny Valentine, sono ricordati non per chi li ha di effettivamente composti – per inciso, in entrambi i casi Richard Rodgers – ma per le straordinarie interpretazioni che ne hanno dato musicisti quali John Coltrane e Miles Davis. Di tale tratto così peculiare del jazz, il concerto con cui, lunedì 22 agosto, il pianista vicentino, ma romano d’adozione, Danilo Rea ha aperto, nell’impareggiabile cornice del Castello Aragonese, l’edizione 2011 di Piano e Jazz si può considerare una illustrazione perfetta. Pur dedicato a Fabrizio De André, il concerto di Rea è stato in realtà solo un’ulteriore tappa del cammino intrapreso dall’artista per dare espressione e forma al proprio originale universo musicale, alla propria idea di musica, in cui il materiale compositivo offerto dal cantautore genovese ha costituito solo l’innesco, il necessario trampolino da cui ha prendere lo slancio per fare ancora un passo avanti nella propria ricerca personale. Ricerca personale che ci è parso, se abbiamo ben inteso il messaggio che attraverso il suo pianoforte Rea ha lanciato al folto e attentissimo pubblico accorso ad ascoltarlo, abbia trovato il suo baricentro nella convinzione del carattere profondamente unitario della musica. Sarebbe però assai riduttivo pensare che con ciò Rea voglia semplicemente proclamare l’esigenza di abolire gli steccati tra le varie forme musicali, tra musica alta e musica bassa, tra musica colta e musica popolare, e via dicendo, che è in effetti idea che, al punto in cui siamo giunti oggi, è stata probabilmente già da un pezzo acquisita e, perfino, digerita. E, in effetti, il discorso di Rea si presenta con ben altre ambizioni, che si possono così sintetizzare: essendo una combinazione delle medesime sette note, ogni composizione, brano, o come dir si voglia, è inevitabilmente imparentato con tutti gli altri e costituisce pertanto solo un momento dell’unica vera realtà, che è la musica come totalità. Entro questa prospettiva, il ruolo dell’artista diventa quello di svelare i segreti nessi e le relazioni nascoste dell’unico cosmo sonoro esistente, che all’orecchio del profano sfuggono. Le cinque grandi sequenze musicali che Rea ha eseguito durante il suo concerto sono state pertanto delle vere e proprie epifanie in cui, ora per il tramite di un’affinità melodica, ora per mezzo di un inciso ritmico, ora per la comunanza del sostrato armonico, un tema musicale ne generava un altro in un ‘continuum’ potenzialmente infinito. Un pubblico strabiliato ha così scoperto, per fare solo alcuni esempi, che What a Wonderful World è l’altra faccia del Pescatore, che l’Habanera della Carmen è l’anello che congiunge L’uomo in frac a Bocca di Rosa, o che, ancora, Un giorno dopo l’altro e Senza fine sono fratelli siamesi. Può darsi che, a freddo poi, a qualcuno possa essere venuto da pensare che le procedure di scoperta messe in opera da Rea peccassero di una certa ripetitività e meccanicità e che, a volte, si risolvessero nella ricerca dell’effetto fine a se stesso. Ma, nella suggestione del momento, sicuramente un siffatto pensiero non avrà trovato la via per affacciarsi alla mente di nessuno dei fortunati presenti che, con prolungati e vibrati applausi, hanno decretato il successo della serata.