31/2011
Photo: Romolo Tavani
Text: Silvia Buchner
Un tempo era San Nicola, perché sul cocuzzolo, scavato nella roccia, c’era un eremo e una minuscola chiesetta dedicata al santo protettore di Bari: anzi, a Procida quando si voleva dire che era in arrivo maltempo sicuro si usava il proverbio “San Nicola tene ‘u cappiello”, a indicare che la cima dell’Epomeo era avvolta dalle nuvole: insomma i 787 metri di altezza della cima più alta dell’isola erano un punto di riferimento non solo per gli ischitani. Per raggiungerli la guida escursionistica Assunta Calise ha scelto un percorso di circa sette chilometri, per lo più in salita, per il quale occorre indossare scarpe da trekking e pantaloni lunghi: si attraversano, infatti, zone nelle quali la vegetazione è molto invadente. Il percorso inizia dal cimitero di Serrara Fontana, dove si giunge con la macchina: da lì parte una strada ancora asfaltata che sale molto ripida (in pratica, si deve arrivare fino al ristorante Il Bracconiere e proseguire sempre diritto) e conduce alla zona conosciuta come i Frassitelli. I paesaggi a volo d’uccello accompagnano il percorso: lo sguardo spazia da S. Angelo fino a Panza e, mano a mano che si prosegue verso ovest, la visuale si apre ad abbracciare tutto il paese di Forio con il colpo d’occhio della candida chiesa del Soccorso che si protende in mare, e si chiude al promontorio di Zaro. Tutto ai nostri piedi è piccolo ma ben visibile: case e case, strade, ma anche gli specchi azzurri delle piscine, le macchie verdi ancora intatte (per esempio il bosco di Campotese e i promontori di punta Chiarito, del monte di Panza, di punta Imperatore), il mare, una distesa di scaglie dorate così abbacinante da far distogliere lo sguardo, ed attirarlo al tempo stesso. La stradina che si percorre è polverosa, stretta fra il vuoto da vertigine sul lato verso il mare e le pareti di roccia alte e frastagliate che si innalzano fitte verso l’interno. In mezzo alle rocce, scegliendo le stagioni giuste (l’inizio della primavera e fra luglio ed agosto) è possibile ammirare una vegetazione generosa e coloratissima, fatta prima di ginestre ed elicrisi gialli e, in seguito – cosa ancor più eccezionale se si tiene conto dell’aridità e del sole implacabile che batte qui in estate – la distesa della carlina raggio d’oro, e il nome dice tutto sul colore dei fiori. Un’attenzione particolare meritano due rocce appuntite, collocate molto vicine sull’orlo dello strapiombo, che la consuetudine popolare ha battezzato Le due Marie. Proseguendo lungo il sentiero si entra prima in un bosco di robinie e, di seguito, nel castagneto della Falanga, ma noi devieremo prima e i boschi li ammireremo solo dall’alto: le chiome formano, infatti, un tappeto verde cupo, intatto, che si distenderà sotto di noi e che rivedremo di nuovo dalla cima dell’Epomeo. Il bosco della Falanga, infatti, occupa un pianoro a circa 500 m. sul livello del mare, che si è formato proprio al di sotto della parete occidentale della montagna, probabilmente in seguito al crollo di una parte del fianco della montagna provocato da un terribile terremoto. Per salire verso la cima, invece, si deve lasciare il sentiero e inerpicarsi per un solco angusto (il punto di partenza è segnalato in giallo sulle rocce con la vernice per aiutare gli escursionisti), scavato dalla pioggia e dal passaggio di chi lassù possiede frazioni di bosco e del capraio che porta le sue bestie a pascolare: se avrete fortuna le incontrerete, timide, scontrose che s’infilano disinvolte fra gli arbusti come se fossero fatti di velluto e non coperti di spine. Mano a mano che si procede nell’ascesa ci si avvicina – e a un certo punto sembra di poterle quasi toccare – alle rocce che dal basso vedevamo incombere. Su di noi la vetta dei Frassitelli, mentre la località prende il nome di Bocca di Serra, a richiamare appunto la forma delle alture circostanti che ricorda i denti della sega; ma a queste si alternano fogge bizzarre, che sono il frutto del lavorio incessante del vento e della pioggia e del sole, del caldo e del freddo che hanno facilmente ragione del materiale roccioso tenero che caratterizza questa zona, il celebre tufo verde dell’Epomeo, scavandolo, erodendolo, trasformandolo. Una deviazione conduce a una collina dominata da un’alta croce: ricorda che il 9 marzo 1947 il promontorio avvolto dalla nebbia divenne la tomba dell’equipaggio e dei passeggeri (tra civili e militari oltre venti persone, fra cui anche un bambino piccolissimo) di un quadrimotore inglese appartenuto alla 216° squadriglia. Ancora un breve tratto di strada e, finalmente, si giunge a dominare l’altra parte dell’isola: dai Maronti, attraverso monte Cotto, i piani di Testaccio, monte Vezzi, fino alle colline di Campagnano, sullo sfondo Capri e la penisola Sorrentina. Più vicini, in serrata successione Procida e la costa napoletana con capo Miseno, il golfo di Pozzuoli e l’isoletta di Nisida, capo Posillipo. A poche centinaia di metri (ma la salita finale è piuttosto faticosa!) sorge il cocuzzolo dell’Epomeo: completamente glabro, solo tufo scavato in tutti i modi, alle sagome fantasiose dovute allo scorrere dell’acqua nei millenni, si sono aggiunti, infatti, i ricoveri creati dall’uomo. Ma prima si incontra un’altra suggestiva opera dell’ingegno dei contadini ischitani, la Pietra dell’Acqua: un colossale masso nel quale secoli fa è stata scavata la più grande cisterna in pietra esistente nell’isola. L’acqua piovana era un bene preziosissimo, soprattutto in un luogo alto ed isolato come questo (si pensi che la cisterna è ancora attiva e l’acqua raccolta serve tuttora ad innaffiare i campi intorno): quindi, il masso è stato in parte svuotato per ricavare le vasche di raccolta (nascoste e protette dietro una porticina in ferro, sormontata da una croce), ma soprattutto è stato lavorato sulla superficie esterna, dove sono tracciate innumerevoli canalette per imbrigliare tutta la pioggia caduta e convogliarla all’interno. L’erta finale conduce alla cima, dove si combinano paesaggi e storia. Accanto alla minuscola chiesetta di S. Nicola, esistente già alla metà del ‘500, sorge l’eremo – entrambi ricavati nella pietra – che ospitava religiosi alla ricerca di solitudine già nel ‘600. Ma è quando giunge quassù fra’ Joseph D’Argout che gli ambienti destinati ai frati vennero ampliati, la chiesa abbellita e fu stabilita una Regola che scandiva la vita dei suoi abitanti. Fra’ Joseph D’Argout, fiammingo, portò, infatti, nella sua ‘seconda vita’ da religioso, la determinazione, il senso dell’ordine, le capacità di comando che avevano caratterizzato la prima parte della sua esistenza, quando fu il comandante del Castello. Nel 1734 era giunto a Ischia come comandante della flotta che seguì il re spagnolo Carlo III di Borbone quando questi riconquistò il regno di Napoli, togliendolo agli Austriaci. Proprio in quell’occasione fu nominato comandante e governatore del Castello e quando due suoi sottoposti disertarono fuggendo sull’Epomeo, egli li seguì per riportarli indietro. Nel momento in cui li stanò sulla montagna e cercarono di ucciderlo, fece un voto a S. Nicola: se si fosse salvato, si sarebbe consacrato alla vita religiosa. Così fu e indossò fino alla morte, nel 1778, il rozzo saio degli anacoreti insieme ad altri ex militari, suoi compagni. L’istituzione che lui aveva organizzato con molta efficienza – provvedendo ad acquistare anche dei terreni in modo che i frati potessero provvedere al loro sostentamento – gli sopravvisse: fino agli inizi del ‘900, infatti, l’eremo fu abitato e, molto spesso, i religiosi erano di origine tedesca. Di recente il luogo, che oggi è proprietà del comune di Serrara Fontana, è stato ‘ristrutturato’: però, se è vero che si dovevano soddisfare le esigenze di uso diverso da quello per il quale era nato, non sembra che il risultato sia dei più felici. Come spesso, purtroppo, accade infissi, pavimenti, strutture moderne hanno stravolto l’antico, rendendolo solo banale, per non dire addirittura squallido. Infatti, già il degrado che segue rapido l’incuria sta attaccando la struttura, che si trova ora in un limbo da cui si spera qualcuno riesca a farla uscire, prima o poi: non più antica, non moderna, solo abbandonata. Ma i paesaggi che si contemplano dalle finestre (sbarrate per ragioni di sicurezza, poiché affacciano su uno strapiombo) sono di quelli che ti restano dentro: centinaia di metri di vuoto e poi le soffici chiome del castagneto della Falanga; in fondo il tramonto nel mare di Forio. In cima, dove batte sempre il vento, lo sguardo può correre ad abbracciare tutta l’isola e ben si comprende perché questo fu sempre un luogo di avvistamento e segnalazione, anche alla terraferma, dell’arrivo di navi nemiche, soprattutto di saraceni. Da ovest ad est, dalla costa laziale a Capri, si riconoscono i Campi Flegrei, Lago Patria e il Fusaro, Monte Nuovo, Napoli, il Vesuvio, la penisola Sorrentina e a ogni nuovo sguardo si cattura un nuovo particolare. http://www.ischiacitynetwork.info /video.asp?id=384 ASSUNTA CALISE GUIDA ESCURSIONISTICA Organizza passeggiate nelle più belle località dell’isola d’Ischia. PER INFO: 329 53 55 723 Photo: Romolo Tavani e Luigi Irace