Text: Riccardo Sepe Visconti
Non so se per voyeurismo, inerzia alla lettura o semplice accidente, fatto sta che in parecchi hanno letto il mio precedente editoriale e non pochi fra loro mi hanno detto di averlo apprezzato ed essersi perfino commossi. Cosa scrissi? Parlai della morte di mia madre il giorno che io nacqui e di come, da allora, l’isola d’Ischia divenne il mio rifugio. Scrissi quell’editoriale perché sentivo il bisogno (inconscio, chissà?…) di spiegare in pubblico le ragioni che mi legano all’isola; avevo questa necessità probabilmente perché desideravo “giustificare” la mia nomina ad assessore alla cultura ed al turismo a Casamicciola Terme. Molti, infatti, si sono chiesti perché proprio a me sia toccato questo bel compito, ed io ho risposto: forse hanno scelto me perché sanno che amo Ischia. Adesso, dopo aver raccontato cosa mi lega ad Ischia, desidero approfittare dello spazio riservato all’editoriale per spiegare perché faccio Ischiacity. Ma per farlo, abbiate pazienza, dovrò, anche questa volta, cominciare da una storia accaduta moti anni fa… Come ho già scritto, sono praticamente nato orfano di madre (mio padre morirà, invece, al compimento dei miei 18 anni) e quindi sono stato allevato da un coacervo di zie (le sorelle di mio padre). Queste si dividevano in due gruppi: coloro che stravedevano per me e quelle che non mi perdonavano di essere stato la causa della morte di mia madre (morì partorendomi). Cosicché nell’educarmi si alternavano gesti affettuosissimi, al limite della sdolcinata melensaggine (una di loro mi chiamava “Zuzù blu” (capite?!… Zuzù blu!!!), ad improvvise e sproporzionate sfuriate il cui solo scopo era “riequilibrare” le ingiustizie che la mia nascita aveva prodotto. Mio padre, che per i primi dieci anni della mia vita fu silenziosissimo, perennemente impegnato nel lavoro, sempre vestito a lutto (poi, in seguito, cambierà – e molto! – ma questo lo racconterò in un altro editoriale) e soprattutto distante, incarnò una figura grave e dissenziente che mi osservava crescere da lontano. Tutto ciò, inevitabilmente, produsse in me non poco disagio, ed il disorientamento si riverberò sul rendimento scolastico. All’epoca dei fatti, frequentavo la quarta elementare ed avevo una bellissima maestra – Anita Piccinni Numeroso – molto colta e capace di insegnare. In una classe di 40 allievi ero l’unico a chiamarla “Signora” e non Maestra, dal mio tono di voce s’intuiva che la “S” era maiuscola: stravedevo per lei e la rispettavo davvero molto. La Signora un giorno ci assegnò un tema che svolsi, per la prima volta, con un tale impegno, da vedermi assegnato un 10! Pensate, ebbi un 10 quando di solito non riuscivo mai a raggiungere più di 7! Il sette a quei tempi si dava solo ai ragazzini più incapaci di un mulo! Insomma, presi 10 e ne fui molto fiero, tornai a casa e affrontai mio padre: “Babbo, Babbo, ho preso 10!” Ma egli, invece di congratularsi (come avrebbe fatto qualsiasi altro genitore), mi disse: “Certo, hai preso 10. Ma non è 11!”. Al che, incredulo, risposi: “Babbo, ma 11 non esiste!”, e lui: “Se vuoi, puoi ottenere 11, 10 non basta!”. Tornai a scuola e supplicai la Signora di darmi 11 ma, naturalmente, non ci fu verso, ella replicò che era impossibile. Dopo qualche giorno, mi fu assegnato un nuovo compito, lo svolsi bene e questa volta ebbi 10+. Un delirio di gioia! Rincasando, riferii a mio padre, ma lui imperterrito ritornò sulla storia dell’ “11”: “Sì, è vero, hai preso 10+, ma non è 11!”. Mortificatissimo, l’indomani, con il volto rigato di lacrime pregai la Signora di sforzarsi un po’ ed “estendere” quel 10 a 11… Ma anche questa volta non volle ascoltare ragioni: “11 non esiste!”. Trascorse dell’altro tempo e, come in una sfida contro l’assurdo, mi superai e presi ad un successivo compito 10 e lode. La storia in famiglia si ripeté identica: mio padre, severo e cinico, sentenziò: 10 e lode non è 11 (bella forza!!!). Allora, il mattino successivo affrontai risolutamente la Signora, mi misi in piedi vicino alla cattedra e (facendomi deridere da tutti i miei compagni) cominciai a ripetere instancabilmente che volevo 11, volevo 11, volevo 11… La Signora mi osservò incredula, si arrabbiò moltissimo della mia incontenibile testardaggine, mi intimò più volte di tornare a sedere dietro il banco, infine prese il mio tema, impugnò una penna rossa e, con un gesto quasi rabbioso, barrò la facciata del componimento con un tratto netto, facendo una doppia X proprio dove era segnato il voto “10 e lode”. A quel punto, credevo che mi avrebbe appioppato uno zero spaccato, invece scrisse sul frontespizio del compito un enorme 11… e lo firmò! Mi diede 11, Mi diede 11! Mi diede 11, 11, 11, 11, 11!!! Ridevo e piangevo, sapevo di avere compiuto un’azione incredibile: avevo avuto un punteggio che non esisteva. Ero andato oltre ciò che riuscivano a prender gli “altri”, i “normali”! Il mio era un voto unico, unico al Mondo! Quando lo mostrai a casa mio padre impazzì: ricordò che mi disse “Chiedimi quello che vuoi, te lo compro!”. Ma quel giorno, dopo un evento tanto eccezionale, sentivo il bisogno di normalità e quindi – poiché era il periodo di Pasqua – invece di chiedergli in dono un jet privato con rifiniture in oro massiccio, optai (e in seguito non me lo sono mai più perdonato) per una ben più sobria tazza da latte di porcellana, sormontata da un grandissimo uovo di cioccolata. Questa è la mia storia dell’11: raggiunsi un voto che non esisteva! A 40 anni da quel mitico episodio, capisco che lo spirito che mi anima nel fare Ischiacity è lo stesso: rincorro un voto che non esiste. Inseguo una forma perfetta, un’armonia, un’eccellenza alla quale nessun altro aspira. Allora era l’11, oggi è il mio magazine. Se Anita Piccinni Numeroso, la Signora che mi insegnò a scrivere, potesse leggere questo racconto, magari sorriderebbe ricordandone la storia e poi si compiacerebbe sfogliando le pagine che, proprio grazie a lei, ho imparato a comporre.